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di Cristiano Lugli
O Signore, perché mi hai abbandonato? La mia anima, come quella del salmista, avverte intrepidamente e trasudando angoscianti e profondi riverberi, il senso di abbandono in cui la misera condizione umana l’ha violentemente trascinata. 
In una notte di plenilunio quest’anima si ritrova a fare i conti con se stessa, forse come non accadeva da tempo, o forse semplicemente perché era giunto tempo che accadesse. Un’anima confusa, bistrattata, incapace di reagire a ciò che la circonda; così presa dalle pulsioni della carne da sentire la necessità di camminare, nel buio dell’oscurità di un paesino di montagna che lascia posto solo alla luce degli astri: luce vera, naturale, disposta dal Creatore che, anche di notte, ha voluto rammentare all’uomo che il Sole di Cristo non lo abbandona, e che gli astri sostengono le colonne del Firmamento.
Non appare la luna, quella luna che riporta alla Mistica Luna, Consolatrice degli afflitti e Rifugio dei peccatori: un tremore freddo attraversa la schiena al pensiero che neanche’ella vi sia, non vede il Sole quest’anima, e sente lontana anche la luna.
Le palpebre sono pesanti e il freddo pungente perfora il sostenimento che il giaccone invernale offre alle membra, quasi come una lama che spezza il corpo per richiamare al peccato che spezza lo spirito. Le citazioni soprassalgono la mente, incapace di pensare da per se stessa a causa della vergogna, ma tuttavia ben più grande si risolve la vergogna di pronunciare parole sante, che vengono dai Santi, immacolate e creature guerriere del Dio Altissimo, che per Egli solo hanno vissuto e per Egli solo sono morte. La bocca tace dunque ciò che la mente vorrebbe farle dire, a torto o con ragione, a proposito della propria frustrata condizione.  
Rimane ancora il sussurro che c’invita a marciare, senza una meta fissa, perché chi cercando Dio cade capisce che l’andare verso Dio è un’ardua e pericolante strada: un’andare senza terra sotto i piedi, di gradinata in gradinata, di strepito in strepito, di strazio in strazio. Ché sarà così fino a quando non si sarà imparato a prendere il giogo nella maniera corretta, fino a quando non ci si sarà vergognati a sufficienza di essere causa delle tre cadute devastanti in cui il Signore che va a morire in Croce incappa.
Come possono, o Signore caro, le stelle essere così splendenti e così perfette pur essendo a Voi meno care di me, ed io, indarno che altro non sono valere così poco da camminare nel buio della notte senza un lume che dissipi la tenebra che pervade l’anima mia? Il Vostro diletto Figlio è venuto per me nel mondo, e tosto io mi veggo incapace di riceverlo nel cuore mio.
Le dita con fatica sgranano una corona del Rosario: il freddo stizzisce le mani le quali vittime del poco circolare sanguineo perdono sensibilità con l’oggetto più caro alla Vergine Maria, mezzo sublime per ricorrere a Lei, e per mezzo di questo Vaso Virgineo rendere la Gloria che a Dio è dovuta. Accade un po’ come accade all’anima fredda, funambola sulla sponda di raso filante che allontanandosi dalla Grazia di Dio perde propedeuticamente il calore che da essa ne deriva e che solo può far pulsare il cuore nella direzione retta, docile e medesimamente travolgente, ovvero quella che permette alla bassezza umana di catapultarsi verso la proiezione divina. Ad ogni finale di decina il Gloria vanta il bisogno di essere recitato scaraventando le ginocchia a terra, nel duro asfalto che percorre la strada e che brutalmente sostituisce la nuda terra per l’esigenza dell’uomo moderno, non più in grado di camminare, travolto dalla società che gli impone l’infausto mezzo della macchina a cui serve il cemento grigio e orrendo per spostarsi; non più terra concimabile, ma solo gettata fraudolenta di materia. Anche qui il pensiero che da quella genuflessione a terra germoglia riporta alla durezza dell’animo, sterile di terreno edificabile e duro invece come il marmo. Incapace di piegarsi e piangere davanti al dolore di Cristo che muore ma abilissim a lamentarsi per ogni minimo dolore od ostacolo.
