di Luca Fumagalli

Elisabetta (Sala) copertina

Se la regina Elisabetta è diventata nell’ultimo secolo il bersaglio prediletto di tanti apologeti cattolici britannici come mons. R. H. Benson o Hilaire Belloc, il motivo è da ricercare nel ruolo cruciale che ella svolse nella seconda metà del XVI secolo, quando traghettò una nazione nel pantano del laicismo. Mentre i consiglieri, Cecil e Walsingham in testa, cercavano di premere per una sorta di rivoluzione calvinista, Elisabetta perseguiva con lucidità l’unica cosa che le stava veramente a cuore: custodire ad ogni costo il proprio potere, guadagnato a colpi di buona sorte e spergiuri.

Per raggiungere il suo scopo, creò a tavolino una Chiesa di stato, teologicamente né carne né pesce, in tutto e per tutto asservita al potere. I sacerdoti, ridotti a burocrati del culto divino, spesso non particolarmente devoti e di posizioni dottrinali eterogenee, dovevano insegnare al popolo l’unica religione ammessa, quella per l’Inghilterra. Così i sermoni domenicali furono il presupposto per la creazione del mito – che con la storia non ha nulla a che fare – della sovrana sposa del suo popolo. La chiamavano la “regina vergine”, forse perché, in fondo, a Elisabetta non dispiaceva essere messa sullo stesso piano della Madonna.

Del resto, per chi non voleva allinearsi al nuovo status quo, la forca era sempre a disposizione. Prima furono massacrati i cattolici, poi toccò ai non conformisti (antitrinitari e settari di ogni sorta), infine, quando il popolo venne travolto dalla crisi economica e dai miasmi di dottrine inumane come la predestinazione, iniziò la caccia alle streghe.

Le persecuzioni di massa, almeno ufficialmente, non avevano nulla a che vedere con la religione. Semplicemente chi non frequentava le chiese anglicane era considerato un traditore, e per questo andava punito. Il governo aveva creato allo scopo un sofisticato sistema di spionaggio che annoverava, tra gli altri, personaggi oggi osannati quali Giordano Bruno. Quando, più tardi, dal continente, i gesuiti vennero inviati in missione in Inghilterra, Elisabetta inasprì le leggi. Da quel momento essere cattolici equivaleva automaticamente a essere traditori (e questo anche se molti “papisti” si erano schierati contro gli spagnoli all’epoca della tentata invasione di Filippo II).

Fu dunque lei, l’ultima Tudor, a portare agli estremi esiti la rivoluzione iniziata dal padre, Enrico VIII. L’Inghilterra elisabettiana fu uno dei primi laboratori in cui venne sperimentata la teoria machiavellica della ragion di stato come fine ultimo dell’azione politica. Pirati, masnadieri e carrieristi della peggior risma diedero un contributo fondamentale all’opera.

Anche la cultura risentì fortemente del nuovo clima. Il cosiddetto rinascimento inglese riguardò solamente l’ultima parte dell’epoca elisabettiana, generalmente caratterizzata da una decadenza della letteratura e delle arti (complice, in questo, anche il latente spirito calvinista che aleggiava nei sottoboschi della corte). D’altronde, se di “Golden Age” si può parlare, allo stesso tempo non si può non notare come essa fu in ritardo, rispetto all’Italia e a buona parte d’Europa, di almeno un secolo.

Tutto questo, e molto ancora, è raccontato da Elisabetta Sala nell’interessante saggio Elisabetta “la sanguinaria” (Ares, 2010). L’autrice, docente di Lingua, Letteratura e Storia inglese offre un ritratto a tutto tondo di una delle sovrane più famose della storia. Mettendo a confronto diverse fonti, traccia un profilo non convenzionale di Elisabetta, dove sono evidenziate soprattutto le parzialità dagli storici whig, errori e omissioni che hanno reso grande una regina tutto sommato mediocre quanto fortunata.

Non fu un caso, infatti, se dopo la morte della sovrana, l’Inghilterra si trasformò nuovamente in una polveriera. Le tante contraddizioni che caratterizzarono la condotta della “sanguinaria” – altro che Maria Tudor – esplosero sotto il malandato governo di casa Stuart. Quando ormai era diventato di moda decapitare i re, si susseguirono a ritmi raccapriccianti guerre civili e repubbliche calviniste. Il prodotto di tali sconvolgimenti fu una classe governativa, ancora ufficialmente anglicana, che di fatto non credeva più in nulla se non nel bieco opportunismo; non esisteva, a loro avviso, una fede per cui valesse la pena di dare la vita, e neanche esisteva un’unica verità. L’illuminismo aveva messo le sue radici.