trump pence

 

di James Hansen

 

Donald Trump è antipatico anche a chi lo ha votato (l’autore precisa di non essere stato tra questi, ndr). In compenso, finora ha fatto – o provato a fare – esattamente ciò che aveva prospettato durante la sua campagna per la presidenza. L’esperienza di vedere un politico che nelle grandi cose sembra avere detto la verità è talmente fresca per il vasto pubblico americano che le piccole bugie e le assurde spacconate non solo gli vengono perdonate ma la sua popolarità pare addirittura in crescita tra il popolino operoso – se non nel ceto che invece si aspettava di vincere le elezioni con l’inevitabile trionfo di Hillary Clinton.

E’ qui che nasce il problema. Per la prima volta nella storia recente degli Stati Uniti, una parte importante della classe finora regnante del Paese non ritiene più di dovere rispettare il responso delle urne. Cioè, di riconoscere il vincitore come presidente legittimo. I giornali del particolare pensiero unico dominante negli Stati Uniti tuonano quotidianamente contro il volgare e imbarazzante uomo che ha dimostrato in maniera inconfutabile che la Regina Hillary era nuda. Il potente Establishment dell’intelligence Usa (17 agenzie con budget segreti e idealmente controllate proprio dalla Presidenza «garante») fa filtrare quotidianamente notizie senza fonte e senza prove in cui il proprio presidente, nominalmente il loro legittimo capo, viene esplicitamente accusato di tradimento, di intendersela con il nemico. Gli negano (e lo fanno sapere, come se fosse una prova della sua nefandezza) il beneficio delle molte informazioni riservate che raccolgono. Potrebbe, chissà, venderle a Putin.

Il Washington Post pubblica servizi in cui istruisce i burocrati federali della Capitale su come fare ostruzionismo per far sì che il nuovo Presidente non riesca a governare. Il New York Times invoca Watergate e sventola ipotesi di «impeachment» mentre attende di scoprire un plausibile motivo per giustificarlo. Intanto le «conspiracy theories», una volta considerate caratteristiche della destra Repubblicana, ora fioriscono rigogliose tra i Democratici. Avete sentito che Trump avrebbe pagato delle prostitute russe per pisciare sul letto d’albergo dove Barack Obama e Michelle hanno dormito a Mosca? Lo dicono anche i russi. Ma, non dovevano essere proprio loro gli sponsor di Trump? Oh, beh… La situazione si sta facendo pesante. In un altro paese di diversa tradizione e diversa storia ci sarebbe da tenere d’occhio i movimenti delle truppe attorno alla Capitale.

La forma repubblicana («r» minuscola) non regge (o almeno non ammette) che ognuno decida per proprio comodo quali sono i risultati elettorali che intenda rispettare. Il richiamo al solo risultato popolare, per esempio, è il rifugio di chi finge di non ricordare che il sistema elettorale americano, da oltre due secoli, contenga correttivi di tipo federalista. I «padri fondatori» firmatari della Costituzione non hanno voluto che pochi grandi stati particolarmente popolosi potessero determinare da soli la presidenza. Hanno deliberatamente temperato la «volontà popolare» con una correzione geografica (è questo che vuol dire federalismo) attraverso il meccanismo dei «Grandi Elettori» selezionati in rappresentanza dei risultati nei singoli stati. Nel caso, il meccanismo ha funzionato esattamente come previsto. Il margine «popolare» della Clinton a livello nazionale corrisponde con precisione al suo indubbio successo elettorale nel solo Stato della California – uno stato ritenuto da molti americani come poco rappresentativo del Paese nel suo insieme.

In altre parole, quel figlio di puttana ha vinto, e c’è poco da fare. O meglio, in passato ci sarebbe stato poco da fare. Ora però, tre pesantissimi centri di potere, la burocrazia federale, la stampa progressista dominante e la «intelligence community» Usa, sembrano avere deciso di non rispettare lo sgradito risultato elettorale. Trump però avrebbe dalla sua parte le forze armate, Wall Street e una netta maggioranza della popolazione produttiva del Paese. Nessuno dei due fronti dà segni di volere cedere e si stringono sempre di più le vie d’uscita per entrambi. Il risultato a breve è probabilmente una sostanziale paralisi, almeno al vertice, del Governo federale Usa.

Per l’America in sé, ciò è probabilmente tollerabile. C’è un grande corpo di ricerche che dimostra come la paralisi politica negli Usa (quando per esempio Camera e Senato sono in netta opposizione tra loro) faccia bene all’economia per la stabilità che conferisce. Per il ruolo americano nel mondo (sul quale molti paesi e agglomerati come l’Unione Europa fanno implicitamente conto) potrebbe invece essere una grave iattura. La situazione non è una completa novità. Richiama parecchio la reazione inorridita di una buona parte dell’elettorato conservatore all’elezione di Franklin Delano Roosevelt durante la Grande Depressione. Lui, come più tardi Ronald Reagan (di segno politico opposto) è stato beatificato solo ben dopo la sua morte. In entrambi i casi ci sono state pericolosissime crisi e una grande vittoria nazionale in mezzo: per Roosevelt, la Seconda Guerra Mondiale, per Reagan, la Guerra Fredda. C’è da augurarsi che la ricomposizione della terribile frattura che si sta aprendo nella società americana (in un momento ovviamente molto delicato) non richieda altrettanto per essere compiuta.

Potrebbe essere il caso di ricordare qui ai molti europei che non sopportano Trump (forse più per una sorta di malintesa simpatia progressista che per un rifiuto della democrazia) che quello degli Stati Uniti non è un sistema parlamentare. Ammesso che si riuscisse a far fuori Donald Trump, non è che si ricominci da capo, richiamando la Clinton o con l’indire di nuove elezioni. No, il nuovo presidente sarebbe l’attuale Vice-presidente, Mike Pence, uno dalle idee politiche che mescolano quelle di Savonarola e di Attila l’Unno – e che fa ricordare come Donald Trump nasca «liberal» e Democratico prima di passare tra i Repubblicani per candidarsi alla presidenza.

 

Fonte: ItaliaOggi, edizione cartacea, pag. 11