di Luca Fumagalli

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Panem, nazione subentrata all’America post-apocalittica, è formata dalla ricca Capitol City e da dodici distretti in cui la popolazione vive nella miseria. Anni prima i distretti avevano provato inutilmente a ribellati alla capitale, scatenando una guerra civile lunga e sanguinosa. Da allora, come punizione, ogni anno in ciascuno di essi vengono estratti a sorte un ragazzo e una ragazza di età compresa tra i dodici e i diciotto anni per partecipare agli Hunger Games, una lotta all’ultimo sangue in cui vince solo chi riesce a sopravvivere. In occasione della settantaquattresima edizione dei giochi, per il Distretto 12 partecipano Katniss Everdeen (interpretata da Jennifer Lawrence) e Peeta Mellark (Josh Hutcherson). I due giovani, soprannominati sarcasticamente “tributi”, vengono quindi portati a Capitol City e addestrati per qualche giorno prima di essere gettati nell’arena con gli altri concorrenti. Tutto sembra svolgersi come da programma, ma il governo ignora che Katniss e Peeta stanno per dare il via a una rivolta su scala nazionale.

Hunger Games, pellicola uscita nelle sale nel 2012 per la regia di Gary Ross, è la fortunata trasposizione cinematografica del primo volume dell’omonima trilogia di romanzi scritti da Suzanne Collins, tre libri che hanno riscosso un successo straordinario e hanno fruttato alla scrittrice numerosi premi e riconoscimenti.

Quella che a tutta prima potrebbe sembrare la storia banale e un po’ trita di due ragazzi costretti a fare i conti con se stessi e, soprattutto, con la malvagità dell’universo distopico in cui abitano, si trasforma, minuto dopo minuto, in una parabola del riscatto dai risvolti profondi, commoventi, che lascia un segno profondo nel cuore dello spettatore.

A colpire è innanzitutto la forte implicazione sociale del film, un po’ alla George Romero, dove gli abitanti dei vari distretti sono ridotti a zombie dell’intrattenimento, a gladiatori costretti a combattere per compiacere i facoltosi cittadini della capitale. A Capitol City, come nel pianeta orwelliano descritto da Terry Gilliam in Brazil, personaggi squallidi e grotteschi si aggirano per le strade con indosso vestiti sgargianti, sfoggiando capigliature improbabili e tentando di correggere i difetti del corpo con trucco pesante o costose operazioni chirurgiche. Al confronto di questi, Katniss e Peeta rappresentano il sudiciume degli emarginati, di quella classe povera e sfruttata che vive nelle lande più remote, di quella gente che attende un leader carismatico per ritrovare la forza, come un tempo, di lottare per scrollarsi di dosso il terribile giogo del presidente Snow (un Donald Sutherland in grande spolvero).

Ma Hunger Games sarebbe poca cosa se si limitasse a questo. Quello che più affascina della pellicola non è tanto (o solo) la questione sociologica, quanto il costante invito rivolto a chi guarda a riappropriarsi di un’umanità apparentemente perduta, sepolta sotto cumuli di calunnie, sangue e tradimenti. A innescare la scintilla della sommossa, infatti, non è un discorso, non è la vuota fraseologia delle apparenze che sostiene quella menzogna globale che è Panem, ma il semplice e tradizionale gesto di Katniss di dare degna sepoltura a una bambina. Lo stato totalitario, preoccupato di contenere la speranza dei suoi cittadini, non può nulla davanti a un’azione così dirompente, sacra e dignitosa come solo le cose vere della vita possono essere. Gli scontri nell’arena tra i partecipanti dei giochi passano dunque presto in secondo piano per lasciare spazio all’evoluzione dei rapporti tra i personaggi e alla forsennata dialettica tra realtà e apparenza, natura e artificio.

Hunger Games è un film ancora drammaticamente attuale, un’occasione per meditare e riscoprire, per dirla alla Greene, “il nocciolo della questione”, oltre ogni trucco, oltre ogni contraffazione. In un’epoca dove tutto è manipolabile, in cui desiderio e diritto coincidono, viene ancora una volta ribadita un’ovvietà di cui, purtroppo, spesso ci si dimentica: la realtà vince il sogno. Sempre.