Silence_Scorsese_2016

 

di Isacco Tacconi

 

 

Il 19 gennaio scorso il noto giornalista Maurizio Blondet ha pubblicato sul suo sito un articolo di commento all’ultimo film del regista italoamericano Martin Scorsese intitolato “Silence”. Il film di Scorsese è un adattamento cinematografico del noto romanzo “Silenzio” dello scrittore cattolico giapponese Shūsaku Endô, ispirato alla storia vera dei due gesuiti apostati Cristóvão Ferreira e Giuseppe Chiara. Non voglio qui parlare dei fatti realmente accaduti quanto piuttosto dell’interpretazione che di essi, tanto Endo quanto Scorsese, ci hanno offerto.

Sarò breve, e possibilmente brutalmente chirurgico, mi perdoneranno quindi i lettori se non mi soffermerò a soppesare ogni minimo particolare del film. Infatti, quello che è importante, a mio avviso, è la dottrina che ne emerge e che, a causa dell’ottima realizzazione, della splendida recitazione e della suggestiva ambientazione rischia di passare in secondo piano rispetto ai “sentimenti” che una rappresentazione ben riuscita può facilmente suscitare in noi. Bisogna, infatti, guardare con distacco ciò che ci viene proposto per poter conservare la capacità di giudizio e valutare la bontà di una realtà “a freddo” e senza coinvolgimenti emotivi.

Il protagonista del film, padre Rodriguez, dal momento in cui mette piede in Giappone entra in crisi con la propria fede. Ancor prima di vedere scorrere la prima goccia di sangue, ciò che lo sconcerta e lo turba profondamente è il modo di vivere di quei cristiani giapponesi costretti a privazioni e sacrifici come i primi cristiani nelle catacombe.

Uno dei modi che i funzionari del governo degli shogun utilizzavano per scovare i cattolici giapponesi, era quello di costringere tutti i membri del villaggio a calpestare un’immagine sacra della Madonna o di Nostro Signore in segno di disprezzo. Coloro che si fossero rifiutati erano «kirishitan», cioè cristiani, quindi destinati alla tortura o, se ostinati nella loro fede, alla morte.

Orbene, alla prospettiva del martirio di quei cristiani il gesuita di Scorsese in un momento di isterico pietismo esclama: «calpestate!», suscitando lo stupore dei cristiani giapponesi i quali (giustamente) si sarebbero aspettati un altro tipo di reazione da un prete missionario votato al sacrificio.

Ma procediamo. Tra i vari segnali di una lettura, diciamocelo pure, “non cattolica” della fede cristiana, ce n’è uno in particolare che mi ha subito fatto balzare la mosca al naso: il disprezzo per la fede dei piccoli. In un povero villaggio i fedeli giapponesi cercano dal padre gesuita degli oggetti religiosi da venerare. L’occidentale e razionalista padre Rodriguez, di chiaro sapore modernista, non nascondendo il suo disappunto per una fede così “puerile” scrive al superiore: «nonostante questo, come potevo negarglieli?!». Un commento buonista tipico del cristianesimo sentimentale contemporaneo che mal si adatta ad un gesuita del XVII secolo. Il sentimentalismo è una delle esalazioni più disgustose che si levano dalla carcassa putrescente del cristianesimo modernista e che, paradossalmente, si accompagna sempre con la sua antitesi: il razionalismo. Infatti il leit motiv di tutto il film è il “silenzio di Dio”, il disinteresse di Dio (ammesso poi che Dio esista) dinanzi al dolore e alla morte. In realtà, questo assordante silenzio che si vorrebbe attribuire a Dio non è altro che lo scandalo dinanzi alla sofferenza degli innocenti, è lo scandalo della Croce che così facilmente fa apostatare dalla fede un padre gesuita e il suo mentore che sembrava così sapiente e virtuoso. Quella che emerge dal film è una fede tutta umana, che nulla ha di soprannaturale, una fede fiduciale di smaccato sapore luterano, oscillante tra un continuo atto di fede fideistico e irrazionale, e il bisogno razionalistico e scettico di avere delle prove tangibili dell’esistenza di Dio: il suo silenzio è insopportabile.

