Burattino

 

di Alberto Di Janni

 

Punto primo: lo squallore delle manifestazioni dell’orgoglio gay.

 

Sorge spontanea la domanda se gli organizzatori di tali carnascialate non si rendano conto del rischio di ottenere l’effetto opposto di quello desiderato. Non solo si esibiscono corpi in mancanza di idee, ma si espongono brutture in mancanza di bellezza. Al di là di ogni giudizio morale, veniamo affogati da un obbrobrio estetico. Se in un’ipotetica marcia dell’orgoglio etero sfilassero, tanto per fare un paio di esempi a caso, una Angela Merkel seminuda in atto di copulare col marito, o una discinta Rosi Bindi che si strusciasse contro un Fassino in costume adamitico, beh… forse in quel caso prenderei in considerazione l’idea di diventare gay.

Ma evidentemente il buon gusto del cittadino occidentale medio è a un livello talmente basso da annullare questo rischio.

Mi chiedo anche se non esistano degli omosessuali intelligenti che abbiano il coraggio di ribellarsi a queste immonde caricature delle loro tendenze sessuali. Penso a un Proust, a un Wilde, a un Britten e a come reagirebbero di fronte a tanta gratuita volgarità. La vera omofobia, se vogliamo usare questo insulso neologismo, è quella che trasuda da tutti i pori di queste manifestazioni: nessun eterosessuale, per quanto bieco e retrivo possa essere, avrebbe mai il coraggio di dipingere in modo altrettanto fosco e ridicolo il mondo degli invertiti.

Se fossi un omosessuale concepirei un fastidio, un disgusto, perfino un odio contro queste caricature del mio vissuto ben maggiori di quelli che posso provare in quanto eterosessuale.

 

 

Punto secondo: l’odio per il normale come esito ineludibile della pretesa “normalità” gay.

 

Esistono due modi alternativi di vivere la propria tendenza omosessuale (oltre beninteso a quello, che per un credente dovrebbe essere l’unico, di cercare di uscirne fuori).

Il primo è quello di riconoscere la propria anormalità, o quantomeno innaturalità, vivendola a seconda dei casi in modo sofferto o sereno, martoriandosi e vergognandosi per la propria condizione o viceversa provandone una sorta di orgoglio o di senso di superiorità. È sostanzialmente l’atteggiamento tipico di tutti gli omosessuali del passato, sia che fossero vissuti in società assai tolleranti, come il mondo greco antico, o ben poco comprensive, come l’Inghilterra vittoriana.

Il secondo modo è quello di rivendicare la normalità della propria condizione, ed è quello che sta accadendo, per la prima volta nel corso della storia, ai nostri giorni. Ora è palese che un tale status di normalità non potrà mai essere loro concesso da chi non ne condivide le tendenze (a scanso di equivoci qui ci si riferisce a persone con quel minimo di intelligenza necessario per essere classificabili nel genere umano; tanto per comprenderci, non ai fruitori dei programmi di imbonimento televisivo tanto generosamente offertici a destra e a manca). Anche se gli invertiti diventassero la maggioranza della popolazione, questo non basterebbe loro, perché la restante minoranza di normali continuerebbe a considerarli, per l’appunto, anormali. E quello che a loro preme è il riconoscimento della propria normalità proprio da parte di quella fetta di popolazione che non ne condivide le tendenze. Risultato curioso, ma non troppo, se pensiamo che anche i comunisti hanno sempre bramato di essere considerati democratici da quelli che comunisti non erano, ossia dagli unici che potessero davvero rivendicare – non sempre a ragione – un titolo di democraticità. Il che non è poi altro che una implicita ammissione di inferiorità, tanto da parte dei comunisti che da quella degli invertiti.

Fino a quando esisterà anche un solo non invertito, questi non potrà se non considerare anormale tutto il mondo omosessuale. Ecco allora che l’esito inevitabile per questa categoria di omosessuali è l’odio per le persone normali. Odio che affiora da tutte le continue provocazioni con cui cercano di ferire chi non appartiene alla loro schiatta. È lo stesso odio che nutrono l’incolto presuntuoso per il sapiente, il pavone vanesio per il saggio, il peccatore incallito per il virtuoso, il plebeo volgare per il nobile d’animo; ma con una forza e una pervicacia del tutto particolari, dovute alla mancanza di ogni speranza di riscatto.

Manifestazione del tutto connaturale a tale odio è la blasfemia, perché questi depravati percepiscono – oserei dire molto meglio di tanta parte della moderna gerarchia e dei bassifondi ecclesiali – la totale incompatibilità tra la Chiesa e il loro modo d’essere.

 

 

Punto terzo: l’omosessuale che reclama la propria normalità deve corrompere l’infanzia.

