di Giuliano Zoroddu
Il calendario che ognuno ha in casa sua segna ancora le feste cristiane (sebbene secondo il rito montiniano), ma ad esse si accompagnano quei novelli dies nefasti che sono le festività laiche. In Italia abbiamo per esempio l’accoppiata 25 aprile – 2 giugno con tutta la loro empia pompa “religiosa” e il loro strascico di falsa e sterile retorica. E come potremo dimenticare la Festa del Lavoro o dei Lavoratori con tutto il suo corredo di bandiere rosse e maglie del Che? In verità non possiamo tuttavia fare a meno di osservare come chiunque guardi (si spera come osservatore il più possibile esterno!) il noto “Concertone del Primo Maggio” che dal 1990 si tiene, ahinoi ogni anno, nella piazza antistante l’Arcibasilica Lateranense, monumento della vittoria del Papato su Roma pagana, in alcun modo potrebbe associarlo ai motivi per cui la Seconda Internazionale di Parigi del 1889 istituì questa festa. Si voleva commemorare infatti la Rivolta di Piazza Haymarket a Chicago (1° – 4 maggio 1886) volta alla fissazione del tetto massimo delle otto ore lavorative. Diciamo che la cosa ha perso un po’ della primigenia serietà … Per il cattolico d’altra parte il 1° maggio è consacrato dalla festa di san Giuseppe Artigiano, ma questa festività, seppur ricca di significati, non ha che sessant’anni. La istituì infatti Pio XII il 1° maggio del 1955 per dimostrare, di fronte all’avanzata del Comunismo, come vivo fosse l’interesse della pia Madre Chiesa nei confronti del mondo del lavoro, in particolare quello operaio, di cui faceva parte l’ultimo dei Patriarchi. Il venerabile Pontefice non faceva nulla di nuovo: applicava ai tempi moderni la pratica per cui la Chiesa Romana nella loro sapienza “battezzava” le festività pagane per esorcizzare il potere dei demoni che attraverso l’idolatria tenevano schiave tante anime e così condurle a Gesù Cristo. Pertanto come Papa Liberio (352-366) sostituì la processione delle Rogazioni (o Litanie) maggiori ai gentileschi Ambarvalia e Robigalia “insegnando che non è il favore di Robigo, ma la vita devota, l’umile preghiera, e l’intercessione dei Santi, soprattutto del Pastor ovium san Pietro, quelle che disarmano la giustizia di Dio irritata dai nostri peccati” 1 ; così allo stesso modo Papa Pacelli, istituiva la festa del Patrono dei lavoratori per sottrarre gli operai alle insidie della nefanda e nefasta dottrina marxista e indicar loro nella dottrina sociale della Chiesa la fonte della agognata pace e giustizia sociale. Per motivi pastorali, allora tanto pressanti, si sacrificarono però due altre feste 2 : quella del Patrocinio del medesimo san Giuseppe istituita da Pio IX nel 1870, e quella ben più antica dei santi Apostoli Filippo e Giacomo, celebrata proprio il 1° maggio, giorno della dedicazione dell’Apostoleion romano (la Basilica dei santi XII Apostoli) ai tempi di Papa Giovanni III (561-574). Sacrifici invero inutili se consideriamo che nell’Ordo di Paolo VI l’istituzione piana è stata degradata a memoria facoltativa da solennità doppia di I classe che era. Essa persiste tuttavia nel sentimento dei fedeli e soprattutto (purtroppo) in una certa retorica, che potremmo definire “clerical-sindacalista” (lontana le mille miglia dalla Dottrina Cattolica sul lavoro) che comprende tanto gli eleganti discorsi sul lavoro come fine o vocazione dell’uomo di stampo “opusdeistico” 3 (che sotto certi aspetti sono ancora tradizionali), volti magari a porre sullo stesso livello la vita contemplativa e quella attiva, quanto beceri slogan come “Il lavoro ci dà dignità” 4 proferiti non già da una Camusso qualsiasi ma nientemeno che dal regnante Pontefice Francesco. Per confutare il primo errore basterà ricordare la massima di sant’Ignazio di Loyola, consacrata poi da san Pio X 5 : “L’uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore, e così raggiungere la salvezza; le altre realtà di questo mondo [quindi anche il lavoro, N.d.A.] sono create per l’uomo e per aiutarlo a conseguire il fine per cui è creato” 6 . Per confutare il secondo invece occorre fare un discorso a parte, per non fare