di Cristiano e Davide Lugli
La festa di ieri riporta alla mente e al cuore tutta la ragione di essere cristiani, contenendo in sé la grandezza e la bellezza di questo enorme mistero preceduto ed attuato dal Cristo.
Per mezzo della Santa Croce infatti, le tenebre sono state spazzate vie, nell’oblio, facendo così risplendere la luce che sprigiona Colui che, per mezzo dello stesso legno con cui Adamo ci condannò, ci riscatta e ci permette di risorgere a vita nuova secondo quanto spiega San Paolo: “Questa vita che vivo nella carne io la vivo nella Fede del figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me.”
In un mondo dimentico di ciò che l’unica e possibile soteriologia cristiana contempla tramite la Croce, possiamo oggi meditare sull’Esaltazione di Essa, attuata dal giorno in cui il Messia per integerrima volontà Sua, è stato innalzato come Agnello Immolato dalla terra verso il Cielo, cospargendo dalle Sante Piaghe quel Sangue che stabilì una volta per tutte l’istmo tra umano e divino: “Sanguinísuqe pretiósi, quem in mundi prétium”.
Riassunta su quel patibolo amaro viene racchiusa e tracciata la Via che ha calcato per primo, donandosi, il Maestro, dimostrando la possibilità pratica di seguire la stessa strada che mai e poi mai potrebbe esistere senza il carico della Croce: “Io sono la Porta, chi non passa attraverso Me non giunge alla salvezza – ci dice il Signore – Io sono la Guida e il Buon Pastore“.
Non vi è salvezza alcuna senza la Croce, ed ecco perché in nessun’altra religione che vorrebbe dichiararsi come vera ed autentica è così recisamente pronunciata quella dottrina del distacco ben visibile al momento della crocifissione, ove è compiuta la denudazione cristica, spoliazione che richiama la soluzione radicale di morire al mondo per vivere in Dio.
La Croce unisce le due controparti, una vittima del mondo e quindi legata ai beni di esso che necessitano di essere lasciati insieme a tutto ciò che è terra, e l’altra che vale come assoluto guadagno per l’Eternità. Cosa dunque risulta impossibile ai più, impedendoci di scegliere ciò che è visibilmente meglio? Orbene, la difficoltà è situata sul pesante carico da lasciare: carico di materia, di abitudini, di mollezze e di servilismi al nostro corpo, opposto alla leggerezza del piccolo peso che ci sarebbe richiesto di assumere, “onus leve, jugum suave…“.
Per questo non si può approfondire qualcosa di migliore all’imponenza della Santa Croce, con il Figlio di Dio Crocefisso su di Essa. Questa rappresenta il maximo rito di Libertà, il corpo inchiodato, nei sanguinolenti ceppi, e l’anima libera, già assorta in Dio. E come il Peccato di Adamo che scalfirà per sempre la natura dell’uomo fatto ad immagine e somiglianza di Dio vieta l’accesso all’Albero della Vita, la Croce reintegra la proibizione, capovolge le sorti tramite l’obbedienza magistrale al Padre – “Obediens usque ad mortem, mortem autem a Crucis.”
Un vortice che rapprende la morte di Adamo per non aver obbedito, e la morte di Cristo per obbedienza: il primo muore inutilmente e disgraziatamente, per non vivere più, il secondo situa la Sua morte nell’ambito della Vita Eterna, schiudendo ciò che senza la Sua opera redentiva sarebbe rimasto eternamente serrato.
Ancora, potremmo dire che Adamo rifiuta ciò che Dio gli dona, il Cristo si offre invece integralmente al Padre, comprendendo la Sua natura umana crocifissa e mutilata da coloro per cui Egli muore. Il Cælum Cæli che il Messia guadagna è di gran lunga più elevato del terminus a quo che Adamo si è volontariamente precluso.
Guardiamo spesso alla Croce, contempliamo e fissiamola con intensità e profondità. Con raccoglimento sublime sferziamo la ragione a comprendere la “terribilità” di quel magnum mysterium: non è un santo che muore, non è un grande uomo, ma per la prima volta nella storia è Dio che muore. Se la ragione riuscisse a trasformare il pensiero in spasimo fisico potremmo certamente affermare che il corpo umano morirebbe davanti ad un evento così terribile e grande.
