di Cristiano Lugli
La ricerca della perfetta Unità con Dio vuole essere il percorso quaresimale su cui si è tenuti a riflettere, coscienti che, senza dono perfetto, non esisterà mai unione perfetta e l’anima rimarrà sempre attaccata alle cose della terra, senza prendere il volo e ciò vorrebbe dire sprecare le capacità che perlomeno in potenza sono date da Dio all’anima, a Sua immagine e somiglianza.
Anzitutto l’introspezione necessaria richiede una grazia particolare, e cioè quella di pregare senza sosta affinché ci sia dato il lume fondamentale per vedere, dentro noi stessi appunto, gli ostacoli che si oppongono all’unione con Dio. L’accompagnamento ci viene e ci verrà offerto, come spiegato la scorsa volta, da San Giovanni della Croce, il quale mira dritto all’altura di quel monte Carmelo ove la contemplazione dei misteri divini stava alla base della vita eremitica, nonché a quella postera alla Riforma dell’Ordine dei Carmelitani Scalzi proiettata ancor più verso le origini.
Il linguaggio di San Giovanni della Croce riporta spesso ad esaminare una specifica categoria di moti opposti alla volontà di Dio, facilmente riconducibili al concetto di appetiti, come dal mistico stesso spiegato: “Affinché l’anima venga ad unirsi perfettamente a Dio per volontà ed amore, è necessario soprattutto che si vuoti di ogni appetito di volontà, per piccolo che sia”. Questi “appetiti’ altro non sono che vere e proprie inclinazioni o affetti disordinati verso le creature, perciò pendenze, gravi o meno gravi a seconda dei casi, difformi alla volontà di Dio. Il motivo per cui siano contrari alla volontà di Dio va ricercato in ciò che sono propriamente le disposizioni di Dio, Il Quale certo non vieta di amare le creature – compresi noi stessi -, ma vuole che ciò sia fatto nella misura in cui Egli vuole, ordinando questi affetti a Lui solo e tenendoci ben lungi dal ricercare una personale ed egoistica soddisfazione. Oltre ad impedire lo slancio poi, queste inclinazioni o appetiti possono procurare danno all’anima, giacché volontariamente assecondati, pur anche in cose apparentemente minime, danno campo a peccati veniali o comunque sia ad imperfezioni volute, deliberate volontariamente.
Un’ammissione ed una deliberazione di queste mancanze fatta con cognizione di causa, imbratta la volontà umana di atteggiamenti contrari alla volontà divina, procurando de facto l’impossibilità di unire queste due volontà e rimanendo perciò distante dall’unione mistica a cui richiama San Giovanni, e come lui tanti altri Santi che l’hanno vissuta. Proprio a questo proposito, siccome le inclinazioni difettose in grado minimo rischiano facilmente di diventare abituali perché erroneamente ritenute lievi, l’anima perderà la volontà di sforzarsi per correggersene, cadendo nello stallo e nella patina che immobilizza i moti dello spirito allontanandolo sempre più dall’unione con Dio. Tant’è che proprio il Santo dice, in merito a questi impedimenti, che “non solo impediscono l’unione divina, ma anche il progresso nella perfezione”, riportando poi alcuni esempi concreti e consoni al nostro tempo così come alla nostra quotidianità, definendoli “abiti imperfetti” non mortificati: la curiosità non frenata, l’attacco alle piccole cose (oggetti, persone, un certo di tipo di pietanza, ecc.), il vezzo di parlare molto, tutte cose insomma a cui l’anima fatica a rinunciare perché bramate dal corpo che parimenti richiede un piacere ed una soddisfazione egoistica. Fra queste sono annoverate con maggior preponderanza le comodità, le immediate soddisfazioni dei sensi, la brama di esprimere il proprio parere, difendere il punto d’onore e tutto ciò che si conforma alla vanità ed alla superbia. Da tali miserie – che San Giovanni chiama “fungaia di appetiti” – l’anima attratta verso la terra trova effimeri soddisfazioni egoistiche che le impediscono di staccarsi una volta per tutte. Appetiti abituali dunque, costanti, di cui il Santo dice “basta un solo appetito immortificato per impedire l’anima”.
