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Volentieri proponiamo ai lettori un interessante articolo apparso su Critica Scientifica. Non ne condividiamo alcuni passaggi, ma ci pare interessante nel suo complesso. Grassettature e sottolineature nostre [RS]

 

di Fabio Vomiero

 

“L’ignoranza totalmente consapevole è il preludio a ogni vero progresso nella scienza.” – Clerk Maxwell.

Uno dei più grandi paradossi della scienza contemporanea è senz’altro quello di essere una cultura di fatto egemone, ma allo stesso tempo di essere anche una delle culture meno comprese e condivise a livello sociale. Esistono infatti ancora oggi numerosi fraintendimenti in merito a che cosa sia e a come funzioni veramente la scienza o a quali siano le caratteristiche peculiari e fondamentali che la contraddistinguono per esempio da altre forme del sapere. Le ragioni di queste incomprensioni sono naturalmente molteplici anche se probabilmente non sono esenti da colpe sia l’insegnamento scolastico che la divulgazione e i media, i quali pur in un contesto di evidente progresso scientifico in un’epoca autodefinitasi “della conoscenza”, hanno privilegiato una “didattica” fatta di nozioni e di semplice illustrazione dei fatti piuttosto che puntare con più decisione alla diffusione di strumenti logico-concettuali e metodologici orientati all’acquisizione della capacità di ragionamento scientifico e dell’abilità critica a gestire e a integrare le competenze. Il risultato perlopiù scontato quindi è che oggi il pubblico si trova del tutto impreparato a comprendere e a valutare razionalmente le grandi questioni scientifiche attuali che riguardano per esempio l’inquinamento, i cambiamenti climatici, la gestione delle risorse energetiche, i vaccini, gli OGM o le cellule staminali. Le persone infatti non sanno sempre distinguere un fatto da un’opinione, i risultati di un singolo studio da quelli di uno stuolo di studi, il parere di uno scienziato dallo stato dell’arte, né apprezzano l’importanza del consenso scientifico codificato dalla revisione dei pari, processo mediante il quale la scienza non intende affatto dichiararsi infallibile, autoreferenziale o depositaria indiscussa della verità.

Oggi la scienza infatti non mira più allo scopo ontologico della verità come in un tempo non molto lontano in cui il principio di autorità era ancora determinante, ma semmai a quello metodologico. La “verità scientifica” corrisponde soltanto a un’affermazione che è stata sottoposta a un collaudato processo che l’ha momentaneamente convalidata con un certo grado di fiducia, ma che può essere in ogni momento rivisitata e modificata qualora l’emergere di nuovi dati e nuove osservazioni lo imponessero. Esiste sempre infatti uno scarto tra i nostri modelli e le nostre teorie che servono per descrivere il mondo e il mondo stesso che ci chiama, ed è proprio nel tentativo di colmare quello scarto che la ricerca scientifica esprime tutto il suo carattere creativo. Insomma, verità parziali, circoscritte, in quanto generalmente hanno un proprio ambito di validità (campo di applicazione) e provvisorie. Non sembra proprio un granchè, eppure è proprio in questa idea di provvisorietà e di un continuo divenire che sta tutta la forza concettuale della scienza. Niente infatti è sempre uguale a se stesso, così nella scienza come nella vita, tutto è in continua evoluzione, la natura è un concetto decisamente eracliteo. Ecco perché la scienza non è e non sarà mai per definizione un dogma. Sembra quindi che ci sia, tra le altre cose, un elemento diffuso che unisce inevitabilmente il destino dell’uomo con quello della scienza ed è il concetto di ignoranza. Ma c’è di più. La scienza dal momento che si dichiara apertamente ignorante, lo fa con socratica consapevolezza ed è questa la grande differenza che di solito la contraddistingue da tante dinamiche cognitive umane di natura sociologica o religiosa molto spesso orientate alla ricerca e alla perpetuazione del mito e della superstizione e quindi di fatto inclini all’accettazione acritica di verità assolute e indiscutibili.

E’ sempre buona cosa rendersi conto della propria ignoranza scrisse Charles Darwin nelle prime pagine di “L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali”. Ignoranza individuale, quando chiunque e particolarmente lo scienziato, si accorge di conoscere soltanto una parte minoritaria del patrimonio delle conoscenze realmente disponibili e che nell’impresa scientifica vanno rapidamente accumulandosi, si pensi per esempio che il numero degli articoli scientifici raddoppia ogni dieci-dodici anni, e ignoranza collettiva, quando è la scienza stessa che non riesce, nonostante l’efficacia dei suoi metodi a scardinare completamente il mistero e l’ignoto. Oggi esiste anche un corso di “ignoranza” alla Columbia University di New York ed è stato recentemente coniato un nuovo termine, “agnotologia”, per indicare proprio lo studio dell’ignoranza, compresi i meccanismi strategici veri o presunti che i sistemi di potere utilizzerebbero per mantenerla o per diffonderla. Emblematico in questo senso il caso delle prime evidenze scientifiche sugli effetti negativi del fumo di sigaretta sulla nostra salute che furono insabbiate per anni da pubblicazioni negazioniste da parte delle potenti lobby del tabacco. Ma se la scienza produce ignoranza e l’ignoranza alimenta la scienza, cosa dire allora in merito ai grandi interrogativi ancora irrisolti come l’origine dell’universo o l’origine della vita e della coscienza? E poi, siamo sicuri che tutto sia potenzialmente spiegabile dalla scienza? Esistono ignoti inconoscibili? Ci sono dei limiti alla conoscenza?