La Provvidenza pare sostenere questo cammino in una notte di mezzo inverno, se non altro per i messaggi che nell’apparente disperazione ci arrivano attraverso e nonostante il buio di campagna che ci circonda. Un silenzio assordante agevola di gran lunga il pensiero introspettivo, analizzando la personale situazione di un’anima che continua tuttavia a dirsi “amplius lava me ab iniquitate mea“. Una prova Dio mi ha dato, e con una sola prova io già mi sento provato fino al punto di non trovare risposte, di non ottenere reazioni. O ammirabile tempo, candido periodo che mi porta a contemplare la venuta del Salvatore in una mangiatoia, fra panni che non scaldano e alberghi che non ti hanno accolto! L’atmosfera invernale ringraziando il Cielo genera questa immagine natalizia, nel Tempo infra Ottava che accompagna la chiusura di un altro anno passato fugacemente eppure in maggior tempo rispetto a quelli che, come un soffio, passano per il Padre Eterno.
E di padre putativo invece si tratta, giacché proprio in Lui troviamo la chiave di volta per risolvere questa nottata nella quiete dello spirito. Il Patriarca San Giuseppe è modello, finalmente, per risolvere il senso di angoscia. Un marito e un padre cosa possono fare di meglio se non ricorrere all’intercessione di colui che ebbe la straordinaria Grazia di crescere il Figlio di Dio? Ché forse può esistere un richiamo migliore, uno stampo migliore su cui fondare i propri criteri? Deh, Virgineo Sposo della Santa Madre di Cristo, rivolgetevi a me un istante, che “qualunque Grazia si domanda a San Giuseppe verrà certamente concessa” mi ricorda Santa Teresa di Gesù, vostra fedelissima e santissima devota. Anche voi nella tribolazione più gravosa intraprendeste un cammino arduo, per un motivo che a confronto con il motivo della nascita del Salvatore poteva considerarsi pressoché effimero. Per un censimento voi partiste, e per un censimento voi non sapeste dove dimorare, o ancor peggio dove far dimorare la vostra Santa Sposa ormai prossima al parto, e con l’incombenza delle doglie. Eppure ecco che sgorgo, adorabile San Giuseppe, il motivo del vostro lungo cammino, l’esame che vi spinse ad intraprendere questo strano viaggio conclusosi in tarda notte, fra lo sconvolgimento del Creato che accoglie il Divino Fanciullo: voi sì, vi siete affidato alla divina Provvidenza, che così già aveva disposto per la venuta del Re. Potevate forse evitare questo pericoloso percorso, ma giammai lo avreste fatto perché sapevate che in quell’incomodo materiale da compiere per censire la vostra famiglia vi era in realtà il volere di Dio. “E tu, Betlemme di Efrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele…”, così già sentenziava la Sacra Scrittura, e così si dovette realizzare, in forza altresì della vostra cooperazione al Mistero di Redenzione, o glorioso Patriarca, uomo di integerrima e straordinaria virtù, colmato e ripieno di una Grazia straordinaria. 

Dal dolore di questa partenza per Betlemme si schiude una della vostre allegrezze per cui vedeste nascere il Figlio dell’Uomo; ancora vi rattristaste non potendo dare Lui un luogo più degno di una mangiatoia, eppure ancora vi rallegraste nell’intendere il giubilo degli Angeli e l’adorazione dei pastori. 
Ecco cosa manca a me, ecco che voi stella celeste mi date forza di chiedere a Dio ciò che più subitamente mi serve per piacere a Lui, dandogli Gloria nella mia condizione di marito e di padre: il vero abbandono mi manca! La più serena rassegnazione. Il volo candido fra le braccia di Dio, come il fanciullo che incapace di compiersi da sé si affida alla madre nell’attesa di crescere. Voi me lo insegnate San Giuseppe, voi queste sera mi dite che a gran voce devo chiedere questa Grazia, devo compiere violenza verso il Cielo per ottenere ciò che pensavo già di avere ma che ahimè, ora, in un momento di dura prova, mi accorgo di non aver mai posseduto se non con l’ingannevole teoria. Comoda e semplice l’illusione di aver ottenuto o di essere in grado di operare quando tutto va bene, più difficile a trovarsi quando qualcosa ci pare contrariare il tenero ritmo della nostra fiacca vita. Così come tutti arrivano a banchettare e nessuno vuol passare oltre verso il rossore e lo spasimo della Croce, così io, augusto perno della Famiglia, non ho avuto la capacità di abbandonarmi veramente a Dio, ora che il tempo e le circostanze me lo chiedono sovente, perché così il Signore della mia vita ha voluto disporre.