confusione. Anzitutto va precisato che ciò che dà la vera dignità all’uomo peccatore e bisognoso di misericordia non è certo il lavoro (queste farneticazioni le lasciamo ai marxisti di ieri e di oggi), ma la Grazia di Dio che, agendo col di lui assenso, perfeziona la sua natura fragile – “Gratia non tollit naturam, sed perficit” dice l’Angelico 7 – attua nell’uomo quel radicale cambiamento che l’Apostolo chiama nuova creazione 8 e lo fa partecipe della vita divina “secondo una certa somiglianza” 9 . Senza considerare fra l’altro che porre il lavoro come fonde di dignità umana porta quasi a considerare privi della stessa le ahinoi folte schiere dei disoccupati, ragionamento che ci sembra assimilabile a quello di coloro che considerano la malattia come causa della perdita della dignità umana. Il lavoro umano, come oggi, nella sua “durezza”, è necessità imposta: è una conseguenza del peccato originale. Ci si potrà qui obiettare che il testo del Genesi ci dice che il Creatore “prese l’uomo e lo pose nel giardino di delizie, perché lo coltivasse e lo custodisse” 10. Ma l’obiezione sarà presto respinta, poiché quell’operazione (il testo latino ha “ut operaretur”), essendo allora Adamo ed Eva totalmente immacolati, in tutto aderenti alla divina volontà, non avrebbe comportato sofferenza alcuna come notano i santi Padri. Ben differente la situazione dopo il peccato. È Iddio stesso che parla ad Adamo: «Perché hai ascoltato la voce della tua moglie ed hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato di non mangiare, maledetta sarà la terra per causa tua. Con fatica ne trarrai nutrimento […] Con il sudore della tua fronte mangerai il pane» 11. Tuttavia da ciò non dobbiamo dedurre che il lavoro è un male, ma tutt’altro. E in ciò ci viene incontro la dottrina e la prassi della santa Chiesa che ha dato essa la dignità al lavoro. Essa, datrice di quella libertà “qua Christus nos liberavit” 12 , ha pian piano abbattuto il mostro della schiavitù; sapiente utilizzatrice dei beni materiali, ha confutato il pregiudizio pagano contro il lavoro manuale – Cicerone nel suo genio lo considerava cosa sommamente spregevole e affatto nobile 13 – e ha creato mirabili opere di carità, potenti corporazioni di artigiani e lavoratori d’ogni categoria, viventi per la linfa del Sangue di Gesù Cristo perché figlie della Chiesa sua mistica Sposa. Nella sua dottrina sociale infine ha mirabilmente esposto quella via mediana che rifugge gli errori del Liberalismo e del Marxismo e offre al datore di lavoro e al lavoratore una summa dei diritti e dei doveri per una vera e realistica pace e giustizia sociale, lontanissima dal pantano delle utopie di segno opposto che possono portare solo alla morte spirituale e fisica. Ma non poteva essere altrimenti. Lo stesso Gesù Cristo volle lavorare nella bottega di san Giuseppe, suo padre putativo, e non disdegnò affatto di essere chiamato “figlio del carpentiere” 14 : il Verbo infatti “annichilò se stesso, assumendo la condizione di schiavo divenendo simile agli uomini” 15, “in ogni cosa, escluso il peccato” 16. Pure Nostra Signora lavorava: attendeva alle opere domestiche. San Giuseppe “era falegname. Viveva del suo lavoro, e non perdeva il tempo nell’ozio e nei bagordi, come facevano gli scribi ed i farisei” 17 . Gli Apostoli e i discepoli vivevano del proprio lavoro: Pietro, Andrea, Giacomo il Maggiore e Giovanni avevano una “azienda” di pesca; Paolo era un tessitore di tende 18 . Questo perché il lavoro, pur essendo una punizione – come dianzi abbiamo detto – può essere fonte di nobilitazione e anche di santificazione se esso vien fatto in Cristo e per Cristo. Infatti, contrariamente a quanto sostengono i modernisti (persone in ultima analisi agnostiche se non atee19) che disgraziatamente ci (mal)governano, l’uomo non è una creatura che Iddio ha voluta “propter semetipsam” 20 , ma ordinata a Lui stesso, causa prima e fine ultimo di ogni cosa. “Universa propter semetipsum operatus est Dominus” 21 dice lo Spirito Santo. Per questo la Chiesa nella Epistola della festa di san Giuseppe Artigiano ci ripete l’ammonimento