An organiser walks on a large European Union flag displayed in f

Austria e Paesi dell’Est non rispettano gli impegni sugli immigrati. La Germania non rinuncia al suo enorme disavanzo commerciale. La Polonia non cambia la riforma della Corte Costituzionale… La Commissione conta sempre meno. Segni di rottura?

 

di Giovanni Del Re [fonte: Pagina99 di oggi]

 

Molti non vogliono chiamarla così. Ma ormai è sotto gli occhi di tutti: la crescente ribellione contro Bruxelles, una ribellione che mette a rischio le fondamenta dell’Unione europea. Non parliamo dei movimenti populisti, parliamo delle capitali, degli Stati membri, ormai sempre più sotto la pressione di quei movimenti. «Per la prima volta nella storia europea del Dopoguerra», ha lamentato lo stesso presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, «non tutti gli Stati membri applicano le regole comunemente concordate». «Indubbiamente», commenta Steven Blockurans, professore di Diritto Ue all’Università di Amsterdam e ricercatore senior del Ceps, uno dei maggior think-tank di Bruxelles, «sta emergendo un ambiente sempre più antagonistico, mentre molti governi cercano di trarre capitale politico da questa situazione».

Un capitolo che salta agli occhi è quello della migrazione. «Sebbene gli Stati membri abbiano preso significativi impegni a livello Ue», afferma in un rapporto sulla crisi della governance Ue Tanja Börzel, ordinario di Integrazione europea presso l’Otto Suhr Institute of Political Science della Libera università di Berlino, «molti di loro mostrano scarsa inclinazione a dare seguito e rispettare gli impegni presi». Così, prosegue, «fondi non vengono pagati, rifugiati e richiedenti asilo non vengono accolti, le leggi Ue non vengono attuate».

I primi a venire in mente, certo, sono i riottosi Paesi dell’Est. Ungheria, Slovacchia, Polonia, Repubblica Ceca rifiutano di partecipare alla ridistribuzione di 160 mila richiedenti asilo da Italia e Grecia. «La ridistribuzione è morta», ha tuonato il premier slovacco Robert Fico, infischiandosene che invece da settembre 2015 è legge Ue pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. E il governo di Budapest ha fatto sapere che non accetterà richiedenti asilo neppure se la Corte di giustizia Ue (cui il governo ungherese ha fatto ricorso) darà ragione alla Commissione. Anche l’Austria – che nel 2015 ha visto 90 mila richieste di asilo – rifiuta la ridistribuzione. Molti altri recalcitrano, basti dire che, al 10 gennaio 2017, sono stati ricollocati appena 2.654 dall’Italia e 7.338 dalla Grecia. A settembre il programma si conclude – un fiasco totale.

E poi c’è Schengen, l’area senza frontiere: l’autorità di Bruxelles è stata praticamente sepolta. Nel 2015, di fronte a centinaia di migliaia di profughi in arrivo, vari stati membri hanno autonomamente reintrodotto controlli alle frontiere interne. Vienna nell’autunno di quell’anno ha avviato un’alleanza «asburgica» con i Paesi dei Balcani Occidentali all’insegna dei muri, ignorando Bruxelles ma anche Berlino o Roma. E solo pochi giorni fa il ministro dell’Interno austriaco, Wolfgang Sobotka, ha fatto sapere che l’Austria manterrà «a tempo indeterminato» i controlli alle frontiere interne «finché le frontiere esterne Ue non saranno sicure», anche se Bruxelles sarà contraria, e in violazione del regolamento Schengen.

L’Austria è una caso tipico: pur avendo sventato la spettro di un presidente di estrema destra, quest’ultima veleggia in poppa nei sondaggi, ed entro il 2018 si vota. Anche la Germania, dove montano gli euroscettici “xenofobi” del-l’AfD (si vota in autunno), ha lanciato discretamente lo stesso identico messaggio. Non c’è solo la migrazione. La Polonia, guidata dai nazionalisti di destra di Jaroslaw Kaczinski, sta sfidando apertamente la Commissione la quale – forte del trattato Ue, che chiede a Bruxelles di vigilare sul rispetto di diritti e valori fondamentali dell’Unione – invoca una correzione della riforma della Corte costituzionale, che sostanzialmente la asservisce al governo. Varsavia ha bellamente ignorato una deadline – la scorsa settimana – entro cui avrebbe dovuto apportare le riforme richieste da Bruxelles. «Ci chiediamo», ha tuonato il ministro degli Esteri Witold Waszczykowski, «se questa leadership della Commissione abbia il diritto di continuare a funzionare. Noi diciamo di no». La ribellione monta anche in Francia, altro caso di pressione populistica. Una pietra dello scandalo è la direttiva sui lavoratori distaccati da un’azienda in un altro paese dell’Unione (che prevede che debbano esser pagati secondo gli stipendi e i contributi del Paese d’origine): per Parigi è dumping salariale (l’occhio è rivolto ai paesi dell’Est). «Se la Commissione non ci ascolta», ha tuonato a settembre l’allora premier Manuel Valls, «la Francia non applicherà più questa direttiva».

E anche la Germania dà chiari segni di insofferenza, ad esempio rifiuta la liberalizzazione di molti servizi, in barba alla direttiva del settore. E quando la Commissione ha chiesto – sulla base delle regole della governance economica Ue varate insieme a Berlino – di ridurre l’enorme avanzo commerciale tedesco aumentando gli investimenti, il ministro delle Finanze tedesco Wolgang Schäuble è sbottato: «Siamo perfettamente in regola, Bruxelles travalica i suoi poteri».