 

La vana speranza di vedere proclamata la propria normalità spinge l’omosessuale a condurre un’insistente e martellante campagna di proselitismo. Ma l’omosessuale capisce, o almeno percepisce istintivamente, che qualunque persona normale, al di là di occasionali atteggiamenti benevoli, di incoraggiamento e di sostegno, non può non sentire l’invertito come un qualcosa di diverso e di estraneo alla propria natura: si può provare pietà e solidarietà per il diverso, ma non identificazione con lui; si può perfino giungere a chiamare bianco il nero, ma non ci si potrà mai credere veramente.

L’omosessuale deve allora iniziare la sua opera di lavaggio del cervello verso gli altri cominciando dalla più tenerà età. Agire su adolescenti, anche nella fase prepuberale, è già tardivo. Bisogna intervenire su una materia quanto più vergine, plasmabile e ricettiva possibile: non ci sono limiti verso il basso: 6 anni, 5 anni, meglio ancora 3 o 2 anni di età. Quello che non si potrà ottenere con ragionamenti o discorsi espliciti lo si otterrà immergendo il bambino, e perfino il neonato, in un ambiente che trasuda vizio, corruzione e promiscuità.

Due sono i mezzi per ottenere questo: uno per forza di cose limitato, costituito dalle adozioni da parte di coppie gay; l’altro, che coinvolge l’intera fascia giovanile, imperniato su una educazione scolastica abnormemente basata su una visione falsata e morbosa del sesso. Ovviamente tale modo di procedere ha anche un “positivo” effetto collaterale nel favorire la pedofilia, ma – proprio per quanto detto sopra – viene perseguito anche al di là e al di fuori di eventuali pulsioni pedofile.

 

 

Punto quarto: l’omosessuale che reclama la propria normalità finisce per odiare se stesso.

 

L’omosessuale, nella sua assurda pretesa di ridurre l’anormalità a normalità, è destinato a una sconfitta eterna; egli vuol costringere l’eterosessuale a consideralo normale proprio perché sa, almeno inconsciamente, di non esserlo: vuol sentirsi dire da altri quello che non può dirsi da solo.

Ma neppure se riuscisse in questo intento la sua ansia sarebbe placata. Anche se sulla terra non esistessero più eterosessuali, perfino se non ne rimanesse neppure il ricordo, l’omosessuale continuerebbe a sentirsi giudicato e condannato. Non gli basta odiare tutte le persone normali, deve odiare anche la normalità in sé, perché è la normalità stessa che lo giudica. Ma la normalità, in quanto idea, non può essere eliminata.

L’esito di questo fallimento è inevitabilmente un più o meno conscio odio di se stesso e della propria condizione. L’omosessuale che si toglie la vita non è la vittima di una società omofoba, ma del suo assurdo volo pindarico; non è crollato sotto il peso delle discriminazioni altrui, ma per l’impossibilità logica di realizzare il suo sogno; non è indizio di una cultura intollerante, ma di un fallimento personale; soprattutto, non rappresenta una tacita accusa contro un ambiente ostile, ma contro la ridicola protervia delle rivendicazioni delle lobbies di invertiti.

 

 

Punto quinto: il favore del mondo e il gioco del principe del mondo.

 

È indubbio che attualmente le organizzazioni omosessuali godano di appoggio anche da parte di associazioni, di movimenti e di singole persone che omosessuali non sono. Se una parte di questo favore può essere spiegato con l’insulsaggine delle masse abilmente pilotate a credere di volere quello che altri vogliono, resta da spiegare il perché i pupari muovano i pupi in questa direzione.

Emblematico il caso degli insignificanti orfani o eredi del marxismo, tutti “coraggiosamente” schierati a difesa degli invertiti (c’è comunque da chiedersi quanti veri pupari esistano ancora nel corpo informe di questa plebaglia sempre più abbrutita). Ora è evidente che un qualunque marxista di solida formazione non avrebbe dubbi nel classificare tutta la paccottiglia gender come “oppio dei popoli”: droga tanto più pericolosa di quella storicamente individuata nella religione in quanto spacciata a costo molto più basso e procurante assuefazione e dipendenza molto più acute.

Proprio questo ci fornisce una prima plausibile risposta: molti potenti manovratori del mondo usano l’omosessualità come una sorta di “panem et circenses” per soddisfare, strumentalizzare e dominare le masse. Condizionamento riuscito così bene da coinvolgere anche gran parte di quelli che non hanno alcuna pulsione omosessuale.

Una tale strategia appare però, specie a lungo termine, talmente aberrante da risultare perfino autolesionista. Sorge quindi il legittimo sospetto che gran parte di questi presunti pupari non siano a loro volta che una banda di utili idioti, più o meno coscientemente asserviti a una classe più alta di manovratori, questi ultimi direttamente agli ordini del principe del mondo.