di Massimo Micaletti
Intervistato nel 1984 da Gianni Minoli, Umberto Veronesi, in merito all’opportunità ed alla maniera di dire la verità al malato in caso di prognosi infausta, rispondeva, a mio sommesso giudizio ottimamente, che la verità è come una medicina: va data ma a piccole dosi, perché somministrata di colpo può uccidere. Aggiungeva poi, però – in cauda venenum – che se c’erano possibilità di guarigione la verità andava detta, ma ove fosse certo l’esito infausto essa andava taciuta: in quel caso lì, per Veronesi, “la verità non serve”.
In queste parole, apparentemente pietose ma di una violenza inaudita, si può riassumere il pensiero dell’oncologo scomparso. E lo si può riassumere quantomeno da due punti di vista.
Innanzitutto, è chiaro che il discrimen se tacere o no la diagnosi non è il paziente, le sue condizioni psichiche, chi gli sta accanto, il suo percorso di vita: il discrimen è piuttosto la malattia, se è certamente mortale, bisogna tacere. L’uomo viene privato dal medico del diritto a conoscere il proprio destino, perché è il medico che decide cosa sia utile e cosa no e la Verità è inutile se non controproducente. Per contro, lo stesso Veronesi era favorevole all’eutanasia: il paziente deve poter scegliere quando essere soppresso, ma non ha – paradossalmente – diritto di sapere di cosa è malato. E’ Veronesi a dire “La malattia deve aumentare e non diminuire il rispetto per la libertà, l’autodeterminazione e la personalità dell’individuo[1]”: ma libertà ed autodeterminazione hanno davvero poco a che vedere coll’eutanasia e questo un oncologo lo sa bene, se guarda un malato negli occhi. Un malato terminale è libero quanto un prigioniero, se per libertà si intende solo e soltanto la capacità di decidere il proprio destino quaggiù: eppure, proprio chi, come Veronesi, concepisce l’esistenza terrena come l’unica vera e possibile, evoca la libertà con riferimento a chi vede arrivare la morte, nel dolore.
Quel che più conta, e questo è il secondo momento della mia riflessione, la Verità è un ben grosso impiccio.
Se ritieni e professi che Dio non esiste, se non riesci a vederlo in un bambino malato di tumore che si spegne sotto i tuoi occhi, come fai ad affrontare la Verità? Il dubbio è più comodo, lo si può declinare in “ricerca” e suo tramite divenire celebri. Dinanzi al dubbio nessuno è impotente, perché ha il consolante e sedativo pensiero che è solo un problema che la dea ricerca non ha ancora risolto. Ma quel bambino che muore non è una patologia che la dea ricerca sconfiggerà domani: è una persona che muore oggi e quella domanda – che non è un dubbio, è una domanda: perché il male? – non troverà mai risposta nella ricerca, nei laboratori, negli esperimenti. La si può eludere, e l’eutanasia è un modo: di fronte ad un libro incomprensibile, meglio bruciarlo. Ma non sapremo mai cosa c’era scritto e soprattutto non impareremo mai a leggere: Veronesi non sapeva leggere.
Questa non è poesia, poesia è piuttosto non mangiare animali perché soffrono[2] e poi ritenere che la macellazione dei feti umani nel grembo materno debba costituire un diritto[3]; poesia è gloriarsi che nei propri laboratori non si facciano esperimenti sugli animali[4] e poi non aver la minima remora a farne sugli embrioni umani fino alle chimere[5]; parlare di famiglia e filiazione come continuazione del DNA[6] e poi appioppare all’amore umano la sola finalità riproduttiva colla conseguenza che l’amore omosessuale sarebbe più puro perché, appunto, non riproduttivo[7] (LGBT in marasma: “Ci ha detto che il nostro amore è puro perché sterile: che facciamo compagni? Si frigna o si plaude?”); considerare, contro ogni evidenza di fatto e di ragione, l’uomo al pari delle specie animali[8]; aggrapparsi ad una misteriosa e vaga “coscienza etica” che il cervello avrebbe “elaborato nei millenni”[9].
Il ragionamento scientista è così: ti descrive per filo e per segno un fenomeno, riesce forse anche talvolta a governarlo, ma non saprebbe spiegarti perché il Bene è Bene è il Male è Male, se non attraversi cicli di parole inconsistenti o… evoluzioni cerebrali millenarie.
Ad esempio, per Veronesi il Male è la “rottura della regola”[10], ma quale sia questa regola non si riesce a comprendere: per questo modo di vedere le cose, “il male non esiste”[11], perché è assenza di Bene, e il Bene, però, non si sa cosa sia. Capita, quando si confonde il Bene col benessere.
