diritto

 

di Massimo Micaletti

 

Si dice che Alcibiade, non ancora compiuti i vent’anni, abbia avuto con Pericle – che era il suo tutore, ma anche il capo della città – la seguente discussione sulle leggi.

«Dimmi, Pericle – avrebbe chiesto Alcibiade – mi sapresti spiegare che cos’è la legge?».

E Pericle: «Ma certo».

«Spiegamelo allora, per gli dèi – avrebbe detto Alcibiade – perché quando io sento che alcuni vengono elogiati perché sono uomini rispettosi della legge, credo che non meriterebbe tale elogio chi ignora cosa sia la legge».

E Pericle: «Non è un desiderio difficile da soddisfare, il tuo, Alcibiade, se vuoi sapere cosa sia la legge: sono leggi tutte queste che il popolo fa mettere per iscritto, dopo essersi riunito in assemblea e dopo averle ratificate, dichiarando ciò che si deve e non si deve fare».

«E il popolo giudica che si debba fare il bene o il male?».

 «Ma ragazzino, il bene, per Zeus – rispose Pericle – non certo il male».

«Ma se non è il popolo, bensì una minoranza – come avviene nel caso di un governo oligarchico – che si riunisce in assemblea e mette per iscritto ciò che si deve fare, questo cos’è?».

E Pericle: «Tutto ciò che chi comanda una città mette per iscritto, dopo aver deliberato quel che si deve fare, si chiama “legge”».

«E allora, se un tiranno comanda una città, e mette per iscritto ciò che si deve fare, anche questo è legge?».

«Anche ciò che un tiranno – rispose Pericle – fa mettere per iscritto nell’esercizio del suo potere, anche questo si chiama “legge”».

«Ma prevaricazione e illegalità – chiese Alcibiade – che cosa sono, Pericle? Non si hanno forse quando il più forte non persuade bensì prevarica il più debole, costringendolo a fare ciò che lui decide?».

«Io credo sia così», avrebbe detto Pericle.

«E allora ciò che il tiranno mette per iscritto e costringe i suoi cittadini a fare senza il loro consenso, è illegalità?».

«Credo di sì – avrebbe risposto Pericle – e ritiro quel che ho detto, che quanto il tiranno mette per iscritto, senza consenso, sia legge».

«Ma ciò che pochi uomini mettono per iscritto, senza persuadere la maggioranza, bensì comandandola, la definiremo prevaricazione oppure no?».

«Credo – avrebbe detto Pericle – che tutto ciò che si costringe qualcuno a fare, senza il suo consenso, mettendolo per iscritto oppure no, sia prevaricazione piuttosto che legge».

«E allora tutto ciò che l’intero popolo, comandando i ceti abbienti, mette per iscritto senza il loro consenso, sarebbe prevaricazione piuttosto che legge?».  

 

Già Senofonte – che qui trascrive Socrate nei Memorabilia – si interrogava sul confine tra legge ed arbitrio: forse la forza immortale dalla Grecia classica sta nell’eternità delle domande che si poneva, che sono le stesse dell’Uomo d’oggi e credo esisteranno sempre.

Inutile dire che Anche San Tommaso ha trattato il medesimo argomento[1], preceduto da Sant’Agostino[2]. Ora, il tema è di questi tempi e sarebbe impensabile trattarlo approfonditamente in queste poche righe: posso però condividere una breve riflessione, ispirata da quel dialogo che ho rispolverato dopo qualche anno tra le mie lettura.

Posto che la legge è il frutto dell’azione umana – democratica, oligarchica o monarchica che sia – in quanto tale essa non può essere sottratta al giudizio di Dio e al giudizio che gli uomini, solo per carità e mai per superbia, devono formulare su ogni azione umana. La legge – così come, su altro piano – la scienza – non è una forza della natura, non è un alito di vento che potrebbe giungere da ogni dove: è l’esito di decisioni, valutazioni, giudizi che possono essere giusti o ingiusti e il metro di valutazione dev’essere la Legge di Dio.

Ma immaginiamo di poter uscire da questa dimensione, di poter prendere in considerazione la categoria della “giustizia della legge” senza far riferimento al Trascendente: è un po’ difficile ed anche un po’ avvilente ma si può fare, se i tempi o gli interlocutori lo richiedono. Che argomenti potremmo usare?

Il criterio principe sta nella ragion d’essere stessa dal Diritto: a che serve, dunque, il diritto?

Il Diritto è uno strumento non violento di risoluzione dei conflitti: fiat iustitia ne cives ad arma ruant, sia fatta giustizia affinché i cittadini non vengano alle armi. Ma non basta, perché, come ci insegna il dialogo tra Alcibiade e Pericle, può esistere una forma non violenta di risoluzione dei conflitti che sia però prevaricante ed in ultima analisi – ahia – violenta: è la norma ingiusta.

