mattia-sbragia-2

 

Troviamo in rete e segnaliamo ai nostri lettori questa intervista, pubblicata su Pagine ebraiche ormai un anno fa, ma solo recentemente ripresa dal portale Moked. E’ stata realizzata a cura di Adam Smulevich a padre Norbert Hofmann, salesiano, segretario della “Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo” – uno di quei contesti in cui si propala la menzogna del “dio unico” comune a cristiani ed ebrei – e presenta un certo interesse per l’attualità ecclesiale. Sottolineature nostre [RS]

 

Padre Hofmann, tante volte ci si chiede quale sia lo stato del dialogo tra ebrei e cristiani. A che punto siamo arrivati?

Direi a un punto ottimo. Sono le piccole e le grandi iniziative a ricordarcelo. Parlando della nostra specifica esperienza, vorrei partire dal 2002. Fu nel giugno di quell’anno infatti che prese avvio la sfida di questo gruppo interreligioso, con un primo incontro segreto sponsorizzato da Giovanni Paolo II. Qualche mese di preparazione e, nel febbraio dell’anno successivo, il via ufficiale ai lavori. Il nostro è un gruppo ristretto e selezionato. La struttura ideale perché così circolano meglio idee e pensieri e si rafforzano rapporti di amicizia. Insieme, abbiamo costruito un percorso ricco di stimoli e con uno sguardo costante all’attualità. La santità della vita, la base dell’etica nell’ebraismo e nel cristianesimo, le sfide della leadership religiosa: tutti temi che abbiamo declinato concretamente.

Ci può fare un esempio di come questi incontri abbiano una ricaduta nella vita delle persone?

Faccio questo esempio: fino a poco tempo fa i carcerati cristiani in Israele non potevano celebrare la messa con il vino. Presa coscienza di questa problematica, la nostra delegazione si è fatta viva e ha intavolato una trattativa diretta con il ministro competente. La questione è stata presto risolta.

Ma il vostro è un dialogo politico o religioso?

Assolutamente religioso, di per sé non parliamo di politica. Anche se evidentemente i temi, talvolta, possono intrecciarsi. Come dimostra questa vicenda.

Lei ha tratteggiato un quadro molto positivo. Quali sono invece le maggiori difficoltà?

Il problema è principalmente uno, almeno dalla nostra prospettiva. Come noto il rabbinato ortodosso non si addentra con piacere in questioni teologiche. Come però giustamente rileva il rav David Rosen di qualunque cosa un rabbino e un prete parlino, la religione c’entra sempre. Non si può prescinderne. Mi sembra un’osservazione molto acuta e pertinente.

Ha la sensazione che messaggi positivi come quelli che cercate di diffondere talvolta non buchino lo schermo, non raggiungano i grandi media?

“Good news, no news” si usa dire. E purtroppo talvolta è molto vero, ma non deve fermarci e demotivarci. I risultati sono straordinari, se pensiamo anche semplicemente al fatto che prima del 2002 l’accesso al mondo ortodosso ci era precluso. Dal 2002 questo non solo è possibile, ma addirittura il nostro partner ufficiale è il Gran Rabbinato d’Israele. Un fatto tutt’altro che irrilevante. Anche se è chiaro a tutti noi, ebrei e cristiani, che non possiamo strumentalizzare questo dialogo. La cautela, in ogni nostra uscita pubblica, è fondamentale.

Vede qualche ostacolo significativo nel futuro dei rapporti tra Santa Sede e Stato di Israele?

Non vedo problemi così rilevanti, ostacoli insuperabili nel nostro futuro. Un argomento spigoloso è senz’altro quello relativo alla confraternita dei Lefebvriani e alla sua possibile riconciliazione con la Chiesa. Come noto, c’è chi all’interno di quel mondo è portatore di posizioni di odio e negazione della Shoah. Proprio per questo, è escluso che la pratica vada a buon fine. Fin quando non verrà accettato il Concilio Vaticano II, il suo spirito, i suoi valori, ogni loro velleità è destinata a naufragare. Non mi pare proprio che la Nostra Aetate sia compatibile con quelle posizioni estreme. Quindi, cari amici ebrei e israeliani, non preoccupatevi.