Il lavoro essenziale da compiersi possiamo comprendere che sia da svolgersi sulla volontà, poiché quando si tratta di inclinazioni difettose ma che hanno ragion d’essere nella debolezza umana allora ciò “non impedisce di conseguire la divina unione”, purché i primi moti di queste imperfezioni siano subitamente soppressi, non appena è avvertita l’entità. La volontà conta in questo campo più di qualsiasi altra cosa: essa va resa libera da ogni minimo attacco. L’abitudine corrompe ed impernia il vizio molto più che le cadute sporadiche – anche lievemente più gravi volendo – ma accadute per fragilità o di sorpresa: le prime provenendo da abituali attacchi che l’anima, superficialmente, non si cura di sradicare in modo drastico e definitivo.
“Se l’anima porta affetto abituale a qualsiasi imperfezione, incontra maggior ostacolo a crescere in virtù, che se cadesse ogni giorno in molte altre imperfezioni e peccati veniali saltuari, i quali non procedessero da mala consuetudine”. In questo tratto il gigante del Carmelo ci rammenta che, pur piccole che siano, queste imperfezioni hanno la grave capacità di fungere da lacci che legano alla terra ed impediscono il volo. E circa il “volo” dell’anima San Giovanni della Croce offre l’esempio lampante del volo di un uccello: “Che importa se un uccellino sta legato ad un filo sottile, piuttosto che ad uno grosso? Per quanto il file sia sottile, è sempre vero che l’uccellino è legato e, sino a che non lo spezzi, non potrà volare. Così avviene all’anima unita con l’affetto a qualche cosa: benché fornita di molte virtù, non giungerà alla libertà dell’unione divina”.
Ciò detto è utile capire come per il mistico non esistano vere mezze misure rispetto alla rinuncia; verosimilmente il distacco deve essere totale: rinunciare a tutto, distaccarsi da ciò che ci lega alla terra per fini e disposizioni personalistiche. Pensare che ciò voglia dire troppo, infine, sarebbe voler negare quel che rientra nella pura e netta dottrina evangelica, secondo quanto detto da Gesù stesso: “rinnega te stesso” (Mt. 16,24). Esortandoci a questa rinnegazione Nostro Signore non chiede di rinunciare a questo o a quello, a qualche cosa soltanto insomma, ma piuttosto a tutto ciò che impedisce di seguirLo sulla Via della Croce “perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; chi invece avrà perduto la sua vita per amor mio, la ritroverà (…) Ora, se la tua mano o il tuo piede è per te occasione di scandalo, taglialo via e gettalo lontano da te” (ivi, 16,25; 18,8).
Nessuno può negare che tutto questo spaventi o che appaia ardua impresa, tuttavia questo non può e non deve essere una scusante, giacché il premio in palio è senza pari. Sappiamo che il corpo è ingannevole e tendente ad illudere lo spirito di essere più forte. Nondimeno però, chi ha provato il digiuno, sa che questo risulta faticoso e mordente inizialmente ma, una volta sottomesso il corpo, l’abitudine si erge e tutto il peso di ciò che San Giovanni Climaco chiama “demone dello stomaco” scompare gradualmente facendo riscoprire un certo senso di leggerezza e distacco, utile quanto mai all’anima per immolarsi verso le cose che riguardano i Beni celesti.
La dottrina del distacco fornitaci dal monaco carmelitano ci insegna ciò che il Salvatore ha voluto per noi, cioè farci comprendere che per la salvezza e la santità dell’anima dobbiamo saper rinunciare a qualsivoglia cosa, specialmente se d’inciampo a divenire uniti con Cristo e per mezzo di Cristo in Dio. In questo profondo senso di “negazione” e “perdita” di se stessi – anche perdendo la vita, se ciò fosse necessario – risiede la chiave di volta per ambire alla santità di vita su questa terra e alla gloria senza fine nella Vita eterna.
Ci aiuti San Giovanni della Croce a rendere efficaci i nostri sforzi in questo tempo propizio.