di Massimo Micaletti
Come reagisce una famiglia all’arrivo (o alla notizia) di un figlio con problemi di sviluppo mentale? Uno degli indici di resistenza – forse il più importante – può essere considerato il divorzio: la coppia reggerà? Il tema si inserisce del più ampio ambito del nesso tra divorzio e disabilità, nesso che esiste e può essere letto in due prospettive: la disabilità di uno dei coniugi, o la disabilità di uno o più figli. E’ agevole comprendere che si tratta di due ipotesi del tutto differenti, che si distinguono poi a propria volta a seconda che la disabilità sia congenita o sopraggiunta, fisica o mentale, transitoria o permanente, del tutto invalidante o consenta un certo margine di autonomia.
In queste poche righe mi concentrerò sul caso della disabilità mentale dei figli: di quel che accade nel caso in cui uno dei coniugi presenti un handicap parlerò in un prossimo articolo.
I dati a disposizione in materia provengono soprattutto dagli Stati Uniti e mostrano come, da una sostanziale uguaglianza nel tasso di divorzio tra coppie con figli disabili e coppie con figli sani (addirittura, uno studio del 1978 attestava che il tasso di separazioni era più basso) riscontrata negli anni Ottanta e Novanta, le rilevazioni più vicine al tempo presente mostrino una maggiore vulnerabilità delle coppie per il caso della disabilità del figlio, sebbene anche oggi non manchino ricerche che offrono esiti più confortanti[1].
Come ho accennato, c’è disabilità e disabilità e ci sono diverse possibilità di recupero ed integrazione nella vita sociale di coloro che ne sono affetti: questo recupero si gioca sulle risposte dell’individuo ma anche sulle capacità e la volontà della famiglie di investire sul futuro del figlio e quindi su come esse famiglie reagiscono.
Ad esempio, in uno studio del 2012[2], dell’NCBI (National Center for Biotechnology Information, con sede a Bethesda, Maryland), sulla condizione dei padri di ragazzi con disordini della sviluppo, i ricercatori, rassegnando diversi studi precedenti ed osservando il proprio campione, hanno constatato tra l’altro che esiste un vero e proprio “Down Syndrome Advantage”, un vantaggio che sia le persone con Sindrome di Down che le loro famiglie hanno rispetto ad altre diagnosi: questo plus si spiega, secondo i ricercatori col dato – statisticamente assodato in USA, molto meno in Europa – che i bambini affetti da Trisomia 21 nascono da genitori già relativamente avanti negli anni ed al secondo o terzo figlio, i quali hanno già esperienza di genitorialità e sanno fronteggiare meglio le esigenze speciali del nuovo nato, supportati anche dai fratelli maggiori.
All’opposto, la diagnosi più difficile da affrontare pare essere l’autismo, o meglio i cosiddetti ASD (Autism Spectrum Disorders) ossia un insieme di manifestazioni e patologie che si possono associare o assimilare all’autismo e che variano per intensità e possibilità di recupero: si tratta di una diagnosi in continuo aumento negli USA ed in ordine ai suoi profili di impatto sulle famiglie si registra un interesse crescente da parte dei ricercatori, con risultati, va detto, non sempre univoci[3].
Un’analisi, sempre dell’NBCI[4], condotta su famiglie che avevano bambini affetti da autismo o patologia comparabile, dimostra che il tasso di divorzio degli sposi con un figlio disabile è del 23,5%, contro il 13,8% delle coppie con figli sani. Il rischio di divorzio, inoltre, non varia in base all’età del figlio ma resta costante sia che la coppia abbia a che fare con un neonato, un bambino, un adolescente, o un adulto; questo fenomeno non si riscontra, secondo l’NCBI, nei matrimoni con figli sani, i quali invece hanno una percentuale di fallimenti decrescente via via che i figli crescono (e l’unione si consolida).
Il dato va necessariamente intrecciato con quello del benessere dei genitori, e qui emerge una prima evidente disparità di indagine: mentre, infatti, molto si sa sulla condizione psicologica delle madri di persone con ritardo nello sviluppo, poco o nulla si sa dello stato mentale dei padri ma i pochi studi che hanno approfondito questo tema hanno riscontrato un disagio ed uno stress molto maggiori nei padri che nelle madri[5]. Lo studio dell’NCBI del 2012 cui ho fatto cenno supra illumina su come la capacità di resistenza del padre sia strettamente legata alla serenità della madre e soprattutto pone in luce ancora una volta il Down Syndrome Advantage: infatti, mentre il 30,8 dei padri di bambini autistici si dichiarava infelice o comunque sotto grave stress, questo accadeva solo nel 6,8% dei casi per i figli con Sindrome di Down. Inoltre, i genitori di figli con ASD sono di gran lunga più esposti al rischio di depressione, e questo rischio è molto maggiore nei papà.
