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di Luca Fumagalli

Poco fuori Firenze, la via Bolognese offre al turista desideroso di evadere dalla ressa del centro diversi spettacoli imprevisti. Ai lati della strada, che si inerpica dolcemente tra le colline, tutta curve e sinuosi cambi di direzione, nel corso dei secoli sono infatti sorte splendide ville signorili, rimembranze di un mondo che fu, di un’opulenza aristocratica bandita dalla storia. I cancelli custodiscono ancora oggi i segreti di quel lontano passato, quando Firenze era ben lontana dall’invadere la campagna limitrofa, e l’Arno e le vecchie mura bastavano a contenere la baldanzosa esuberanza dell’incremento demografico.

Al civico 120 si trova villa La Pietra, una splendida tenuta a cui si giunge percorrendo un lungo viale alberato. L’edificio, di fondazione rinascimentale, è circondato da lussureggianti giardini all’italiana, con aiuole, fontane e piante di agrumi. Ogni terrazza costituisce un microcosmo vegetale in cui elementi architettonici e decorativi si innestano senza soluzione di continuità.

In una delle stanze della casa, bomboniera di preziosità artistiche, nel 1904 Harold Acton aprì per la prima volta gli occhi alla luce. Rampollo di una ricca famiglia inglese di tradizione cattolica, Acton fu collezionista d’arte e scrittore di rara erudizione. Con la sua morte, nel 1994, scomparve l’ultimo rappresentante di quella colonia britannica che nella prima metà del XX secolo aveva animato la vita culturale del capoluogo toscano.
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Non era raro vedere il giovane Harold camminare per le vie cittadine con Norman Duglas e Reggie Turner o scambiare qualche parola con l’etereo Ronald Firbank. Frequentava i locali alla moda in compagnia di vecchi nobili russi – costretti all’esilio dopo la rivoluzione del ’17 – e non perdeva occasione per un franco scambio di opinioni quando l’interlocutore era l’antiquario Pino Orioli o lo storico dell’arte Bernard Berenson.

Acton, cresciuto culturalmente a Oxford, visse in Inghilterra gli anni della prima maturità, l’epoca gloriosa di quei ragazzacci mondani che la stampa britannica bollò con l’etichetta di “Bright Young Things”, le stelle delle nottate salottiere all’epoca del jazz.

Nel frattempo coltivò ambizioni di poeta ed ebbe contatti con Gertrud Stein, i fratelli Sitwell, Robert Byron ed Evelyn Waugh, di cui fu affettuoso sodale fino alla fine dei suoi giorni. Waugh gli dedicò il suo primo romanzo, Declino e caduta, e Acton volle ricambiare il favore instradando l’amico verso la Chiesa cattolica. Qualche voce maligna suggerì all’epoca della pubblicazione di Ritorno a Brideshead che il personaggio di Anthony Blanche, dandy e decadente, fosse stato ispirato a Waugh proprio dall’eccentrico compagno.
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L’Inghilterra fu solo una parentesi nella vita di Acton che mai smise di considerare Firenze la sua vera casa. L’Italia che lui amava era quella delle piccole patrie e dei valori universali, quella del Rinascimento e della Fede, quella descritta ed elogiata nei suoi saggi dedicati ai Medici e ai Borboni nonché nell’autobiografia Memorie di un esteta. La sua penna, sempre corroborante, capace di intrecciare frasi delicate e florilegi lessicali, non mancò inoltre di denunciare le brutture del fascismo, compreso l’odioso convincimento mussoliniano di voler riportare ad antichi fasti un’Italia che, in realtà, non venne mai veramente unificata. Da qui le ragioni che lo spinsero ad arruolarsi nella RAF durante il secondo conflitto mondiale.

Acton fu anche un’instancabile viaggiatore. Dopo l’università tentò, senza successo, di sbarcare il lunario come scrittore a Parigi per poi trasferirsi in Cina. Dal 1932 al 1939 visse a Pechino, dove imparò ad apprezzare la cultura orientale, diventandone uno dei maggiori esperti. Percorse tutto il sud-est asiatico e fu solo con lo scoppio della guerra sino-giapponese che si risolse, con un groppo in gola, a tornare in Italia.

Nel 1971, rifugiatosi nella tranquillità della sua villa, divenne protagonista delle cronache ecclesiastiche, quando la sua firma comparve in calce al documento che diede il la alla concessione comunemente nota come “Indulto di Agatha Christie”. A seguito delle riforme liturgiche introdotte da Paolo VI, alcuni intellettuali inglesi, tra cui la celeberrima scrittrice, avevano firmato congiuntamente una petizione per chiedere il mantenimento in Inghilterra e in Galles del rito tridentino. Montini non poté ignorare una supplica che proveniva dal fior fiore dell’intellighenzia britannica e infine assecondò la richiesta.
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A ricordare oggi la parabola esistenziale di Acton, oltre a villa La Pietra – ora di proprietà dell’Università di New York – restano solamente poche righe su qualche rivista e un paio di approfondimenti biografici rintracciabili a fatica in oscuri saggi miscellanei. La storia di questo singolare inglese-italiano giace colpevolmente dimenticata. Eppure Harold Acton fu una figura tutt’altro che trascurabile, a suo modo un piccolo segno di contraddizione nel corso del XX secolo: uomo moderno ma al contempo orfano di un passato mitico fatto di ordine, cavalleria e santità.

Dunque ancora si attende chi prenderà il testimone della diuturna battaglia condotta da Acton contro il brutto, il conformismo, l’indifferenza e i falsi profeti. Una missione, del resto, che pare più che mai attuale in tempi tanto ferrigni come quelli in cui stiamo vivendo