di Luca Fumagalli e Piergiorgio Seveso
Nelle prime puntate abbiamo un po’ “marcato” il territorio per fare capire, a simpatizzanti ed antipatizzanti, che questa rubrica (e il libro che si sta generando con essa) non è affatto apologetica del nostro sedevacantismo (dato personalmente e teologicamente per acquisito) ma nettamente “anti-apologetica”, proprio per mostrare che esso non si fonda sul valore o sulla virtù degli individui che lo professano. Già altri, alcuni efficacemente, altri magari in modo più ruspante, pittoresco e caotico, si occupano di “sensibilizzare” le anime alla spinosa questione della sede vacante (e anche Radio Spada in questi anni ha dato e continua a dare un importante e variegato contributo in questa direzione). Riproporre il già detto sarebbe un inutile doppione; a noi invece sta a cuore, com’è e come dovrebbe essere noto, un’adeguata variatio di temi e di stili.
Vivere senza il Papa, vivere praticamente senza vescovi cattolici, senza una vera Chiesa docente, vivere in una generale eclissi del cattolicesimo romano (di cui rimangono amplissime vestigia e qualche baluardo) e averne consapevolezza espone primariamente a due fondamentali rischi: abitudine e aberrazione. Sulla seconda gli avversari del sedevacantismo hanno speso (non senza malevolenza) da sempre molti argomenti “pastorali” e ad auditores: sostanzialmente la nostra posizione esporrebbe alla follia, all’estremismo, ad un ateismo e nichilismo pratico di fondo che ci trasformerebbe in mascheroni caricaturali, in urlanti monadi sociopatiche che entrano nell’agone rovesciando tavoli, scagliando anatemi, minacciando tutto e tutti di eterna dannazione. Il rischio è reale e in qualche circostanza (e speriamo apprezzerete la franchezza) qualcuno vi incappa. In questi casi i soggetti sembrano ricorrere a soluzioni sempre più ultimative, a posizioni sempre più cervellotiche e lunari, minoritarie o spregiudicate, nel chiuso del proprio scrittoio virtuale o concretamente impolverato (visto che la sede è vacante, si ha poco tempo per passare lo straccio): in ultima analisi, i sedevacantisti aberranti diventano spesso creature crudeli e ripiegate su loro stesse, ciniche e amorali (quale che sia la loro vita di pietà). Avvolti nella certezza teologica (peraltro bene fondata) di avere ragione, s’incomincia a vedere negli altri, in TUTTI gli altri (foss’anche il vicino di pianerottolo o l’ignaro compagno di sventura nelle file in posta) mostri e complici di quell’articolato complotto che ci ha portato al ground zero del cattolicesimo che viviamo oggi.
Che cosa guarisce da questo fastidioso malanno del cuore, a parte la Grazia divina? Certamente uno studio più approfondito e meno passionale dei problemi connessi alla sede vacante, un maggior senso del limite e della realtà circostante, una vita (per quanto possibile) tranquilla e pacificata e una maggiore attenzione (benevola e caritevole) agli individui (il più delle volte ignari e lontanissimi) che incontriamo sul nostro cammino.
Il primo rischio di cui abbiamo accennato in precedenza, invece, non ha mai goduto dell’attenzione della polemica teologica, anche perché ben meno gravido di problemi e più ordinario: si tratta dell’abitudine. Ci si abitua a tutto in fondo, è tipico dell’uomo: il sedeplenismo si è abituato in breve tempo ad avere due “papi”, noi ci siamo abituati a non averne nessuno, a scambiare per “normale” ciò che è enormemente straordinario. Il nomadismo della Messa, i luoghi di fortuna ove si celebra, la sostanziale volatilità delle comunità di fedeli (sempre soggette a moderato ma costante turn over) non escludono il rischio di un “parrochismo di ritorno”. Questo fenomeno può produrre in alcuni soggetti tutti i tic, le manie, le pose, i primadonnismi e l’esclusivismo verso i revenants tipico di qualsiasi ambiente ecclesiale ristretto. In altri una sorta di assuefazione che porta a un generale disinteresse verso il problema dell’Autorità, verso le questioni teologiche in genere, verso un qualunque segno di appartenenza e di riconoscimento che rivendichi la regalità sociale di Cristo. Quasi paghi di questo “paradiso ritrovato”, già a caro prezzo, alcuni scivolano in una sorta di sedevacantismo anonimo e amorfo che, ben lungi dall’essere il normale e legittimamente riservato esercizio della vita cristiana, ben si adatta al mesto grigiore delle nostre città senza Dio (e con troppi “Dei”).
Chiudiamo con una nota positiva, figlia della certezza. Sed abusum non tollit usum: questi eccessi e queste miserie della compagine umana fortunatamente non potranno mai ledere una (“la”) buona battaglia.
Nella festa di Cristo Re 2017
Per le puntate precedenti e l’introduzione alla serie di articoli: I sottoscala dell’esistenza e Catacombe e osterie