Dio che fattosi uomo, vivendo nella povertà e nell’umile sottomissione a Maria e Giuseppe muore da uomo, con la più infamante morte, per tornare in Dio secondo quanto ogni domenica viene detto nella nostra professione di Fede cristiano-cattolica: “Deus de Deo, lumen de lumine, Deus verus de Deo vero.”
Ritorna a Dio solo ciò che da Egli proviene e con Lui vive e cresce, per dimostrare che Dio solo è Dio, nel perfetto paradigma della circolarità divina del Cristianesimo, che si fissa e rincalza il simbolismo del Roveto Ardente che sempre brucia e mai si consuma, così come la Verginità di Colei che ha preso integrale parte nel mistero di Redenzione voluto dal Padre per mezzo del Figlio, tramite la Grazia dello Spirito Santo che ha coperto Maria Santissima.
In questa splendida festività riecheggiano forti le parole di Sant’Andrea di Creta, vescovo, il quale così commenta l’Esaltazione:
“Celebriamo la festa della Santa Croce, e così, insieme al Crocifisso, veniamo alzati e sublimati anche noi. Infatti ci distacchiamo dalla terra e dal peccato e saliamo verso le altezze. È tale e tanta la ricchezza della Croce che chi la possiede ha un vero tesoro. E la chiamo giustamente così, perché di nome e di fatto è il più prezioso di tutti i beni. È in Essa che risiede tutta la nostra salvezza. Essa è il mezzo e la Via per il ritorno allo stato originale. Se infatti non ci fosse stata la Croce, non ci sarebbe nemmeno Cristo crocifisso. Se non ci fosse la Croce, la vita non sarebbe stata affissa al legno. Se poi la Vita non fosse stata inchiodata al legno, dal Suo fianco non sarebbero sgorgate quelle sorgenti di immortalità, sangue e acqua, che purificano il mondo.”
Da patibolo tetro e oscuro quindi, il simbolo della Croce diventa vessillo e trofeo di Dio, poiché con Essa fu vinto il diavolo e di conseguenza, dopo il diavolo, perì anche la morte: “ubi est, mors, stimulus tuus?” Fiaccata la potenza dell’Inferno – ricorda sempre Sant’Andrea di Creta – la Croce diventa la salvezza comune per tutto l’universo, nonostante le rimostranze di chi, come i giudei e i pagani, avrebbero voluto ergerlo per sempre ad icona di ludibrio. È lo stesso Apostolo delle genti a sottoscrivere il rovesciamento di questa malefica volontà, dimostrando che ciò che era scandalo per i giudei, per i pagani, per i greci, fino ad arrivare ai giorni nostri in cui i cialtroni libertari definiscono umiliazione e indegnità, è la nostra Gloria.
Quel reietto di uomo moderno, sempre in preda alla frenesia di riformare, di inventare e di conquistare il mito del progresso che s’impernia come un vortice di cui si conosce l’inizio ma mai la fine, ebbene esso denigra la Croce in quanto “uomo che non conosce patire”, indisposto al ben che minimo sacrificio cerca di innalzare sempre più la Torre di Babele, crogiolando fra le sue disperazioni e le sue gioie, i suoi piaceri e i suoi dolori. Una vita che non è vita ed una morte di cui non si comprende il senso e il seguito, così sarà costretto a vivere l’uomo che non riconosce nella Santa Croce il Tutto, nonché la dimostrazione che nascita e morte sono un’illusione, l’illusione di chi non ha ancora abbracciato interamente Dio. La vita funge dunque da spazio in cui ogni opera deve essere protesa verso Dio, perché se è vero che essa è un’illusione, è pur vero anche che qui in terra conta solo ciò che si fa per Dio.
“Oh!, se noi non avessimo altro da fare che lodare il Signore, nostro Dio, con tutto il cuore e con tutta la nostra voce – è esclamato ne “L’imitazione di Cristo – Oh!, se tu non avessi mai bisogno di mangiare, di bere, di dormire; e potessi invece, lodare di continuo il Signore, e occuparti soltanto delle cose dello spirito. Allora saresti più felice di adesso, che sei al servizio del tuo corpo per varie necessità. E volesse il Cielo che non ci fossero, queste necessità, e ci fossero soltanto i pasti spirituali dell’anima, che purtroppo gustiamo ben di rado.”
