dario fo

 

Intervista a Mons. Bruno Forte sul defunto “artista” Dario Fo, presto… beatificato dalla stampa (anche quella sedicente cattolica), apparsa sul Corriere della Sera di venerdì 14 ottobre u.s. Tra una dichiarazione di agnosticismo pratico e un blasfemo accostamento a San Francesco, pur nel rispetto per i defunti, le sottolineature sono nostre [RS]

 

 

Bruno Forte: Fo sentiva dentro di sé il mistero dell’Altro. Amava San Francesco e ne aveva colto tutta la profondità

«Non lo conoscevo di persona. Ma prego perché Dio, come aveva detto lui stesso, ora possa sorprenderlo». Il primo pensiero dell’arcivescovo e teologo Bruno Forte è rivolto a quella frase che Dario Fo affidò al libro «Dario e Dio», scritto con Giuseppina Manin: «Siamo polvere, mi dice la ragione. Ma poi… la fantasia, l’estro, la follia mi danno altre visioni. Che dire? Spero di venir sorpreso».

Eccellenza, c’è un passaggio del «Mistero buffo», l’incontro tra Bonifacio VIII e Gesù, che ricorda Dostoevskij…

«Sì, il Grande inquisitore che dice a Gesù: non venire a disturbarci. Dario Fo era di certo un uomo di intelligenza straordinaria e quindi inquieto. Si è interrogato sul mistero della vita, che è buffo perché appare talvolta senza senso, un insieme di passioni, amori, speranze, lotte che sembrano dissolversi in una caduta nel nulla della morte, per chi guarda solo la fenomenologia del mondo. Eppure…».

Eppure?

«Affermare “sono ateo, però non escludo di essere sorpreso da Dio dopo la morte” dice una condizione di inquietudine, una ricerca del cuore che non si chiude alla possibile “ulteriorità” del mistero. E questo credo sia proprio di tutti i grandi. Essere o dichiararsi ateo banalmente, senza problemi, sarebbe sintomo solo di stupidità».

E perché?

«Perché chiudere la questione così, senza neppure considerare la sfida del mistero, significa presumere di sé come nessuno di noi ha il diritto di fare. Ogni ricerca autentica deve essere segnata dall’umiltà e dalla consapevolezza del proprio limite. Schelling parla di “stupore della ragione”. Chi esercita fino in fondo la ragione, come ha fatto Fo, non può non avvertire questo stupore».

Dario Fo aveva una grande ammirazione per il cardinale Martini. Viene da pensare al tema di fondo della «cattedra dei non credenti».

«Sì, la grande intuizione che aveva mosso il cardinale Martini si collegava a una frase di Norberto Bobbio: “La vera differenza non è fra credenti e non credenti, ma fra pensanti e non pensanti”. Anche il credente, in un certo senso, è un povero ateo che si sforza ogni giorno di cominciare a credere… Diversamente, la fede si ridurrebbe a ideologia o tutt’al più a illusione consolatoria».

[per approfondire: http://www.edizioniradiospada.com/component/virtuemart/ecommerce/joseph-aloisius-ratzinger-l-altra-teologia-del-papa-emerito-105-detail.html?Itemid=0]

Però non c’è angoscia, in Fo. C’è riso e sberleffo, no?

«Non possono non esserci ironia e umorismo di fronte al mistero “buffo” della vita. Un’intelligenza non ripiegata su se stessa è sempre anche ironica. Il mistero è buffo perché inquietante. Del resto ogni esperienza artistica e letteraria autentica è fondata su una relazione all’altro e alla sfida che rappresenta per l’io chiuso in se stesso: ogni autore si concepisce in rapporto a un interlocutore. Platone, nel Fedro, scrive che ogni libro ha bisogno di un padre, di un altro al quale riferirsi. E certamente nel mondo di Fo il mistero dell’altro, inquietante, interrogante, non è mai mancato».

A cosa pensa, in particolare?

«Ad esempio, al suo grande amore, Franca Rame, alla loro relazione profonda, struggente, fedele nel tempo. E poi ogni scrittore vive la propria vita rivolgendosi agli altri. E chi sa che nella vita c’è l’altro, non si sazia di un approdo “penultimo”. Emmanuel Lévinas diceva che il volto degli altri strappa il nostro io a ogni possibile pretesa di assolutezza. Il volto degli altri rimanda sempre a un’ultima, suprema alterità, che il credente confessa come il Volto di Dio, desiderato e cercato».

L’Osservatore Romano cita le parole che Montini, nel 1957 a Milano, rivolse ai «fratelli lontani»: «Talora il loro anticlericalismo nasconde uno sdegnato rispetto alle cose sacre, che credono in noi avvilite». Di qui l’interesse di Fo per San Francesco?

«Credo che Fo cogliesse un aspetto fondamentale del messaggio di San Francesco: la povertà, che anche papa Francesco si augura per la sua Chiesa, una povertà che non è pauperismo, ideologia astratta, ma constatazione onesta e intelligente che la vera ricchezza non sta nell’avere, nel potere o nel piacere, ma nel dare. Il Santo di Assisi, come questo Papa che porta il suo nome, affascina moltitudini di persone perché propone l’essenziale: una vita che ha senso perché c’è qualcuno che ami e per cui vale la pena di vivere e donare te stesso. Chi crede riconosce questo altro nel Dio che è amore infinito, e negli altri, specialmente poveri e bisognosi, in cui la Sua attesa d’amore ci raggiunge».