Resta un dato di immediata comprensione (per non dire ovvio) e comprovato da numerose indagini: se uno dei genitori risente a livello psicopatologico o comunque patisce grave disagio per l’infermità del bambino, questo si ripercuote sul coniuge e sottopone la coppia ad uno stress aggiuntivo sovente fatale per il matrimonio.
Cosa ci dicono queste evidenze? Innanzitutto, i dati vanno soppesati con riferimento alla realtà americana, che conosce tassi di divorzio molto alti: il quadro che ne emerge è comunque abbastanza fedele al vero.
Crescere un figlio disabile aggiunge una serie di variabili specifiche che gli altri genitori non hanno; non pensiamo solo ai bisogni speciali che questi bambini hanno, ma ai contesti del tutto peculiari in cui la famiglie viene a muoversi: ambulatori, specialisti, centri di riabilitazione, ma anche – ad esempio – feste di compleanno con pochi bambini e molti adulti, l’adattamento della casa per evitare che il figlio si faccia male, il confronto colle situazioni pubbliche, coi docenti, colle figure di supporto per assicurare il massimo sostegno al fanciullo e poi al giovane e all’adulto che molto raramente lascia la famiglia di origine. A questo va aggiunto un fattore spesso non immediatamente considerato: sovente un figlio malato sottrae un genitore alla sfera lavorativa (sovente la madre, ma non sempre), il che comporta un impoverimento della famiglia, quantomeno rispetto a famiglie con figli normodotati.
Lo studio del 2012 dell’NCBI è molto chiaro nel dedurre che un approccio alla famiglia nella sua interezza è di gran lunga preferibile non solo in termini di risultati sul benessere del figlio con disabilità, ma soprattutto perché il risultato di questo approccio è un consolidamento della famiglia stessa, che ne esce più forte perché più matura e consapevole nelle relazioni tra i vari componenti.
Reggono dunque le famiglie che vedono in questa condizione un problema da risolvere e non una ragione per lasciarsi. Questo comporta una consapevolezza non solo delle proprie potenzialità, ma anche e soprattutto delle potenzialità e delle debolezze dell’altro perché nella prova ci si aiuti e sostenga nella complementarietà. Ne deriva un maggiore impulso alla comunicazione tra i coniugi ed alla capacità – davvero difficile da sviluppare – di perdonare l’altro e soprattutto se stessi: queste coppie reagiscono alla tendenza, ricorrente nei genitori che si trovano in questa condizione, di trovare sempre e comunque nel proprio comportamento omissioni, inadeguatezza, limiti nella cura del bambino.
Vincono quelle famiglie che sanno coinvolgere tutti i componenti, ognuno per il proprio ruolo: figli, nonni, zii. Questo affina e mette alla prova le relazioni, facendo sì che i genitori sollecitino nel nucleo stretto (figli conviventi) l’emergere di una forma di altruismo fraterno che non sempre è immediata e soprattutto rinvengano nel nucleo allargato (zii, nonni, cugini) una naturale selezione sulle relazioni più affidabili e quelle meno profonde. Mettere in moto il processo di solidarietà nel nucleo stretto è molto agevole per queste coppie, anche perché sovente non c’è molta differenza di età tra il bambino malato e i suoi fratelli e questo ha benefiche ripercussioni sulla tenuta del matrimonio. Da questo punto di vista, è molto interessante uno studio condotto nel 2010 dal Waisman Center dell’Università del Wisconsin, pubblicato sull’American Journal on Intellectual and Developmental Disabilities, nel quale i ricercatori si sono chiesti se, quanto e come reggesse la famiglia che aveva già un figlio disabile all’arrivo di nuova prole. Ebbene, l’indagine, che ha attinto al Wisconsin Longitudinal Study, una raccolta statistica che copre la vita di un campione di oltre diecimila persone dal 1957 al 2011[6], raccogliendone dati medici, psicologici, sociologici, economici, ha mostrato che, mentre nelle coppie con bambini sani il rischio di divorzio aumenta progressivamente al crescere del numero dei figli, questo non accade nelle famiglie che contano già un figlio disabile.
