Riproduzione del Santo Sepolcro, Chiesa dei SS. Girolamo e Vitale a Reggio-Emilia

Riproduzione del Santo Sepolcro, Chiesa dei SS. Girolamo e Vitale a Reggio-Emilia

 

di Cristiano Lugli

 

E infine si è giunti qui, sotto l’alveo sanguigno di quella Croce nera, purpurea, che sorregge dalla terra fino al Cielo la verticalità maestosa del Figlio di Dio, con le braccia espanse a mondare dall’uno all’altro capo della terra i peccati del mondo e di coloro che Dio fece simili a sé, dimostrandosi essi incapaci di riconoscere ancora una volta l’occasione del riscatto.
Terribile è la Croce: nera, alta, grondante di sangue e di agonia, di amore e di Salvezza tanto quanto serve per far arrossire chiunque alzi l’occhio verso essa, tanto è l’indegnità nostra, di misere miserie che riconducono l’Agnello al patibolo.I Profeti ne annunciarono e nessuno udì; Gesù stesso proclamò ciò che avrebbe dovuto patire, ma nessuno ascoltò. I simboli di tutto il Vecchio Testamento prefiguravano la venuta di Dio sulla terra e l’innalzamento sulla Croce, eppur nessuno comprese. Isacco, con la legna per l’olocausto in spalla, salì il monte pieno di obbedienza al padre, simboleggiando il carico di Gesù verso il Golgota, lui essendo risparmiato dopo l’atto di estrema Fede di Abramo, il montone venendo immolato al suo posto.
A tutto questo nello scorrere della Settimana Santa siamo stati rimandati, per comprendere cosa significa amare la Croce veramente, pur rimanendo incapaci di amare come il Crocifisso ci ha amati e ci ama: si badi bene, per la prima volta è Dio che “muore”. Non uomo, non profeta, non santo, non “semi-dio”, ma Dio stesso.
Gesù Cristo ci mostra che la Croce altro non è che sofferenza veduta nella luce soprannaturale, come unico strumento di salvezza e santificazione, e cioè strumento di vero amore. In questo tempo di penitenza ci siamo fatti guidare dalla “vetta del Monte Carmelo”, ovvero San Giovanni della Croce, il quale ci ha mostrato come l’anima debba essere purificata e raschiata dalle proprie lordure di modo da ottenere, già qui, sulla terra, una perfetta unione con Dio in seno ad un’opera di mortificazione totale, volta a strappare i nostri attaccamenti alle cose, i nostri affetti disordinati che c’impediscono di unirci a Dio. E come fare questo senza la sofferenza? La Croce è maestra, null’altro; tanto occorrerà una sofferenza attiva, fatta di penitenze e personali mortificazioni, tanto, nel medesimo tempo, guardando il Crocifisso dovremo chiedere a Dio di farci soffrire nello spirito, allo scopo di scuotere via quella ruggine di sonnolento torpore umano. Di sofferenza passiva si tratta, ed è certamente una di quelle grazie importantissime da chiedere al Signore. Se in questo senso Dio agirà sulla nostra anima, verrà mostrata ancora una volta la Sua infinita Misericordia, giacché è proprio quando Dio interferisce in questo modo su un’anima che là possiamo comprenderne il desiderio di traghettarla verso un cammino di piena perfezione.

 

