di Martino Mora
Il “buonista”, l’’immigrazionista, non ama l’immigrato. Non ama l’immigrato concreto, il singolo immigrato. Non ama l’immigrato come prossimo. Il “buonista”, l’’immigrazionista, ama l’immigrato come idea astratta, l’immigrato per quello che rappresenta simbolicamente. Ama cioè la figura astratta del nomade, dello sradicato,dell’estraneo senza legami con i luoghi dove viene a vivere. Non a caso, nella neolingua politicamente corretta di ogni progressista conformista che si rispetti, non c’è più spazio per la parola “im-migrato” o “e-migrato”, ma solo per la parola “migrante”. L’emigrante ha un luogo d’ origine. L’immigrato ha un luogo d’arrivo. il migrante non ha luogo, non ha radici, non ha destinazione fissa. L’immigrazionista ama il migrante come incarnazione dell’uomo senza identità, come simbolo archetipo dello sradicamento individuale e collettivo. Non a caso, quasi sempre l’immigrazionista è anche un apologeta dell’omosessualismo e del genderismo. Ama cioè il superamento dell’identità sessuale (e di tutti limiti in ambito morale) che conduce dall’ omosessualità e dalla bisessualità alla transessualità e oltre . Anche qui il pensiero unico dominante esalta l’assenza di identità. Questa volta in ambito sessuale.
Ma perché viene esaltato lo sradicamento e il rifiuto dell’identità sessuale, dietro alla retorica falsa e bugiarda dell'”alterità” (quando è proprio l’alterità che si vuole rifiutare in nome dell’uniformità)?
Direi che in motivi sono due. Il primo è perché si crede del tutto erroneamente che la libertà sia per l’uomo il superamento di ogni appartenenza: religiosa, etnica, familiare, sessuale e di qualsiasi altro tipo. E’ una credenza falsa, falsissima, perché questa liberazione dalla religione, dall’etnia, dalla famiglia, dall’appartenenza sessuale, significa l’allontanamento completo dell’uomo dalla propria essenza, dalla propria natura, e quindi l’alienazione totale.
Il secondo motivo è la constazione che il pensiero “progressista” e politicamente corretto si innesta su una mentalità patologica, o meglio psicopatologica, tipica delle civiltà al tramonto, che è quella dell’odio di sé. Della propria cultura, della propria civiltà. L’odio di sé che già gli illuministi alla Voltaire avevano introdotto con gocce di distillato veleno nella cultura occidentale. L’oscurantista spirituale Voltaire aveva insegnato che l’uomo civile, l’uomo “illuminato” dalla ragione doveva vergognarsi del Medioevo e in generale di tutto il suo passato cristiano ed in particolare cattolico, letto secondo i peggiori e demenziali stereotipi protestanti e massonici come un’ era di oscurantismo e superstizione. La Tradizione andava così rifiutata in blocco. Da allora tutta la cultura europea si è quasi sempre adagiata sui questo assurdo e moralistico modo di leggere la storia.
L’odio di sé oggi colpisce persino la Chiesa, a cominciare dall’interminabile lista di “mea culpa” con cui i papi conciliari (tutti quanti, non solo Bergoglio) hanno espresso il loro “pentitismo”. Paolo VI chiese perdono al Patriarca ortodosso di Costantinopoli, Atenagora, baciandogli la pantofola. E se Bergoglio ha sostenuto che la Chiesa dovrebbe chiedere perdono non solo agli omosessuali, come dice il pessimo cardinale Marx, “ma anche ai poveri, alle donne sfruttate, ai bambini violati. Chiedere scusa di avere benedetto tante armi”, già Giovanni Paolo II nel Giubileo del Duemila aveva indetto la giornata del Perdono per chiedere scusa all’universo mondo di tanti torti veri e (soprattutto) immaginari, inanellando una serie talmente lunga di “mea culpa” che resta insuperata e insuperabile. E ’una Chiesa che odia il proprio passato, e quindi se stessa, in un’Europa che odia se stessa.
L’odio di sé è oggi una potente patologia individuale e collettiva nell’opulento e nichilista Occidente. Individuale perché si manifesta con l’assunzione di massa di droghe, alcool e altri comportamenti autodistruttivi. Collettiva perché si compiace pubblicamente di questo perpetuo fustigarsi e vergognarsi della propria storia, cercando nell’immigrazione di massa e nella normalizzazione simbolica e giuridica dei comportamenti sessualmente deviati la propria dissoluzione. E’ una dissoluzione scientemente ricercata e desiderata.
Una cosa è certa: i conformisti asserviti all’ideologia dominante non amano fraternamente e cristianamente il migrante; amano solo quello che astrattamente rappresenta: un mondo senza confini, senza patrie, senza limiti, senza identità, senza radici, senza l’origine. Odiano le differenze. Odiano l’origine. Odiano se stessi.
Quando c’erano le discussioni interminabili tra comunisti degli anni dal 77 in poi, l’importante era mangiare un’idea.
Da questo gli sforzi per devirilizzarci noi maschi, contrastando la naturale gelosia e l’istinto a proteggere la donna, condannati come retaggi patriarcali.
Poi, siccome si tratta di mangiare un’ideologia e l’uomo si stufa di andare contro natura, si cede all’ incoerenza, senza riuscire a spiegare il perché. I peggiori, più ostinati nel permanere nel nichilismo sono stati i cattolici progressisti
“l’odio di sé colpisce la chiesa – questa chiesa “, perché detta chiesa conciliare fa talmente schifo per la sua impresentabilità, che si preferisce distrarre da essa la vista, caricare di colpe la Chiesa della storia, illudendosi per queste pratiche penitenziali, di renderla – e di rendersi – presentabili…Ma ormai con questo (speriamo) ultimo papa conciliare Bergoglio, la manovra è diventata, grazie a Dio, talmente scoperta che chi la pratica è diventato esso stesso nudo, tanto spudorato e svergognato si è fatto nella sua azione. Un papa di ‘questa’ chiesa, che esprime personalmente stima per la scelta conclamata di un suo prete – ‘don’ Francesco lepore – di vivere da amante more uxorio con un altro maschio, al quale, propiziatrice dei celesti favori, impartisce l’apostolica benedizione (!!!!!!!), ha il coraggio di ‘vergognarsi’ della Chiesa che fu ( e che tuttora è, ma solo, per ora, in forma residuale)!