Fatta nostra la soluzione non abbiamo vieppiù da marciare senza un arrivo, ma invece è bene invertire la rotta per tornare al focolare, là dove incalza il detto – e ora il Cielo e la dissipata nebbia mi ripropone la forza e l’umiltà per citare –  “Sine dolore non vivitur in amore“, saggiamente proposto dall’autore de L’imitazione di Cristo.
La notte sembra scoccare ogni minuto di più, e il pesto nero si fa ancora più pesto, tuttavia rischiarato da quel rincuorare ottenutosi come un fulmine a ciel sereno, nel bel mezzo di un’affannata passeggiata. 
Il passo ancora s’incalza per la tarda ora e ben poco più in là si scorge già qualcosa di artificiale che sono le luci del paese. Luci di uomo e non di Dio, luce di terra e non di Cielo già confondono e avvelenano l’immagine del paesaggio notturno di un Appennino intrepido di ricevere neve, preannunciata dall’insidiosa e gelida aria.
Non c’è tempo però, nemmeno per la confutazione della bellezza di Dio che si india come in Cielo così in terra, e la bruttezza creata dall’uomo –  reproba e destinata per giunta a perire – seppur l’argomento tanto ci interessi e addolori in egual modo, poiché i doveri ci aspettano, ed una notte di meditazione sembra essere alle porte. Dio concede l’intuizione, straordinariamente , epperò essa non può essere lasciata ad uno stato semplice, ma meditata e composta deve essere concretizzata nella quotidianità che s’impernia.
Fondamentalmente abbandono e pace sono i moniti che occorrono, anima mia, non altro…nient’altro t’abbisogna.
Nessuno meglio di chi osserva la Legge divina gode così bene della pace, perché osservandola si dà ad unito modo la Gloria che a Dio spetta. “La pace è la tranquillità dell’ordine”, e se l’ordine  viene decretato dalla Legge allora vorrà dire che chiunque lo rispetti rispetta anche la volontà divina che lo ha disposto, ottenendo così la pace interiore.
Oh si anima ancor mia, discostandoti da quest’ordine e poco raccogliendoti in te stessa hai perso proporzionatamente la tua pace, facendoti travolgere dall’angoscia sempre appostata dietro l’angolo. 
Ricorda allora – e che questa volta ti sia di esempio – che la pace, quella vera, non come la offre il mondo, spetta solo “agli uomini di buona volontà”, che cercano essa per dare a Colui che donandoci la pace ci offre un mezzo per fornir Lui la Gloria; è tramite le circostanze della vita di ogni giorno, mia cara anima, che il Signore ci sollecita a docilizzarci e ad abnegarci nel medesimo tempo, per darci senza esitare, certi che tutto ciò che Dio ci chiede non sarà mai superiore alle forze concesse per affrontare la prova.
Non fecero forse così i pastori? Non lasciarono gregge, campi, lavoro e riposo notturno per correre a vider il narrato e ancor più inenarrabile evento? Nel loro abbandono e nella loro fede, essi furono i primi a gustare la Pace del Signore proprio perché furono verosimilmente i primi a dare Lui la Gloria. 
Giunto al ciglio del paese, ancora provvidenzialmente mi casca il pensiero su uno scritto, assecondandolo e prontamente leggendo: ancora Santa Teresa di Gesù. Quasi a concludere questo breve peregrinare si risolve qui il “quare tristis es, anima mea? Et quare conturbas me?” Affilata e zelante giunge dal mio fondo la risposta, con il cuore verso il Cielo, “spera in Deo, quóniam adhuc confitebor illi, salutare vultus mei et Deus meus…”.
La santa  pace – mitemente mormora la Santa del Carmelo – consiste nell’uniformarsi in tutto alla volontà di Dio, in modo che fra Dio e l’anima non vi sia alcuna divisione e non regni fra loro che una sola volontà, non a parole e a desideri, ma ad opere. L’anima, quando sa che una certa cosa è di miglior servizio al suo Sposo, non ascolta più nulla, né le ragioni dell’intelletto, né i timori…, ma lascia fare alla Fede, senza curarsi del proprio riposo e interesse.”
Ascolta un’ultima cosa, anima cara, l’ultima prima che insieme si rientri a svolgere i propri doveri e i propri ruoli, gerarchicamente disposti su analogia divina, ovvero essere il perno del focolare domestico: sforzati ora ad ottenere la massima buona volontà, poiché ad essa corrisponde la massima unione con Dio, la gioia e la Pace promessa in terra per prolungarsi, forse un giorno,  nell’Eterna dimora celeste.