Una figura chiave di questo racconto è Kichijiro, un apostata giapponese che per aver salva la vita aveva rinnegato Nostro Signore, un atto di viltà che neppure l’atroce ed eroico martirio di tutti i suoi familiari consumatosi davanti ai suoi occhi è riuscito a vincere. Costui dapprima sembra volersi riscattare, essendo pentito del suo peccato di apostasia e fra lacrime apparentemente sincere riceve l’assoluzione da padre Rodriguez. Ma alla prima minaccia di morte rinnega di nuovo il Signore e così farà per tutto il film, alternando momenti di freddo e cinico tradimento a momenti di isterico rimorso di coscienza. Ma ogni essere umano agisce per un fine, e nessuno è mai costretto al bene o al male perdendo del tutto la propria libertà. La debolezza e la pusillanimità si vincono con la pratica della virtù corrispettiva, la fortezza. Ma è lo stesso Kichijiro a dare voce alla dottrina modernista sottesa a tutta la trama del racconto quando nel tentativo di autoassolversi si chiede retoricamente: “Quale posto può esserci al mondo per una persona debole come me?”. Anche in questo caso dobbiamo rilevare un tema particolarmente caro al luteranesimo, ossia la negazione della libertà e quindi della responsabilità dell’uomo difronte al peccato. L’uomo, secondo la dottrina luterana del “servo arbitrio”, è un soggetto incapace di moralità, quindi di ricompensa per il bene e di castigo per il male. E in fondo sarà proprio questa la chiave di volta di tutto il racconto, come vedremo.

Kichijiro è certamente una figura simbolica che accompagna questo prete dubbioso in tutto il suo viaggio, scomparendo e riapparendo improvvisamente come l’ombra della sua coscienza tormentata, incapace di fede e di carità vere ma divorato dallo scrupolo. Eppure, un gesuita di inizio 600 non poteva non conoscere quel canone del Sacro Concilio di Trento che così recita: “nei battezzati rimane la concupiscenza o passione. Ma, essendo questa lasciata per la lotta, non può nuocere a quelli che non acconsentono e che le si oppongono virilmente con la grazia di Gesù Cristo. Anzi, chi avrà combattuto secondo le regole, sarà coronato[1]. Ciononostante il film sembra apprezzare più la codardia dei due gesuiti apostati che la virtù dei martiri giapponesi, rappresentato anzi come una sorta di stoicismo incomprensibile e a tratti fanatico.

Questi gli argomenti inconsistenti che il rinnegato padre Ferreira (Liam Neeson) utilizzerà nel banalissimo discorso catechetico per dissuadere Rodriguez (Andrew Garfield) dalla fede cattolica: il sincretismo, il relativismo e il sentimentalismo. Discorso che dopo una brevissima parabola dottrinale finirà facendo leva appunto sul sentimento del giovane prete rivelandogli che dopo aver abiurato gli è stata assegnata in sposa una donna giapponese, già moglie di una delle vittime della persecuzione, a dire che la causa della morte di quell’uomo è stata la loro ostinata predicazione del Vangelo. Un discorso sincretista quello di Ferreira che fa coincidere buddhismo e cristianesimo nel filantropico “fare del bene al prossimo”. L’amato mentore si rivela un autentico “giuda” che, come dirà sul momento Rodriguez, tenta solo di giustificare se stesso e il proprio peccato. Ciononostante Ferreira riesce ad esercitare una potente pressione psicologica sull’ex confratello accusandolo di autosuggestione: “anch’io – gli dice Ferreira – pensavo a Gesù nel Getsemani, anch’io mi sentivo come Gesù. Ma questa è presunzione e superbia”. E indicando i giapponesi sottoposti a tortura: “Loro non stanno soffrendo per Gesù, ma per te e la tua superbia”. E con questo lo spinge sull’orlo di una crisi nervosa che riesce a minare le già deboli fondamenta della sua fede (talis pater…).

Ma il fondo morale e teologico del film viene toccato nella frase che viene fatta pronunciare all’immagine di Nostro Signore destinata ad essere calpestata dall’apostata Rodriguez: “Calpesta! – dice la voce dello pseudocristo – Calpesta! Io più di ogni altro so quale dolore prova il tuo piede. Calpesta! Io sono venuto al mondo per essere calpestato dagli uomini! Ho portato la croce per condividere il dolore degli uomini”. Come riferisce Blondet nel suo articolo, questa frase è direttamente ripresa dal libro di Endo e perciò non è opera della sceneggiatura di Scorsese, segno evidente che dagli States al Paese del Sol Levante c’è qualcosa che non va nel cristianesimo vigente.