E se è invece il fenomeno a vincere nella guerra che lo scientista gli dichiara? Allora lo scientista si sente sconfitto, non riflette su tutto il bene che ha potuto fare conducendo la sua battaglia; oppure rimanda agli scientisti successivi.
Questo accade perché il pensiero scientista non si fonda sulla scienza ma sulla tecnica: tende a risolvere problemi ed a superare se stesso, ma non può (e non vuole) accedere al piano etico, anche quando, in apparenza, vi si cimenta. Lo scientista crede di fondarsi sul sapere, ma non sa nulla di essenziale e non può che ridurre la felicità, dunque il senso della vita, alla somma della salute fisica e dell’assenza di dolore: la felicità per un uomo diviene uguale alla felicità del cavallo o della gallina o della cavia o del vitello. Il che è più o meno un delirio, alla luce non solo del pensiero cristiano quanto, in minimo, di quello aristotelico.
Di primo acchito, tutti noi diremmo: “Beh, se sto bene fisicamente e non ho nessun dolore, che mi manca?”.
Si può stare bene fisicamente e non avere nessun dolore, ma avere una persona cara con un male incurabile o vittima di un incidente; si può stare bene in salute e non avere nessun dolore ma trovarsi in una guerra voluta da gente che abita a decine di migliaia di chilometri di distanza; si può stare bene in salute e non avere nessun dolore ed essere detenuti, magari ingiustamente, con parecchi anni da scontare: la vita allora perderebbe di senso? La vita è forse una spunta su una cartella clinica?
Il pensiero laico allora si arena, non riesce a chiudere il cerchio. Il pensiero laico può sedare per via farmaceutica il dolore ma non può spiegare né lenire la sofferenza, che è lo stato di patimento interiore che spesso non ha nulla a che vedere colla nostra cartella clinica, col colesterolo, coi trigliceridi, coi venti minuti di passeggiata, coll’hamburger vegano.
L’Uomo prova dolore come gli altri animali, ma non soffre come gli altri animali. Viene in mente quel passo struggente delle Confessioni, in cui Sant’Agostino descrive la sofferenza per l’amico morto: “Mi portavo dentro un’anima dilaniata e sanguinante, insofferente di essere portata da me; e non trovavo dove deporla. Non certo nei boschi ameni, nei giochi e nei canti, negli orti profumati, nei conviti sfarzosi, fra i piaceri dell’alcova e delle piume, sui libri infine e i poemi posava. Tutto per lei era orrore, persino la luce del giorno; e qualunque cosa non era ciò che lui era, era triste e odiosa, eccetto i gemiti e il pianto. Qui soltanto aveva un po’ di riposo; ma appena di lì la toglievo, la mia anima, mi opprimeva sotto un pesante fardello d’infelicità. Per guarirla avrei dovuto sollevarla verso di te, Signore, lo capivo, ma non volevo né valevo tanto, e ancora meno perché non eri per la mia mente un essere consistente e saldo, ossia non eri ciò che sei. Un vano fantasma e il mio errore erano il mio dio. Se tentavo di adagiarvi la mia anima per farla riposare, scivolava nel vuoto, ricadendo nuovamente su di me; e io ero rimasto per me stesso un luogo infelice, ove non potevo stare e donde non potevo allontanarmi. Dove poteva fuggire, infatti, il mio cuore via dal mio cuore, dove fuggire io da me stesso, senza inseguirmi?”[12].
Il dolore è un fenomeno neurologico, la sofferenza ha invece una dimensione ben più vasta e pervasiva, psicologica, sociale, esistenziale ed in ultima analisi trascendente: e se si rifiuta quest’ultima analisi, si crolla dinanzi al bambino che muore. E non si crolla per forza psicologicamente: decine di medici assistono ogni giorno alla morte dei loro pazienti e continuano a fare il loro mestiere. Quello che crolla è la possibilità di reggere il confronto cogli interrogativi ultimi, con quello che dà significato al nostro essere qui in questo mondo, e si conclude che invece siamo qui solo per caso, come le palline che cadono e rimbalzano in un flipper. Allora sì, che un cane vale quanto un bambino, che un feto vale meno di una cavia e via laicando.
