di Alfredo De Matteo
Mancano pochi giorni alla settima edizione della Marcia per la Vita, la grande manifestazione pro life italiana che ogni anno, almeno per un giorno, pone all’attenzione dell’opinione pubblica i diritti negati dei bambini non nati, i quali in gran numero cadono uccisi dall’aborto di stato in nome di una falsa libertà di scelta, e nel silenzio generale. Già, perché ormai da qualche anno oltre all’aborto chirurgico il boia può far conto anche su quello chimico, soprattutto da quando nel nostro paese l’agenzia italiana del farmaco ha deciso di rendere molto più facile la commercializzazione della pillola EllaOne, il micidiale pesticida umano che, grazie ad una delibera ad hoc, dal 2015 può liberamente essere acquistato in farmacia anche senza obbligo di richiesta medica. Per di più, recentemente, le giunte di alcune regioni italiane hanno pensato bene di combattere a modo loro il fenomeno dell’obiezione di coscienza da parte del personale sanitario (che qualche bastone fra le ruote al rodato meccanismo dell’aborto di stato cominciava a metterlo) distribuendo la pillola abortiva anche nei consultori o in strutture poliambulatoriali ad essi assimilate. Una di queste regioni è il Lazio, la cui giunta capeggiata da Zingaretti si è resa protagonista anche di un ulteriore attacco ai medici obiettori, i quali si sono visti negare la partecipazione ad un concorso pubblico indetto per assumere personale all’ospedale San Camillo di Roma. Pertanto, stiamo assistendo ad una forte accelerazione di quella cultura di morte che sta decimando la popolazione italiana ed europea. Tuttavia, sarebbe un errore dimenticare o tralasciare la vera causa di questi continui attentati alla vita nascente: la criminale legge 194/1978. E’ bene ricordare che senza tale pseudo legge non solo non sarebbero stati uccisi, fino ad ora, oltre sei milioni di innocenti con l’aborto chirurgico ma non sarebbe possibile nemmeno la vendita e la distribuzione delle varie pillole abortive presenti sul mercato, che hanno causato e tuttora causano un numero imprecisato di morti. E a dir la verità, non sarebbe possibile neanche l’attacco all’obiezione di coscienza, dal momento che i medici non avrebbero bisogno di esercitarla…
Tali puntualizzazione sembrano scontate quando in realtà, purtroppo, tali non sono. Il mondo pro life italiano, infatti, seppur sembri piuttosto coeso (fatte alcune, non rare, eccezioni) nel condannare genericamente la legge abortista, dimostra, di contro, di non conoscerla bene, non solo nella lettera ma anche nello spirito. E tende quindi a fare affidamento su quelle fantomatiche “parti buone” che non solo in realtà non esistono ma che formano invece quella cortina fumogena atta a mascherarne almeno in parte l’impianto omicida. Il riferimento è alle presunte parti preventive contenute nella 194 e al suo ancor più presunto favor vitae che, nell’immaginario collettivo, limiterebbe l’aborto solo ai casi più estremi. Diamo dunque una ripassata alla legge, o almeno ad una parte di essa, tanto per smascherare una volta in più i miti che la circondano: il nucleo omicida. Articolo 4. “Per l’interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico istituito ai sensi dell’articolo 2 (…), o a una struttura socio-sanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di sua fiducia”.
Come è possibile notare, non esistono motivi necessari e sufficienti affinché la donna che lo voglia non possa abortire. Anzi, il legislatore, contemplando una serie ben congegnata di generiche motivazioni adducibili dalla gestante per l’aborto ottiene il duplice effetto di salvare le apparenze (l’elenco di ragioni indubbiamente esiste) e nel contempo di rendere del tutto irrilevante la motivazione stessa (tant’è che non esiste una casistica ufficiale delle motivazioni che hanno indotto le donne ad abortire). In poche parole, la 194 ha introdotto nel nostro ordinamento giuridico, in maniera surrettizia ma estremamente efficace, l’aborto a semplice richiesta, in cui l’unico ipocrita e, oltretutto, anti scientifico “paletto” è l’età gestazionale; un limite, quest’ultimo, molto evanescente visto che la legge stessa all’articolo 6 consente l’aborto oltre i novanta giorni, attraverso il solito escamotage dell’enucleazione di confini labili e facilmente aggirabili.
Pertanto, è semplice intuire come, all’interno di un siffatto impianto normativo, il compito della struttura sanitaria di aiutare la donna a rimuovere le cause che la porterebbero all’interruzione di gravidanza (articolo 5) si riveli una clamorosa presa in giro, o quantomeno una bella ma inutile dichiarazione d’intenti. Se infatti, di fatto, la possibilità di abortire non è subordinata ad alcuna motivazione e l’unico criterio necessario e sufficiente per porre fine alla vita del bambino è l’insindacabile decisione della madre, che senso ha indagare e intervenire sulle cause? Anche perché, qualora risultasse possibile attivare l’intervento preventivo esso risulterebbe in ogni caso oltremodo complicato, dunque difficilmente gestibile dalla struttura pubblica, il cui compito principale è in ogni caso di garantire il diritto di aborto, non di salvare l’innocente.
Per quanto riguarda l’obiezione di coscienza, anche se è prevista dalla 194 essa tende a scontrarsi col diritto all’aborto sancito (di fatto) dalla norma stessa. Per cui, qualora la “pacifica” coesistenza di due diritti che si escludono a vicenda non fosse più gestibile, non solo sul piano socio sanitario, ma anche, o solamente, su quello politico e culturale, ad avere la peggio sarebbe ovviamente quello (autentico) all’obiezione di coscienza, che è ciò che sta puntualmente accadendo.
In conclusione, chi intende difendere la vita con speranza di successo è necessario che abbandoni definitivamente l’idea di poter vincere la guerra facendo leva sulle presunte parti buone della legge 194. Bisogna smettere di intraprendere battaglie di retroguardia che non portano da nessuna parte ed avere il coraggio di ammettere che l’unica cosa da fare è tentare di ricostruire una coscienza civile che riscopra le ragioni a difesa della vita. Parlando chiaro. La Marcia per la vita lo fa e intende continuare a farlo, fino al raggiungimento dell’obiettivo: il ripristino della vera legalità attraverso la cancellazione della legge 194 dal nostro ordinamento giuridico. Appuntamento dunque sabato 20 maggio a piazza della Repubblica ore 15. Per dire non solo sì alla vita ma soprattutto no all’aborto e all’infame legge che lo ha reso facile, legale e completamente gratuito.