In tutte queste speranze, in queste suppliche compunte che provengono dal grido dell’autore di questa grande opera, s’intravede il punto centrale che solo può dar vita alla perseveranza e al coraggio di patire per amore di Cristo: l’abbraccio virgineo della Croce, non solo guardandola da lontano, come qualcosa di inaccessibile e fuori portata, ma baciandola e poi salendola restituendo il nulla che siamo noi e il mondo, al tutto che è Dio, oltre il quale non è nulla.
Schifa, o uomo, il contagio esiziale del mondo moderno, del modello di chiesa che vogliono proporti, per il quale ci si potrebbe salvare anche senza issarsi fino al vertice della Croce! Se non si muore prima di morire si sprofonderà nell’abisso più tremendo. Se non si raggiungerà una piena consapevolezza che nulla siamo e che nulla è il mondo non saremo mai cristiani. Non impantaniamoci nelle paludi offerteci dal Princeps huius mundi, che obnubila menti e cuori personificando una “salvezza a portata di mano”, uno sconto sulle nostre miserie. La Misericordia appartiene solo a Dio e non fa sconti a chi pecca pur sapendo, a chi esaspera la Bontà Sua sbeffeggiando il divin perdono. Non si presuma di poter fare a meno del passaggio che uccide l’uomo vecchio per lasciar spazio all’uomo nuovo, attraverso il Sacrificio che unicamente ha permesso e riaperto l’accesso al Paradiso.
Cristo volontariamente inzuppò il mondo del Suo Sangue, al fine di rendere indelebile la Sua orma terribile, purpurea, fino all’ultima pietra e all’ultimo astro brillante nel cielo.
La mortificazione è l’assioma principale per rendere testimonianza alla Croce, affinché l’uomo possa vivere senza nulla immondare in questo pellegrinaggio, passandovi come un’ombra. L’intransigenza con noi stessi e la carità verso gli altri diventano così i prodromi da cui il cristiano deve imparare a fustigare se stesso, abbattendo tutto ciò che di erroneo esiste in lui. Sempre volto verso quel legno composto dalla verticalità e dall’orizzontalità, egli potrà riflettere sul Cristo che muore uccidendo se stesso, perdonando e salendo sulla cattedra del patibolo per lasciare al mondo il ricambio per quell’atroce morte: la Sua Santa Madre e la fonte di Acqua Viva che sgorga dal Santo Costato trafitto, mescolatasi con il Divin Sangue.
La Madre, straziata e pugnalata da quella spada che le trapassa l’anima, osserva sotto la Croce l’agonia del Suo Figlio intento a compiere gli ultimi miracoli terreni; Ella recepisce e rimane sottomessa alla docenza del Maestro, il quale sceglie, regalmente, di porgere Lei queste parole: “Donna, ecco il tuo figlio“. A tale stregua San Bernardo, la “muraglia inespugnabile che regge la Chiesa”, secondo la definizione attribuitagli da Papa Innocenzo III, fa notare lo struggente scambio a cui è sottoposta Maria: il servo al posto del Signore, il discepolo al posto del Maestro, il figlio di Zebedeo al posto del Figlio di Dio, un semplice uomo al posto del Figlio di Dio. Quell’uomo che rappresenta la sequela di Cristo, ovvero noi cristiani, è consegnato a Maria al posto del Suo dilettissimo Figlio.
Per questo motivo è perentoria la partecipazione della Madonna alla morte di Gesù, nel quale si statuisce il primo ed unico martirio dello Spirito. Se il costato non trafigge più l’anima del Figlio poiché ormai spirato, essa conficca nel cuore della Madre la profezia di Simeone concretizzatasi nella Passione del Figlio. L’anima di Cristo non era più, ma quella della Madre non poteva staccarsi e venne sostituita a quella di Cristo, ragion per cui la forza di quel dolore trapassò l’anima di Maria.