Eppure sembra che il “cristo” di Endo e Scorsese non conosca molto bene la Scrittura: “Certa è questa parola: Se moriamo con lui, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, anch’egli ci rinnegherà; se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso” (2Tm 2,11-13). Ora potrebbe mai Cristo andare contro se stesso incitando addirittura al peccato di apostasia materiale? Rispondo: no.  Neanche per salvare delle vite innocenti? Rispondo ancora: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16,24-25).

Ma com’è possibile che Dio permetta il male e la sofferenza? Perché si deve soffrire? Domande che non si possono comprendere se non alla luce della fede nel Cristo, e Cristo Crocifisso, Lui che è l’unico Giusto, l’unico Innocente che Dio Padre ha abbandonato agli aguzzini perché lo sfigurassero tanto da non sembrare più umano il suo aspetto. Direbbe San Pio X: cosa si aspettava signor Endo? che questa vita fosse una gita di piacere? Il Buon Gesù ci ha promesso in anticipo le persecuzioni e le torture e nessuno potrà dire “però potevi dircelo prima!” perché Lui, in effetti, ci aveva avvisato: “Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia. Ricordatevi della parola che vi ho detto: Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi” (Gv 15,19-20).

Ma l’eresia è sottile, e il nemico più infido di quanto si creda. L’ultimo errore che cristiani come Endo e Scorsese hanno mutuato dalla dottrina adulterata contemporanea, e che hanno rifilato al grande pubblico con questo racconto ben scritto, è il mantra agnostico secondo cui “non possiamo sapere chi si salva e chi no”. Ora non credo sia necessario spendersi in questioni capziose di soteriologia inconoscibile, giacché la Chiesa ha il mandato di trasmettere e insegnare quello che il Signore ci ha comandato inequivocabilmente, ossia: “chi persevererà sino alla fine, sarà salvato” (Mt 24,13). E ancora: “Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e metteranno a morte alcuni di voi;Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime” (Lc 21,16.19).

Ora il “Silence” di Endo-Scorsese si conclude con un giudizio insindacabile di matrice relativista secondo cui, nonostante il padre gesuita Rodriguez abbia rinnegato pubblicamente e ripetutamente la fede in Gesù Cristo, nonostante abbia condotto una vita osservando riti ed usanze buddhiste, nonostante abbia scritto libri contro il cristianesimo, nonostante abbia contribuito a stanare i cristiani giapponesi nascosti, nonostante tutto, si conclude: «chi siamo noi per giudicare?». Mai la Chiesa aveva posto il problema dei lapsi e dei rinnegati in termini così relativisti e buonisti, basterebbe leggersi gli scritti di San Cipriano di Cartagine e gli atti dei martiri dei primi secoli. Non è giusto né leale risolvere ogni questione morale con la sentenza “in fondo soltanto Dio può dire chi si salva e chi no”, faremmo danno a noi stessi. Questo infatti, se ci si fermasse a riflettere anche solo un minuto, equivarrebbe alla dissoluzione dello scopo stesso della Chiesa sulla Terra. Non avrebbe più senso alcuna legge morale, qualsiasi precetto divino, naturale e positivo, perderebbe forza ed obbligatorietà. Verrebbe meno la dimensione sociale dell’agire dell’uomo che è per sua natura visibile ed esteriore, relegando l’ambito della scelta vera e autentica in un inconoscibile interiore homine: solo Dio sa!

Anche qui dobbiamo rinvenire la radice luterana dell’eresia modernista che interpreta la fede come esperienza esclusivamente interiore e intimistica, separandola nettamente e irrimediabilmente dalle proprie azioni esteriori. Una tale scissione consente di pensare una cosa e fare il suo esatto contrario, vivendo nell’ipocrisia più perversa che esista: far coincidere la propria coscienza, che è soltanto norma prossima dell’agire, con la voce stessa di Dio. L’uomo non è un angelo, ma è fatto di spirito e corpo e dimostra i suoi sentimenti, la sua fede, le sue convinzioni politiche e sociali, le sue aspirazioni interiori attraverso gesti esteriori. L’actus exterior deve essere espressione coerente e armonica dell’actus interior, l’atto elicito dell’atto imperato e questo della retta ragione ordinata al fine ultimo: “Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza” (Rom 10,9-10).

Ora, quale insegnamento morale edificante per le nostre anime si potrà trarre da questa esegesi di un’apostasia fatta “in buona fede” e con le “migliori intenzioni”?