paolino: «Qualunque lavoro facciate, lavorate di buon animo, come chi opera per il Signore e non per gli uomini» 22 . Guardiamo ai figli di san Benedetto che, pacifici legionari della Pontificato Romano, si spinsero alla conquista del mondo e sulle rovine del Paganesimo e della barbarie fecero sorgere l’edificio mirabile dell’unica vera Civiltà che il mondo abbia conosciuto: la Civitas Christiana. Il loro motto, noto a tutti, era ed è “Ora et labora”. Il Sacrificio della Messa, la preghiera, la contemplazione alimentavano le loro vite e li rendevano ligi nell’adempimento del loro secondo compito (l’orare sempre al primo posto!): il lavoro, fosse esso intellettuale, negli scriptoria, o manuale, dalla cucina alla coltivazione di quelle terre che magari avevano essi stessi per primi bonificato. Traiamone l’insegnamento opportuno e applichiamolo al nostro contingente. Iddio ci ha collocati in un mondo in sfacelo (ben diverso dall’Eden biblico) e in un tempo in cui la Chiesa sembra soccombere sotto le strazianti torture dei vari Anna e Caifa del neomodernismo imperante, ma hic et nunc deve necessariamente svolgersi la nostra operatio: ut operémus. Nella fabbrica, nella scuola, nella bottega, nell’ufficio, in ogni frangente della nostra vita dobbiamo palesarci quali discepoli di Cristo Re, lavoratori della sua Mistica Vigna e banditori, seppur indegni, della sua salvifica Verità, avendo come fine supremo la gloria di Dio – del Padrone, come diceva quel lavoratore indefesso che era Padre Pio – sicuri come siamo che “Sapiéntia réddidit iustis mercédem labórum suórum” 23 . Ci sia d’esempio e d’aiuto il santo Patriarca Giuseppe, Patrono della Chiesa universale, come ci incoraggia il sapientissimo Leone XIII, con una lunga citazione del quale vogliamo concludere.
«Tutti i cristiani, di qualsivoglia condizione e stato, hanno ben motivo di affidarsi e abbandonarsi all’amorosa tutela di San Giuseppe. In Giuseppe i padri di famiglia hanno il più sublime modello di paterna vigilanza e provvidenza; i coniugi un perfetto esemplare d’amore, di concordia e di fede coniugale; i vergini un esempio e una guida dell’integrità verginale. I nobili, posta dinanzi a sé l’immagine di Giuseppe, imparino a serbare anche nell’avversa fortuna la loro dignità; i ricchi comprendano quali siano i beni che è opportuno desiderare con ardente bramosia e dei quali fare tesoro. I proletari poi, gli operai e quanti sono meno fortunati, debbono, per un titolo o per diritto loro proprio, ricorrere a San Giuseppe, e da lui apprendere ciò che devono imitare. Infatti egli, sebbene di stirpe regia, unito in matrimonio con la più santa ed eccelsa tra le donne, e padre putativo del Figlio di Dio, nondimeno passa la sua vita nel lavoro, e con l’opera e l’arte sua procura il necessario al sostentamento dei suoi. Se si riflette in modo avveduto, la condizione abietta non è di chi è più in basso: qualsiasi lavoro dell’operaio non solo non è disonorevole, ma associato alla virtù può molto, e nobilitarsi. Giuseppe, contento del poco e del suo, sopportò con animo forte ed elevato le strettezze inseparabili da quel fragilissimo vivere, dando esempio al suo figliuolo, il quale, pur essendo signore di tutte le cose, vestì le sembianze di servo, e volontariamente abbracciò una somma povertà e l’indigenza. Di fronte a queste considerazioni, i poveri e quanti si guadagnano la vita col lavoro delle mani debbono sollevare l’animo, e rettamente pensare. A coloro ai quali, se è vero che la giustizia consente di potere affrancarsi dalla indigenza e levarsi a migliore condizione, tuttavia né la ragione né la giustizia permettono di sconvolgere l’ordine stabilito dalla provvidenza di Dio. Anzi, il trascendere alla violenza e compiere aggressioni in genere e tumulti è un folle sistema che spesso aggrava i mali stessi che si vorrebbero alleggerire. Quindi i proletari, se hanno buon senso, non confidino nelle promesse di gente sediziosa, ma negli esempi e nel patrocinio del beato Giuseppe, e nella materna carità della Chiesa la quale si prende ogni giorno grande cura del loro stato» 24 .