La Santa Vergine accettò dunque, con la medesima umiltà che rappresentò ogni secondo della Sua vita, la volontà del Figliuolo deciso a nascondere la propria divinità, per diventare fonte di scherno per i crocifissori, ma duratura ed eterna Salvezza per coloro che in Lui solo sperano e per Lui solo vivono e muoiono. In proposito interviene sommamente Sant’Agostino commentando il Vangelo di San Giovanni:
“Colui che appariva come uomo, nascondeva la sua divinità: l’umanità visibile accettava le sofferenze della passione, che la divinità nascosta disponeva in tutti i particolari. Vide dunque che si era compiuto tutto ciò che doveva accadere prima di prendere l’aceto e di rendere lo spirito; e affinché si adempisse anche la Scrittura che aveva predetto:Nella mia sete mi hanno fatto bere aceto (Sal 68, 22), disse: Ho sete: come a dire: Fate anche questo, datemi ciò che voi siete. I Giudei stessi erano aceto, essi che avevano degenerato dal buon vino dei patriarchi e dei profeti; e il loro cuore era come la spugna, piena di cavità tortuose e subdole, spugna imbevuta dell’iniquità di questo mondo, attinta come da un vaso ricolmo. E l’issopo, sopra il quale posero la spugna imbevuta d’aceto, è un’umile pianta dotata di virtù purgative, immagine dell’umiltà di Cristo, che i Giudei avevano insidiato e credevano di aver eliminato. Ecco perché il salmo dice: Purificami con issopo e sarò mondo (Sal 50, 9). Noi veniamo purificati dall’umiltà di Cristo: se egli non si fosse umiliato facendosi obbediente fino alla morte di croce (cf. Fil 2, 8), il suo sangue non sarebbe stato versato per la remissione dei peccati, cioè per la nostra purificazione.”
San Tommaso parla di “convenienza somma” nella morte di Gesù avvenuta in Croce, poiché l’innalzamento da terra purifica anche l’aria e prepara noi stessi per la scala del Cielo.
Addentrandoci nella condizione presente non si può non pensare alla preparazione che il simbolo della Croce offre, e tutto ciò che da esso ne consegue.
Un gravissimo problema di cui è certamente necessario preoccuparsi, senza correre il rischio di doversi anche ripetere all’infinito, è circoscritto nell’ambito del cattolicesimo oggi inteso dai più. Il fastidio che la Croce procura al mondo – che spesso si è predisposto per fare la sua parte anti-cristiana – è assimilato in egual modo dai cattolici, persino quelli che dovrebbero insegnare ed occuparsi della salus animarum.
Il Sacrificio di Cristo è stato totalmente rimosso, a volte pare pure rinnegato, in seguito alla riforma liturgica attuata da Paolo VI. Si potrà dire tutto ciò che si vuole a riguardo, e come sappiamo il discorso è sicuramente complesso, tuttavia è palese che l’aspetto espiatorio è totalmente cancellato.
E allora ci si può permettere di proporre qualche nota, per onore alla Verità e anche per l’affetto e la buona fede di tante persone che purtroppo vengono sottoposte agli incantesimi della vedovanza di una spuria “ermeneutica della continuità”.
Nel mondo della tradizione (purtroppo tocca apporre questo genere di differenze terminologiche, tipiche del buio periodo in cui versiamo) vigono oramai moltissime divisioni, ma fra queste ve ne è una che si potrebbe osar definire la più pericolosa, ovvero quella di coloro che, ben consapevoli che la Messa di sempre è l’unica ed ultima rappresentanza del Cattolicesimo Romano, certi che il nuovo Rito è qualcosa di intrinsecamente “cattivo”, restano nel limbo con una superbia inaudita, di chi tenta di difendere la Tradizione dando un colpo a questa e un colpo al Modernismo.
Non è da colpevolizzare chi con modesta umiltà tenta di farsi spazio fra le macerie sottostanti – mi riferisco a molti sacerdoti ma anche a tanti semplici fedeli – , avvicinandosi piano piano ad un mondo che era a loro propriamente sconosciuto, ma il riferimento si intensifica verso chi, appunto, rinnega pubblicamente e consapevolmente ciò che sa bene essere il meglio.
Non è la validità o meno della Messa che giustifica la partecipazione dei fedeli, ma la Gloria che essa rende a Dio: e dove non vi è Croce, per tornare a noi, soave profumo di Sacrificio e visibile immolazione sacerdotale, ivi non esiste la dovuta Gloria debita a Dio. Dove regna ambiguità o sfacciata entropia, là non è la Croce ad esser messa al primo posto, e questo a prescindere da altari girati e canti in latino.