Non è l’eccezione al male che dovrebbe attirare lo sguardo di un cattolico, ma la regola nella virtù. A che scopo leggere le vite dei santi se non per imitarne la fortezza, la pazienza, la fede, la carità, lo spirito di sacrificio? Lo sappiamo, la lotta è dura, rialzarsi ogni volta per procedere verso il nostro “monte fato” portando il nostro personale fardello è a tratti così opprimente, ma potremmo, se lo volessimo, viaggiare sulle ali della grande aquila se solo ci abbandonassimo totalmente nelle mani del Figlio Crocifisso.

L’Altissimo e Onnipotente Bon Signore, alla peccatrice pentita ha detto “va e non peccare più”, non ha detto “pecca fortiter sed crede firmius” come lo pseudocristo di Endo e Scorsese (e Lutero). Non le ha risparmiato la fatica della penitenza e non le ha dato un’assoluzione a buon mercato. Iddio ci chiede la vita, l’anima, la libertà, la gioia e la sofferenza, tutto, ma solo per darci tutto, cioè se stesso.

Io non so, dinanzi a Dio, a quale fine siano andati incontro gli apostati Giuseppe Chiara e Cristóvão Ferreira, ma una cosa la so. Circa cento anni dopo, nella stessa Kirishitan Yashiki dove furono incarcerati i due apostati, un altro uomo trascorse quattro anni come prigioniero del maestro confuciano Arai Hakuseki: si tratta dell’Abate Giovanni Battista Sidotti, anch’egli siciliano come padre Chiara, ma di un’altra pasta. Sidotti aveva espressamente chiesto a Papa Clemente XI di poter partire da solo come missionario per il Giappone. Sbarcato nell’isola di Yakushima travestito da samurai nel 1708 fu subito riconosciuto e imprigionato. Da Kagoshima fu trasportato a Nagasaki, in seguito a Edo presso la prigione dei missionari apostati («Bateren»). I lunghi interrogatori fra padre Sidotti e Arai Hakuseki suscitarono nel maestro confuciano sentimenti di ammirazione e profonda stima per il prete “romano”, come lo chiamava. Ma ciò non gli impedì di incarcerarlo. “Dopo la fine degli interrogatori (1709-1710) seguirono 4 anni monotoni nella residenza. Ma poi avvenne l’incredibile: i due anziani sposi che per decine d’anni avevano servito i “Bateren” (apostati), per la prima volta si sentirono profondamente attratti dalla tenerezza di padre Sidoti che rispondeva con gentilezza e amore alle loro cure”[2]. Quindi chiesero che li istruisse nella Dottrina Cristiana e gli domandarono la grazia del Battesimo. Sorpreso mentre li educava alla fede, fu gettato insieme ai due neofiti in quelle stesse fosse dove ricusarono di morire Ferreira e Chiara. “Padre Sidoti giorno e notte, dalla sua buca, incoraggiava i due figli spirituali a tenere il cuore verso Gesù sofferente e tendere al Paradiso. Arai, che fu testimone di questa scena, finisce dicendo: «Il Romano è impazzito!» I tre passarono al cielo, prima Haru (la moglie) poi Chosuke e infine padre Sidoti. Poi sopravvenne un silenzio durato 300 anni[3].

Padre Giovanni Battista Sidotti fu l’ultimo missionario del Giappone, morì nel 1714 a 47 anni. Il 4 aprile del 2016 le autorità del Giappone hanno confermato l’autenticità dei resti dell’Abate Giovanni Battista Sidotti (Sidoti, Sidot), ritrovati circa due anni prima in uno scavo a Tokyo. Un segno pietoso da parte della Divina Provvidenza che non ha permesso che le ossa di un suo figlio così fedele fossero disperse e dimenticate: “Pretiosa in conspectu Domini, mors sanctorum eius”. Non così per Ferreira e Chiara i cui corpi cremati, secondo l’empia pratica buddhista, sono stati dispersi come pula nel vento: “Non sic impii, non sic; sed tamquam pulvis quem projicit ventus a facie terrae” (Salmo 1,4).

Padre Giovanni Battista Sidotti, prega per noi.

 


[1] Conc. Trid., sess. V, Decreto sul peccato originale, can. 5, 17 giugno 1546.
[2] http://www.ilponte.com/samurai-del-vangelo/
[3] Ibidem.