di Luca Fumagalli

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Più che un film, Cloud Atlas (2012) è un’opera sinfonica, un sapiente intreccio di storie brillanti, commoventi, che lasciano lo spettatore spaesato, senza fiato. I 172 minuti della pellicola scorrono in un baleno, a ennesima dimostrazione di come anche un blockbuster possa essere denso e profondo, senza per questo risultare noioso.

I fratelli Wachowski, reduci dal successo planetario ottenuto con la trilogia di Matrix, attingono a piene mani dall’omonimo romanzo di quel geniaccio inglese di David Mitchell per imbastire un film straordinario, destinato a diventare un classico.

L’impresa, del resto, non era facile data la complessa struttura del libro: le sei storie che compongono la trama sono infatti mescolate tra loro formando una sorta di spirale, con continui rimandi e troncature improvvise. La resa cinematografia di un tale pastone sarebbe risultata indigesta se i registi non avessero avuto un’interessante intuizione, senza la quale l’intero film sarebbe crollato sotto il peso di una zavorra eccessiva: i Wachowski sfoltiscono la trama originale e accrescono quella dimensione simbolica che rende facilmente intuibili i richiami tra le varie narrazioni (emblematico, in tal senso, il neo a forma di stella cometa che hanno in comune diversi personaggi, così come il riutilizzo dello stesso attore per interpretare ruoli diversi). Ma a far la differenza è soprattutto la frequente frammentazione dei racconti secondo una prospettiva più lineare e fruibile. Il risultato, come detto, è al limite del capolavoro.

Le sei storie si svolgono in parallelo anche se ambientate in epoche diverse, come se fossero presenti in un’unica dimensione senza tempo. A metà ottocento un avvocato americano si adopera contro la schiavitù, negli anni ’30 un giovane compositore viene raggirato da un grandissimo autore presso il quale lavora, a San Francisco negli anni ’70 una giornalista cerca di svelare un complotto per la realizzazione di un reattore nucleare, ai giorni nostri, in Inghilterra, un anziano editore viene incastrato e internato in una casa di cura da cui cercherà di fuggire, nella Seul del 2144 una donna clone si unisce ai ribelli e scopre che quelle come lei sono utilizzate come cibo per altri fabbricati e infine nel 2321, in una Terra ridotta all’età della pietra da una non ben identificata apocalisse, un uomo entra in contatto con i pochi membri di una civiltà tecnologicamente avanzata e si ribella alla tribù dominante.

Un mosaico così eterogeneo risulta convincente e compatto grazie anche alla bravura degli attori, tra cui Tom Hanks, Halle Berry, Jim Broadbent, Hugo Weaving e Jim Sturgess, e all’eccellente colonna sonora.

Cloud Atlas, in definitiva, è un’esaltazione della vita, il racconto dell’epica del quotidiano, l’elogio di quella paradossale dimensione dell’esistere per cui anche il niente, anche l’uomo comune apparentemente privo di qualità, può fare la differenza. Del resto ogni cosa è connessa, passato e presente mostrano nei risvolti degli avvenimenti una sorta di filo rosso che, provvidenzialmente, sorregge la storia e a cui, in un certo senso, gli esseri umani sono chiamati a contribuire con i loro piccoli o grandi gesti eroici di ribellione al male. L’enigmatico titolo della pellicola sta proprio a significare che sulla terra, così come nel vasto cielo, dove le nuvole, sempre diverse, si muovono spinte dal vento, è possibile scorgere un senso, un disegno (divino?) che con il caso non ha nulla a che spartire.