NOTE
Cardinale Alfredo Ildefonso Schuster, Liber Sacramentorum, Torino, Marietti, 1930, vol. IV, p. 113.
“La festa dei Ss. Apostoli Filippo e Giacomo è traslata in perpetuo, come a sua propria sede, al giorno undecimo del mese di Maggio. […] La solennità di san Giuseppe che si celebra il mercoledì dopo la II Domenica dopo Pasqua è abolita”. (Decreto della Sacra Congregazione dei Riti, 24 aprile 1956, AAS XXXXVIII (1956), pp. 226-237).
Sarà utile la lettura di due articoli di don Curzio Nitoglia: A proposito di Opus Dei, in Sodalitium, Anno XI – n. 4 (44), Luglio -Agosto 1995, pp. 77-78 ; Ancora sull’Opus Dei, in Sodalitium, Anno XII – Semestre 1 – n. 2 (43), Aprile – Maggio 1996, pp. 36-40.
“Il lavoro ci dà dignità, e i responsabili dei popoli, i dirigenti hanno l’obbligo di fare di tutto perché ogni uomo e ogni donna possano lavorare e così avere la fronte alta, guardare in faccia gli altri, con dignità. Chi, per manovre economiche, per fare negoziati non del tutto chiari, chiude fabbriche, chiude imprese lavorative e toglie il lavoro agli uomini, compie un peccato gravissimo” (Udienza generale del Mercoledì, 15 marzo 2017).
San Pio X, Catechismo essenziale della Chiesa Cattolica, n. 5.
Esercizi spirituali, I settimana, punto 23.
S. Th., I, q. 1, a. 8, ad 2.
“Se uno è in Cristo, è una creatura nuova” (2 Cor. V, 17).
Cfr. San Tommaso d’Aquino, Somma Teologica, Ia-IIae, q. 110.
Gen. II, 15.
Gen. III, 17, 19.
Gal. IV, 31.
“Tutti gli artigiani si occupano in mestieri spregevoli, poiché l’officina non può avere alcunché di nobile” (De officiis, I, 150).
Matth. XIII, 55.
Phil. II, 7.
Hebr. IV, 15.
Sant’Alberto Magno, In Lucam, cap. IV, Lezione VIII del Mattutino di san Giuseppe Artigiano.
Act. Apost. XVIII, 3
Cfr. San Pio X, Pascendi Dominici gregis, 8 settembre 1907.
Concilio Vaticano II, Sessione IX (7.12.1965), Costituzione pastorale “Gaudium et spes”, n. 24.
“Il Signore ha fatto tutte le cose per sé stesso” (Prov. XVI, 4).
Col. III,23.
“La sapienza ai Santi ha pagato la ricompensa delle loro fatiche” (Sap. X, 17). Sono le prime parole dell’Antifona all’Introito della Messa di san Giuseppe Artigiano.
Quamquam pluries, 15 agosto 1889.
Per i devoti di san Giovanni Paolo II, al secolo Karol Wojtyla : da leggere e meditare (senza preconcetti e prevenzione) :
http://www.salpan.org/SCANDALI/Giovanni%20Paolo%20II/Tesi%20eretiche.htm
Bello ,bello,come sempre Isidoro,non sbaglia un colpo.San Giuseppe e’ un esempio perfetto,ogni virtu’ e ‘ in lui.quante famiglie sante ci sarebbero, se imitassimo Giuseppe e Maria.grazie Isidoro
Gentilissima, i complimenti vanno a Giuliano Zoroddu, autore dell’articolo. Un saluto.
Complimenti ,allora aGiuliano Zoroddu.e di nuovo grazie.