Anzi, si arriva a scrivere, come ha scritto Veronesi nel saggio “La libertà della vita” (dialogo col filosofo laicista Giulio Giorello, altro campione del nulla morale) : “In passato ho scritto del diritto di morire. Vorrei ora aggiungere che vi è anche un dovere di morire”[13], con riferimento all’allungarsi della vita media. Si noti che lo scrive lui, nel 2006, quando aveva ottant’anni, che sarebbe poi arrivato a novant’anni e che teorizza il dovere di morire in un’opera sulla “libertà” della vita: vedete, come quando parla un laicista, gira gira, chiacchiere e tecnica, pietà e morale, finisce sempre che si trova qualcuno da accoppare? Nel caso specifico, nel brano “incriminato” Veronesi si riferisce alla voglia di vivere di un novantacinquenne (ho già detto che quando ha scritto aveva ottant’anni): viene in mente il poeta greco Mimnermo, per cui la vita era solo un dito, lunga – o meglio corta – quanto un dito, e che pregava la sorte di morire a cinquant’anni (età ragguardevole, nel quarto secolo avanti Cristo) ma, giunto a cinquant’anni, chiedeva poi al fato che la morte arrivasse ai sessanta…
E’ sempre affascinante speculare su chi possa vivere e chi abbia il dovere di morire, finché a morire sono gli altri.
Si diceva un tempo “Parce sepultos”, ma qui non si tratta dell’uomo Veronesi, che spero sinceramente abbia incontrato Dio anche solo nell’ultimo istante della sua vita terrena: ho cercato piuttosto, certo con termini e concetti aspri ma necessari, di evidenziare i limiti tragici di un pensiero che non va da nessuna parte.
Qualcuno dirà “Ma ha salvato tante persone: come si fa a dire che non va da nessuna parte?”: è fin troppo facile replicare che non serve essere laicisti per essere buoni medici, anzi all’opposto è l’amore integrale per la vita e la Verità che rende un medico un buon medico.
Se un medico non sa rispondere alla morte, ma sa solo descriverne le cause, non ha una marcia in più ma una marcia in meno: non a caso, la storia recente della scienza ci mostra come i giganti della medicina, da Pasteur a Lejeune, fossero tutti credenti, mentre gli attuali “luminari” laici sovente finiscono nel board di qualche casa farmaceutica. O costituiscono fondazioni intitolate a sé medesimi.
Per questo noi dobbiamo chiedere ai medici, ai ricercatori, molto più di quello che ci ha dato e lasciato Umberto Veronesi: noi dobbiamo chiedergli che abbiano a cuore la vita e la dignità di tutti gli esseri umani, senza escludere i concepiti o i pazienti in stato vegetativo persistente; dobbiamo chiedergli di curare tutti, anche chi non ce lo può chiedere; dobbiamo chiedergli di fare ricerca senza distruggere o manipolare embrioni, anche affrontando a viso aperto e denunciando i diktat della multinazionali farmaceutiche.
Noi vogliamo medici e ricercatori che servano non la tecnica ma la Verità ed ai quali, davvero, la Verità serva.
[1] L’ombra e la luce, p.64
[2] http://www.repubblica.it/2008/08/sezioni/scienza_e_tecnologia/bistecca-artificiale/bistecca-veronesi/bistecca-veronesi.html?ref=search
[3] Dell’amore e del dolore delle donne, p. 98
[4] Intervento alla giornata per la coscienza degli animali, 13 maggio 2010, in cui peraltro Veronesi cita Peter Singer, filosofo di cui egli è grande ammiratore e che ritiene, tra l’altro, che la vita di un cane valga più di quella di un neonato.
[5] https://blog.uaar.it/2007/09/10/veronesi-si-agli-embrioni-chimera-sorpreso-dalla-polemica-del-papa-sulla-scienza/
[6] Essere laico, scritto assieme ad Alain Elkann, p. 33
[7] http://www.corriere.it/cronache/11_giugno_23/veronesi-amore-gay_cba482c8-9d92-11e0-b1a1-4623f252d3e7.shtml
[8] Intervento alla Giornata per la coscienza degli animali, 13 maggio 2010, in cui peraltro Veronesi cita Peter Singer, filosofo di cui egli è grande ammiratore e che ritiene, tra l’altro, che la vita di un cane valga più di quella di un neonato.
[9] L’uomo con il camice bianco, con Alberto Costa.
[10] La libertà della vita, p. 77.
[11] La libertà della vita, p. 78
[12] Confessioni l. IV, Cap. VII
[13] La libertà della vita, p. 28.
“la verità non serve….”: grande frase (stupida), da confrontare con quell’altra, divina: “La Verità vi renderà liberi“, quando tutta la sua scienza, non serve certo a liberarci dalla Morte… Sarà perché non è ‘vera’ scienza???
Da un vecchio pederasta arricchitosi con la chemio e morto di cancro dopo aver rifiutato la chemio che ti puoi aspettare?
Non sapevo di questa sua condizione di pederasta, ma allora sarà questa la ragione per cui argomentava che l’amore omosessuale fosse divino in quanto disinteressato, rispetto a quello di un uomo ed una donna che, invece, era interessato alla procreazione.
Che negli ultimi momenti della sua vita possa avere riveduto la sua posizione ateistica, cosí da offrire a Dio la possibilità di salvarlo!