Continuiamo dunque ad essere fedeli alla Sacra Croce, come da sempre il popolo cristiano è stato, cantando nei secoli “Vexilla Regis prodeunt, Fulget Crucis mysterium. Qua vita mortem pertulit, et morte vitam protulit.”
Ricorda sempre Sant’Agostino come ciò che fu pensato quale simbolo sprezzante, diviene in pochissimo tempo onore e glorie di ornamenti dorati sulle corone dei Re, enorme destino di chi ha vinto il mondo per vivere nella Dimora eterna di Dio.
Ma tornando e chiudendo sulla ricorrenza prettamente legata a quella di ieri, che è seguita oggi, per l’ineludibile centripetazione che coesiste fra la Passione del Figlio e i dolori della Madre, è bene soffermarsi brevemente sul significato della spada che trafigge il cuore.
Consapevoli che l’Addolorata è rappresentata con le 7 spade traforanti come conseguenza dei 7 dolori – già di per sé importante simbolismo numerico, su cui purtroppo però, per ovvie ragioni di spazio, è impossibile soffermarsi – è bene sapere in primo luogo che il cuore corrisponde simbolicamente alla sede del sacro, dello Spirito, all’interno dell’uomo; non a caso è spesso associato al calice in quanto ricettacolo del Sangue di Cristo. Ovviamente una tale corrispondenza è lampante nella figura della Vergine Maria, la quale è propriamente definita:
Vas spirituale – Vas honorabile- Vas insigne devotionis, alludendo a Maria quale vaso-grembo in cui si è manifestata la Divinità. Maria diviene, per inciso, un calice vivente, che contiene il Sangue e l’essenza spirituale di Cristo.
La spada, da par suo, simboleggia fondamentalmente la croce, soprattutto nel suo significato metafisico di luogo in cui si risolvono tutte le opposizioni determinate dall’asse verticale e dall’asse orizzontale, che vanno a formare per l’appunto una croce. Inoltre, va specificato che allo Spirito chiuso nella prigione impostagli dal corpo, è da riferirsi il detto “uccidi il vivente”. Ne segue la metafora dell’abbattere, del percuotere, del far cadere, del ferire; e la “forza” che agisce in questa fase, prende per simbolo ogni strumento atto a produrre una ferita, in particolare spada e lancia.
Per cui il cuore-vaso che viene trafitto dalla spada-croce, in termini metafisici, corrisponde al potere di conoscenza spirituale che è dato dalla “purificazione del cuore”. Epperò tale simbolismo è sublimato nell’Addolorata, infatti è del Cuore Immacolato di Maria che stiamo parlando, dal quale, trafitto dalla Mistica Celeste, libera il Santo Spirito di Dio e scaturisce la Sophia, la Divina Sapienza per eccellenza: Sedes Sapientiæ, divenendo appunto Madre dell’Incarnata Sapienza. Potremmo azzardare e definire l’Addolorata come la sublime raffiguarazione della Sapienza di Dio.
Contempliamo dunque il grande mistero della Morte del Figlio assieme alla mistica Morte della Vergine Maria, sotto il peso di quella Croce grondante di Sangue che si trasfigura in Croce di luce e di gloria, cantando contritamente e con le lacrime del cuore l’Antifona odierna al Benedictus: “Super ómnia * ligna cedrórum tu sola excélsior, in qua Vita mundi pepéndit, in qua Christus triumphávit, et mors mortem superávit in ætérnum.”
“Il Sacrificio di Cristo è stato totalmente rimosso, a volte pare pure rinnegato, in seguito alla riforma liturgica attuata da Paolo VI”…
direi che il Sacrificio di Cristo è stato totalmente rimosso e rinnegato come primo gesto di buona volontà di fronte al Mondo da parte della Nuova Chiesa Cattolica Romana, e come recentemente evidenziato nel gesto plateale del suo Capo che si premura di nascondere accuratamente la Croce, strumento di quel Sacrificio, mentre si inchina devotamente davanti a rappresentanti di quel Potere per il quale la Croce è scandalo e infamia e offesa insopportabili.