di Luca Fumagalli
«Se uno racconta la verità, può stare certo che, prima o poi, sarà scoperto»
(Oscar Wilde)
L’importanza di chiamarsi Ernest (2002), per la regia di Oliver Parker, è un film leggero, senza troppe pretese, ma non per questo privo di valore. Tratto dall’omonima commedia di Oscar Wilde, riporta sul grande schermo, dopo un primo adattamento datato 1952, un gioiellino della drammaturgia inglese.
La trama, di per sé piuttosto semplice, si snoda secondo il canovaccio tipico della commedia degli equivoci. Nella Londra di fine ‘800 Jack Worthing (Colin Firth), un ricco gentiluomo dal passato misterioso, conduce una doppia vita. E’ ufficialmente tutore di sua nipote Cecily (Rose Whiterspoon), ma quando si reca in città si trasforma nell’irresponsabile Ernest. Di lui si innamora Gwendolen (Frances O’Connor), attratta principalmente dal nome, che evoca virtù e onestà. La madre, però, la gelida e vittoriana Lady Bracknell (Judi Dench), fa di tutto per ostacolarli, avendo altri progetti in serbo per la sua unica figlia. Nel frattempo Algernon (Rupert Everett), amico di Jack, si spaccia per Ernest pur di entrare nelle grazie di Cecily, anche lei affascinata da quell’incantevole nove. Da qui una serie interminabile di rocamboleschi avvenimenti che condurranno lo spettatore al finale, con immancabile colpo di scena.
Parker, amante di Wilde, all’epoca dell’uscita nelle sale de L’importanza di chiamarsi Ernest aveva già diretto la trasposizione cinematografica di Un marito ideale (1999); nel 2009 avrebbe girato anche l’adattamento del Dorian Gray (dei tre il film meno riuscito). Questa volta si punta tutto su una regia quadrata, senza eccessivi movimenti, fatta di telecamere fisse a restituire la sensazione del palcoscenico. Ottima la scelta dei tempi comici, e il cast di prim’ordine dà certamente una grossa mano a elevare la qualità del lavoro, nel complesso più che buono.
La pellicola centra l’obiettivo soprattutto nel restituire la freschezza e la solarità della pièce wildiana, dotata di un potere quasi terapeutico (una volta si sarebbe detto catartico). Nel gioco dei fraintendimenti in cui, presto o tardi, si trovano coinvolti tutti i protagonisti, c’è, infatti, qualcosa di molto più profondo del disimpegno tipico del teatro borghese. I numerosi paradossi e la forza epigrammatica del testo contribuiscono a esaltare quell’elogio della verità che, come una fiume carsico, attraversa l’intera trama, affacciandosi or qui or là, per strabordare nel finale. Se la menzogna è l’inizio della fine, il rotolare a valle di un fiocco di neve che si trasforma in slavina, minacciando tutto e tutti, la verità è la medicina (spesso amara) che guarisce ogni cosa.
Ne L’importanza di chiamarsi Ernest, in altre parole, ritorna il Wilde delle favole, desideroso di cogliere l’essenza della vita al di là di ogni possibile bugia, banalizzazione o fraintendimento. Del resto questo è stato l’obiettivo che lo scrittore irlandese cercò di inseguire nel corso della sua sfortunata parabola esistenziale, spesso contraddittoria e raramente felice. Anche lui che esaltava la virtù della maschera e dell’affettazione a ogni costo, in fondo non fu mai così sciocco da non saper cogliere l’importanza di chiamarsi “onesto”.