Ed ecco un altro campo in cui ormai pochi ormai rispettano le regole: la governance economica e soprattutto il Patto di stabilità. Con l’Italia che potrebbe andare a ingrossare le fila dei ribelli se Bruxelles insisterà con la sua richiesta di una correzione dei conti pubblici da circa 3,4 miliardi di euro, con lo spettro di una procedura per deficit eccessivo. In Europa sono in molti a contestare queste rigidità, ma risolverle semplicemente ignorando le regole (a cominciare dalla stessa Commissione) forse non è l’ideale. «Un’Unione che non è in grado di rispettare gli impegni e le regole che si è data», avverte l’economista Gun-tram Wolff, direttore del centro studi Bruegel di Bruxelles, uno dei migliori think tank di economia internazionale europei, «fallirà».

Sullo sfondo errori della Commissione Juncker. Definendosi «Commissione politica» è come se avesse smesso i panni di arbitro imparziale che, da Trattato, deve far rispettare le regole. «Il primo compito della Commissione, secondo il trattato», afferma ancora Wolff, «è di tutrice del diritto Ue, se tutti diventano “politici” è un problema», perché, aggiunge Blockmans, la Commissione così «erode la sua stessa basa giuridica, da arbitro si colloca al centro dell’arena politica e le sue decisioni vengono percepite come politicamente motivate». Non aiutano certo le dichiarazioni di Juncker, come, ad esempio, quando rispose «perché è la Francia» a chi gli chiedeva perché Bruxelles continui a concedere rinvii a Parigi sul deficit. Nel 2015 la Frankfurter Allgemeine – mai smentita – scrisse che in discussioni interne all’Eurogruppo Schäuble argomentò che, se la Commissione è “politica”, allora non può assolvere alle funzioni di arbitro, e dunque bisogna spogliarla di competenze chiave come l’antitrust o il controllo dei conti pubblici. «Se la Commissione non è all’altezza della situazione», ha dichiarato lo stesso Schäuble in pubblico, «allora prendiamo noi le cose in mano, e risolviamo le cose tra governi. Questo approccio intergovernativo ha funzionato durante la crisi dell’euro».

Come lui la vedono Angela Merkel, ma anche molti altri Stati, dall’Olanda all’Austria, dalla Repubblica Ceca alla Francia. Nel mirino non è solo la Commissione, ma persino la Corte europea di giustizia, l’ultima istanza, sempre più criticata, specie in Germania, soprattutto dopo il via libera ai programmi salva-euro della Bce (dall’Omt per i Paesi in difficoltà al Quantitative Easing). «La Corte», ha tuonato Rupert Scholz, giurista già deputato Cdu al Bundestag, «non solo aumenta a dismisura le competenze delle altre istituzioni Ue, ma anche le proprie». Sotto attacco è sempre più pure la Bce, che tedeschi, olandesi, austriaci accusano di aver apertamente travalicato le proprie funzioni con il Quantitative Easing. «Se si minano le istituzioni preposte ad agire nel solo interesse dell’Ue e dell’ordine giuridico comune», avverte Blockmans, «si trasforma l’Unione in un classico organismo internazionale come l’Onu o la Nato, sacrificando i molti diritti dei cittadini. Si getta alle ortiche qualcosa di molto prezioso».

Sullo sfondo qualcosa di ancor più preoccupante: alla base di questa ribellione c’è la pressione sulla politica “tradizionale” di quello che Börzel definisce l’«euronazionalismo» dei populisti, e cioè «una mobilitazione di idee illiberali, nazionalistiche, xenofobiche». In gioco, ancor più dell’Europa, è la democrazia.

 

LE RAGIONI

• Austria

Rifiuta di partecipare al programma di ridistribuzione di richiedenti asilo sancito da una direttiva Ue. Nel 2015 ha promosso un’alleanza di Stati nei Balcani per chiudere le frontiere ignorando Bruxelles. Di recente ha annunciato che manterrà «a tempo indefinito» i controlli ai confini interni, in violazione di Schengen «finché le frontiere esterne Ue non saranno sicure».

• Ungheria

Rifiuta di accogliere richiedenti asilo da Italia e Grecia, nonostante la direttiva in vigore, e annuncia che non lo farà neppure se la Corte di giustizia Ue darà ragione alla Commissione. Inoltre rifiuta di applicare la decisione della Commissione che ha definito «illegittima» la norma fiscale che privilegia alcune società sul fronte delle imposte sui proventi pubblicitari.

• Slovacchia

Rifiuta di accogliere richiedenti asilo, dichiarando «morta» la ridistribuzione anche se è legge Ue.

• Polonia

Rifiuta di modificare la riforma della Corte Costituzionale, che la asservisce al governo in violazione della divisione dei poteri democratici, come richiesto dalla Commissione europea sulla base del Trattato Ue, il quale richiede il rispetto dei valori fondamentali e dei diritti comunitari.

• Francia

Parigi minaccia di rifiutare l’applicazione della direttiva sui lavoratori distaccati, affermando che questa porterebbe a un dumping salariale. Da anni non rispetta le regole sul deficit.

• Germania

Vuole tenere chiuse le frontiere interne a oltranza, anche sfidando la Commissione e Schengen. Rifiuta la liberalizzazione dei servizi. Rigetta la richiesta della Commissione – fondata sulla governance Ue varata insieme a Berlino – di ridurre l’eccessivo avanzo della bilancia commerciale aumentando gli investimenti. Critica apertamente la Bce per il suo Quantitative Easing.