Finora sono almeno due i casi famosi in cui la scienza ha dimostrato di avere dei limiti intrinseci e quindi non dovuti soltanto alla mancanza per esempio di strumenti di misurazione sufficientemente sofisticati. Uno consiste nel principio di indeterminazione di Heisemberg, il quale ci dice che nel mondo subatomico non possiamo conoscere nello stesso tempo la posizione di una particella subatomica e la sua quantità di moto, nucleo concettuale essenziale della fisica quantistica, e l’altro è rappresentato dai “teoremi di incompletezza” di Gödel in ambito matematico. Esistono inoltre anche altre importanti limitazioni alla conoscenza e alla predicibilità in dettaglio che riguardano invece il mondo macroscopico e che sono imposti dallo studio dei sistemi complessi. Un sistema complesso è molto sinteticamente un sistema dinamico aperto in forte accoppiamento strutturale con l’ambiente circostante che produce emergenze, e quindi caratteristiche, comportamenti, configurazioni nuove del tutto imprevedibili che non possono essere dedotte o previste a partire dall’analisi delle caratteristiche dei singoli elementi che compongono il sistema stesso. Sono sistemi complessi per esempio la stragrande maggioranza dei fenomeni riscontrabili in natura, sistemi biologici, ecosistemi, clima, processi cognitivi, o i sistemi economici e sociali, tutti caratterizzati da una continua rottura di simmetria e conseguente continua riorganizzazione dei rapporti sistema-ambiente. Non a caso il fisico Mario Ageno definì questi sistemi (biologici) come “terra di nessuno”, per sottolineare ancora una volta il divario che esiste tra gli approcci sistemici molto spesso utilizzati per esempio nello studio del processo vivente e la possibilità di implementarli in modelli matematici.

Il sistema complesso quindi non è soltanto un sistema estremamente complicato che risulta difficile da studiare con l’applicazione del solo metodo riduzionistico, ma in realtà rappresenta una vera e propria novità epistemologica degli ultimi decenni e di cui si deve o si dovrà necessariamente tenere conto. Un altro esempio di limite alla conoscenza perfetta è anche offerto da tutte quelle scienze evolutive o storiche, come per esempio molte branche della biologia o della climatologia, in cui non sempre ci si può avvalere dell’esperimento scientifico classico (riproducibile), e che introducono proprietà sgradite come l’imprevedibilità, l’irreversibilità e l’aleatorietà. Queste discipline possono soltanto tentare di ricostruire il più fedelmente possibile una ipotetica successione di eventi unici e irripetibili prodotti da una serie complessa di cause e fenomeni contingenti. E che dire infine riguardo al “caos deterministico”, come nel caso delle previsioni meteorologiche, in cui questa volta l’impredicibilità dell’evoluzione del sistema dopo un certo periodo di tempo è connessa ad una estrema sensibilità alle piccole perturbazioni delle condizioni iniziali? Non dobbiamo quindi stupirci più di tanto se le cose nel mondo reale non vanno quasi mai come pensiamo e se una delle cose più prevedibili sulle previsioni è la frequenza con cui sono sbagliate, in quanto nella scienza prevedere equivale a conoscere e come abbiamo visto, purtroppo, esistono sempre dei limiti teorici o sperimentali alla conoscenza. Non si può sapere esattamente come sarà il clima a Roma tra cinquant’anni, o quale strada imboccherà l’evoluzione biologica del rospo smeraldino, o quanto sarà alto un figlio adolescente nell’età adulta, o chi e quando si ammalerà di cancro nel prossimo anno o soltanto cosa penserà ognuno di noi da qui a cinque minuti. Possiamo soltanto fornire la migliore approssimazione possibile dei fenomeni in un determinato momento, il “qui e ora”, è questo che riesce a fare la scienza nel mondo reale e concreto dei sistemi complessi e non in quello ideale della fisica classica, una prospettiva apparentemente poco esaltante, ma senz’altro più realistica del sogno oramai infranto di un determinismo laplaciano assoluto e onnipotente.

Certo è che tale prospettiva può anche prestare il fianco, ed è quello che in realtà succede, a scomposti tentativi di entrare nel dibattito da parte di sfere non scientifiche a supporto per esempio del seguente ragionamento: poiché la scienza non può ancora fornire una descrizione convincente dell’origine dell’universo, delle costanti fisiche universali e della vita, deve esistere allora necessariamente un creatore divino o comunque una qualche forma di finalismo (teleologia). E lo stesso dicasi al riguardo dell’estrema complessità di alcune strutture e reazioni chimiche cellulari o della mente umana, le quali potrebbero sembrare incompatibili con le possibilità e le potenzialità della sola forza plasmante dell’evoluzione organica e biologica. In realtà, nonostante una notevole attività teorica e alcuni “supporter” di alto livello come Stephen Hawking, il principio antropico non si è mai inserito organicamente in una teoria scientifico-cosmologica come essenziale condizione al contorno. E d’altronde, se le costanti fisiche dell’universo fossero così appropriate per la vita, come mai essa in realtà è così difficile da trovare altrove? Quella del piano intelligente, quindi, rimane una “teoria” non scientifica e se vogliamo discutibile, nel senso che possiamo anche discuterla, ma che presenta un grande ed evidente problema: non ci fa fare molti passi in avanti sulla via della comprensione e della descrizione scientifica del mondo.

L’alternativa prima agli attuali limiti teorici e sperimentali della scienza laica, pertanto, rimane l’intelligente ignoranza della scienza stessa, non la teologia, che costituisce certamente un piano filosofico, logico e culturale importante e interessante sotto il profilo teorico, ma che dovrebbe comunque essere tenuto prudentemente separato e non sovrapposto a quello scientifico, onde evitare un eterno, inutile, confuso e di fatto sterile conflitto concettuale.