Nello splendido cantico spirituale “Fiamma d’amor viva”, San Giovanni chiede fra le righe per quale motivo sono così poche le anime in grado di arrivare alla pienezza della vita spirituale, rispondendo che la ragione devesi trovare non in Dio che privilegia qualche anima, quanto piuttosto nelle poche anime che Dio trova disposte a farsi carico della  profonda opera di purificazione richiesta per essere trafitti da quell’amore incommensurabile del Signore. Così facendo, Dio non potrà continuare a purificare anime mediocri, ed esse si condanneranno ancor più a questo stato di tepore, in uno stallo che non va avanti come non va indietro. Se non si soffre nello spirito – oltre che nel corpo – non si allargheranno mai le potenze dell’anima: Cristo ha vinto la morte nella desolazione e nell’abbandono, non va dimenticato.
Su questo meditava sovente Santa Teresa di Gesù, così rivolgendosi al Padre:
“Se voglio sapere, Dio mio, come ti comporti con chi ti prega sinceramente di compiere in lui la Tua volontà, devo domandarlo al tuo glorioso Figliolo che nell’orto degli olivi ti ha rivolto questa preghiera… Tu hai compiuto in Lui la Tua volontà con inondarla di patimenti, d’ingiurie, di persecuzioni, lasciandolo morire infine sopra un tronco di croce. Ecco quello che hai dato a Colui che amavi di più. Finché siamo quaggiù questi sono i tuoi doni. Ce li dai a seconda dell’amore che ci porti: ne dai di più a chi ami di più, e meno a chi ami di meno. Altra regola è il coraggio che vedi in noi e l’amore che ti portiamo, perché se ti amiamo molto, saremo anche capaci di soffrir molto, poco invece se pure poco ti amiamo”.
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Già, perché la sofferenza è necessaria, prima ancora che per il bene della propria anima, per far sì che quest’ultima sia slanciata e resa capace di glorificare Dio, dacché raggiungere la perfezione non consiste nel cercare il godimento di essa, quanto invece dedicarsi alla maggior gloria del Signore: così è scritto sulla cima del Monte della Perfezione, “solo l’onore e la Gloria di Dio qui abitano”. L’uomo negò e continua a negare attraverso il peccato questa gloria che al Padre è primariamente dovuta, ed è qui che si fa limpida la Croce, quel patibolo per mezzo del quale il Figlio raddrizza il fine perduto dall’umano peccato.
Una Croce che si scambia dunque, perché se è vero – e lo è – che la Croce del Cristo è stata la massima prova del suo amore per noi, così le piccole croci che siamo invitati a portare ogni dì valgono come estrema e pura prova del nostro amore per Lui. In questo consiste il segreto per rendere il giogo leggero e soave, ovvero portando insieme a Gesù quel piccolo pezzo di Croce donataci, nella totale fiducia al Crocifisso senza la quale si è persi ed obnubilati dalla coltre d’inganni che il mondo oggi spudoratamente offre, rendendoci acerbi e presuntuosi.
Quella presunzione che colpì anche Pietro, così certo e sicuro di se stesso tanto da scivolare tre volte sullo stesso peccato: il rinnegamento dell’amato Maestro, verso il quale aveva giurato fedeltà perenne. “Subito il gallo cantò e il Signore si volse a guardarlo”; vediamo come quello sguardo così intenso, così pieno di amore che proviene dal Cristo da spezzare e slegare la benda di presunzione che copriva gli occhi dell’Apostolo. A quel punto l’amore di Pietro per Gesù, che certamente era vero, si fonde con il carico di Passione scaturito dagli occhi di Cristo, fino a fargli comprendere il suo grave errore, e cioè essersi fidato di se stesso e non di Colui che solo può portare alla salvezza…“Nessuno va al Padre se non attraverso il Figlio”.
San Pietro diviene così pronto a prendere in affido il gregge del Buon Pastore, poiché l’amore riversatogli in quello sguardo lo salva e lo prepara alla cooperazione efficace della salus animarum a cui è primordialmente chiamato.
E su questa fusione di amore, avvenuta fra Pietro e Gesù ma che corrisponde all’unione dell’anima con Dio per mezzo dell’amore verso il patibolo della crocifissione, interviene ancora San Giovanni della Croce parlando dell’agonia finale, nelle ultime tre ore sopra il Calvario:
“Proprio allora [Gesù] compì l’opera più grande di quante mai in vita ne avesse fatte con miracoli e prodigi virtuosi, l’opera con la quale riconciliò ed unì il genere umano con Dio, per mezzo della Grazia. Ciò avvenne appunto allorché l’amoroso Signore era più avvilito e umiliato in tutto, cioè: intorno alla reputazione degli uomini, poiché vedendolo morire su di un tronco, non che averne un po’ di stima, si facevano beffe di lui; e in quanto alla natura, poiché essa in certo modo si annichiliva morendo; e circa la protezione e il conforto spirituale del Padre che in quei momenti lo abbandonò. (…) Di qui l’uomo spirituale intenda il Mistero della Porta e della Via di Cristo, per unirsi con Dio, e sappia che quanto più si annienta per amor suo, tanto più si unisce a lui e tanto maggior opera compie” (S. II, 7,11).