Resistono e si rafforzano quelle famiglie che lasciano intatti ed evidenti i tanto vituperati “ruoli di genere”, rispettando la sensibilità maschile e quella femminile. Oltre alle differenze nella percezione del problema tra padre e madre, cui ho accennato supra, va rilevato che, ove la coppia faccia ricorso a forme di sostegno psicologico e pedagogico, persino l’approccio ai servizi di sostegno parentale è differente tra marito e moglie: mentre infatti le donne accettano di buon grado un programma di sostegno familiare che si concentri su di loro e sul figlio, gli uomini all’opposto preferiscono di gran lunga un progetto che coinvolga l’intera famiglia e tendono a rifiutare un taglio che ponga l’attenzione solo su di loro o sulla relazione tra loro e il bambino (o il ragazzo, o l’adulto). Inoltre, le famiglie con figli disabili tendono a sbilanciarsi molto sulla madre, che diviene non solo l’unica persona che cura il figlio nelle necessità quotidiane ma anche l’unica persona che lo educa, con una sostanziale deresponsabilizzazione del padre su questo fronte: ne deriva una sostanziale “sparizione” della figura paterna ed una necessaria compensazione da parte della mamma. All’opposto, la strategia adottata dalle coppie che reggono sta nella piena partecipazione del padre ai processi educativi o quantomeno cognitivi del bambino, mostrandosi presente ed attivo nella propria vocazione educativa.
Lasciatemi aggiungere un’ultima notazione, che magari parrà avulsa e forse buttata lì, ma ragioniamoci un po’ e vedremo che forse così non è: ancora una volta, gli insegnamenti della Chiesa cattolica sono fari sulla strada a volte tortuosa che questi bambini speciali ci fanno percorrere.
In primis, il Magistero millenario ci insegna ad accogliere tutti i figli, comunque essi siano, a riconoscerne l’immensa dignità di figli di Dio e questo ha una valenza non solo di salutare divieto (non abortire) ma anche positiva, di impegno: questo bambino è malato ma vale quanto uno sano e merita altrettanto. Potrà avere bisogni speciali che creano problemi, ma lui non è e non sarà mai un problema, chi chiamerà anzi ad un amore speciale, con note che sono solo per lui. Nella Fede impariamo a riconoscere la gioia sempre grande della maternità e della paternità, e talvolta, con una lacrima che presto si nasconde, a scorgere momenti della Passione di Gesù qui, ora, davanti a noi, magari un quaderno strappato da un compagno di scuola, o nei sorrisetti di scherno di qualche coetaneo al parco.
Più ancora, la Fede e la morale cattolica insegnano agli sposi che hanno scelto di abbracciare il piano di Dio per loro, che è un piano di Amore vero. Così tutto si sopporta e si ama persino: dovreste farvi un giro all’UNITALSI per constatare quanto questi genitori sono capaci di amare i loro figli. Nel matrimonio sacramento, unione indissolubile di uomo e donna davanti a Dio, aperto alla procreazione, culla di ogni vita, c’è posto per ogni figlio, ogni figlio è un dono e porta alla famiglia nuova forza e nuova ricchezza interiore.
Le statistiche sono vere. Ma perché?
Un figlio down è generalmente affettuoso e giocoso, quindi “crea” pochi problemi e si relaziona bene; un figlio autistico o similmente deficitario è non-empatico e quindi refrattario alle normali relazioni affettive, specie al riconoscimento dell’autorità, ergo il padre soffre enormemente per non essere riconosciuto come capo-famiglia. Le donne poi, se come è frequente hanno un affetto viscerale per il figlio, ne percepiscono la sofferenza e quindi lo educano poco, preferendo vederlo felice, col risultato che il figlio autistico, già privo di intelligenza relazionale, rimane maldestro come gli è naturale.
A questo punto la famiglia con un figlio autistico appare molto spesso come un fallimento, la qual cosa suscita vergogna specialmente nei padri, meno “viscerali” e più attenti all’immagine sociale. Se il figlio non appare subito disabile (per esempio un autistico potrebbe sembrare solo svogliato), il marito tende a colpevolizzare la moglie per non saper educare a dovere la prole.