Se però approfondiamo la riflessione, ci accorgiamo che il soggetto che nella realtà è in posizione di forza non ha alcun bisogno della legge: quel che vuole lo prende da sé, risolve la contesa a modo suo. Quindi, una legge che si limitasse a dirimere controversie o punire comportamenti sarebbe inutile. Non ci siamo, manca un quid pluris che dà senso al tutto: quel quid pluris è che i conflitti vanno risolti a tutela dei deboli.

Questo è il senso alto e vero del Diritto, la protezione del più debole, altro che il mero enunciato di procedure che qualcuno vorrebbe per garantire e benedire e finanziare porcherie come la fecondazione artificiale, l’aborto, l’eutanasia. Se il Diritto fosse questo, non ci sarebbe alcuna differenza tra una legge ed una ricetta per torte.

Né può dirsi che una legge sia giusta solo perché emanata in ossequio a norme condivise o da chi è stato scelto per iuris dicere: infatti, Pericle, dopo aver detto che “sono leggi tutte queste che il popolo fa mettere per iscritto, dopo essersi riunito in assemblea e dopo averle ratificate, dichiarando ciò che si deve e non si deve fare”, si corregge subito, incalzato da Alcibiade che giustamente obietta che l’ossequio delle forme previste per formare le leggi non ne garantisce di per sé la moralità. C’è un bel dire che “la 194 non si discute perché è stata fatta dal Parlamento e confermata dal referendum”, perché la genesi della norma non ci dice nulla sul profilo della sua giustizia.

Se passiamo in rassegna le leggi da ultimo promulgate sui temi della famiglia e della vita, così come le sentenze che qualche Giudice si è sentito in potere di emanare sempre in tale materia, fino al recente appello del Presidente della Corte di Cassazione che auspica una legge sull’adozione da LGBT che sarebbe “necessaria”, constatiamo con facilità l’inversione che si è operata in questi decenni: non più tutela del debole, ma garanzia delle pretese del più forte, ecco cos’è oggi il fine del diritto.

Quando Alcibiade chiede “Ciò che pochi uomini mettono per iscritto, senza persuadere la maggioranza, bensì comandandola, la definiremo prevaricazione oppure no?” si avvicina a descrivere i tempi che viviamo. Scrivo “si avvicina” perché, a ben guardare, per Alcibiade il male non sta nella violenza al Bene in sé, ma nel fatto che pochi impongano il loro volere a molti. Su questo punto, il criterio di Alcibiade è, in realtà, poco di natura etica e molto più contrattualistico e ciò emerge dal dialogo, se lo si esamina con attenzione. Tuttavia, la ricchezza di questo brano sta nel fatto che Alcibiade rifiuta il concetto di legge giusta di per sé, di un Diritto “buono” solo perché ossequioso di certe procedure o figlio dell’autorità.

Nella domanda di Alcibiade sta dunque un ritratto ben approssimato del tessuto normativo dei nostri tempi: un gruppo di persone – élite culturale nel senso meno elevato del termine che si possa immaginare – fa piombare nell’ordinamento norme e principi sovversivi a suo uso e consumo, col risultato che l’ordinamento, alla fine, non regge, perché pensato, appunto, per accogliere la ragioni del più debole, e non la pretesa del più forte.

Se siamo al punto che un gattino ha più diritti di un essere umano concepito, se siamo al punto che per la legge il consenso ad essere lasciati senza cure equivale all’assenso alle terapie, se siamo al punto per cui un Giudice decide che un bambino sta meglio con due uomini o con due donne, se siamo a questo punto è perché da troppo tempo il Diritto elude il confronto col Bene – e più ancora, il confronto con Vero Bene, che è la Parola di Dio – e si ripiega sull’utile, sul vantaggio per chi ha voce ed armi per difendersi, armi alle quali, appunto, si aggiungono troppo spesso leggi e giudici e funzionari.

Ed a farne le spese, come sempre, chi non ha né voce, né armi.

Ecco perché è importante che i giuristi perdano il rispetto per la legge e per la norma, non si limitino ad applicarla come tecnici o legulei, ma vi scorgano i profili di ingiustizia, di violenza, di ossequio al male. Formandosi questa coscienza, questa attenzione, che sono la coscienza e l’attenzione di Alcibiade ma anche – e ben più – la coscienza e l’attenzione di Sant’Agostino e San Tommaso, le leggi, le norme, le sentenze che rendono omaggio al più forte schiacciando il debole avranno vita sempre più breve.

 

 

 

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[1] Summa Theologica, I-II, q. 96, a. 4, c.;
[2] De Libero Arbitrio,  I, V “Nam lex mihi esse non videtur  quae iusta non fuit”, reso nel noto “Una legge ingiusta non è una legge”.