Nella Croce è ben presente infatti questo ultimo passaggio, quello ove s’impernia il Mistero del Dio fattosi uomo che tutto si annienta, che con il Sangue effuso ad abundantiam inonda la terra e si riunisce al Padre. È il peso di chi si è vuotato di tutto: di carne, di ossa, slanciato così in volo verso quel Rito di Passione che altro non è che Liberazione. Il corpo resta inchiodato nei ceppi della vergogna, del Re oltraggiato e schernito, ma l’anima, lo spirito vola presso il Padre. La Croce diviene albero del divieto capovolto, in quell’obbedienza a Diousque ad mortem, ad mortem in Cruce. Un Adamo che morì per non vivere viene riscattato dal Cristo che muore per vivere, e per lasciare la Via della Vita a chiunque guarderà a quella Croce; ma non basta guardarla: occorre stringerla, salirla, abbracciarla fino a farsi inchiodare su di essa, mondo e corpo crocifissi per slanciare l’anima verso la Dimora eterna. Quella che i pagani imbecilli e i modernisti idioti (questi ultimi con più colpa) chiamano sdegno e vergogna è l’unica porta per accedere alla Salvezza. Tremenda è la Croce, ripetiamolo ancora! Nera, tenebrosa, sanguinante fino a fare spavento persino ai martiri, eppure sotto di essa tutto è stato sancito, e come ci ricorda Sant’Agostino nell’Ufficio delle Tenebre del Giovedì Santo, osserviamo “la glorificazione della sua Croce! Già splende sulla fronte dei re quella Croce, che i suoi nemici insultarono. L’esito manifestò la potenza: conquistò la terra non col ferro ma con il legno”.
Non per il fuoco, non per le armi, ma con le braccia distese lungo la Croce, pregando, Cristo vince, così come fece Mosé sull’altura del monte; ed è proprio in quegli ultimi istanti che il Signore ha la sua vendetta. Una vendetta che avviene attraverso la preghiera per i propri nemici, per il centurione convertito, per i tanti che capiscono realmente cosa era stato commesso. La vendetta di Gesù consiste nell’amore verso i propri nemici e nella conversione di ogni anima che riconosce Dio morto sulla Croce.
Niente di più bello e nello stesso tempo doloroso, giacché il Mistero consiste proprio nell’apparente contrapposizione di certuni termini: la vita e la morte, il dolore ed il gaudio, la bellezza e l’orrore, la vergogna e la gloria, tutti uniti in un unico trionfo di Resurrezione che avverrà in questa notte.
In questi attimi, ancora così fulgidi e degni del grande silenzio del Sabato Santo, in soccorso viene la Madre, il dono più grande che ci viene fatto dal Calvario sino alla fine dei tempi. Contempliamo lo strazio della Vergine Santissima, perché per mezzo suo e della sua mediazione possiamo comprendere – e verosimilmente attuare – quella passione dell’anima che Lei più di chiunque altro ha vissuto sotto la Croce. Nei momenti di gloria della vita del Cristo Maria è giammai ricordata nel Vangelo, eppure fortemente viene ricordata la sua stremata presenza sul Golgota. A questo proposito San Bernardo, rivolgendosi proprio a Maria Santissima, dice:
“Sì, o Madre beata, una spada ha veramente trapassato l’anima tua. Perché soltanto passando per questa ha potuto penetrare la carne del tuo Figliolo. E certo, dopo che il tuo Gesù ebbe reso lo spirito, la lancia crudele, aprendogli il costato, non giunse all’anima di Lui, sibbene trapassò l’anima tua. Infatti l’anima di Lui non c’era più là, ma l’anima tua non se ne poteva distaccare“.
Pare quasi che un nuovo fiat travolga Maria Santissima: pur avendo già accettato tutto all’Annuncio dell’Angelo, Ella ora si trova a veder offrire la morte straziante del Figlio, tutta sotto i suoi occhi perché chi ama non lascia, non molla nemmeno un istante l’amato e in questo, Maria, raggiunge il grado di perfezione degno sol di chi viene sacrificato con il Figlio, a Gloria della Santissima Trinità per la salvezza delle anime.
I dolori della Mater Dolorosissima, che la Santa Chiesa, amorevolmente, ci ha messo a disposizione per la contemplazione la scorsa settimana, ci invitano a compatire lo strazio chiedendo la Grazia della partecipazione alla Passione di Cristo, come sublimemente detto nello Stabat Mater. Questa partecipazione non deve limitarsi ad un propedeutico campo sentimentalista, come è facile che avvenga, ma deve spingersi ad una vera visione del compatimento, ossia a patire con Nostro Signore e la sua Santa Madre, sulla Croce e sotto la Croce.
Rivolgendosi alla Madonna, questa grande Grazia chiedeva la Beata Angela da Foligno: “O Maria, Santa Madre di Gesù crocifisso, dimmi qualche cosa della sua Passione, perché, fra tanti che vi furono presenti, Tu più di tutti ne sentisti e vedesti, avendola mirata con gli occhi del corpo e della mente, e avendola considerata con ogni attenzione, giacché Tu grandemente l’amavi”.
Continuiamo ancora a contemplare, nel silenzio e nella sospensione del tempo e dello spazio, il Cristo con la Croce, enorme: l’Uomo che porta la sua morte e va, terribilmente va, dando tutto il suo sangue una volta, una volta per tutte e per molti: quia semel dedit et pro omnibus dedit. È il sangue dell’ovis occisionis, che lava… monda… deterge, arrossa e tutto sublima.
Nello sgonfiamento di quelle bende, di quella potenza sprigionata sotto la Sacra Sindone, potremo così finalmente cantare con i cuori colmi di gioia verso il Sepolcro vuoto: “Ubi est, mors, victoria tua? Ubi est, mors, stimulus tuus? Ubi est, Inferne, victoria tua?”.