di Luca Fumagalli
Dopo tanto parlare, è giunto il momento di affrontare la questione catalana prendendo le distanze dalle passioni di parte, esaminando il tutto nel modo più oggettivo possibile. Non sono un analista politico e ho il buon gusto di tacere quando si tratta di temi che non mi competono, ma in questo caso mi concedo volentieri un’eccezione. Del resto, i pur modesti appunti che mi accingo a mettere nero su bianco sono più che altro frutto del buon senso prima che della mia scarsissima cultura politica.
La prima considerazione, per quanto banale, è che l’indipendenza della Catalogna è semplicemente un falso problema. A prescindere da come si concluderà la vicenda, gli equilibri geopolitici – anche all’interno della stessa Europa – non cambieranno. Oggi conta il dio denaro, e con buona pace di tutti la Spagna, dal punto di vista economico, è il terzo mondo dell’Europa occidentale. E se una volta fu un glorioso impero, oggi è ridotta al rango di ultima provincia (in compagnia dell’Italia).
Qualcuno potrà obiettare che i catalani sono filo-europeisti e a favore dell’immigrazione, ma non mi pare di vedere in questi aspetti una clamorosa differenza con la politica di Madrid.
Peggio mi sento quando il discorso è portato sul piano delle idee e dei simboli. In questi giorni, soprattutto in rete, se ne sono sentite di cotte e di crude.
Carlisti, franchisti, legittimisti e “tradizionalisti” con lo scolapasta in testa hanno fatto a gara per difendere strenuamente l’unità spagnola, demonizzando di conseguenza ogni velleità catalana d’indipendenza. Se posso essere d’accordo sulle modalità ridicolmente farraginose e discutibili con cui ha avuto luogo il referendum, allo stesso tempo, però, sono rimasto sorpreso, deluso e a tratti inquietato davanti a certe mistificazioni assurde.
Messi tra parentesi gli elogi alle manganellate della polizia – che si commentano da soli –, qualcuno crede davvero che si tratti di una nuova guerra civile, dove in ballo vi è addirittura la salvaguardia della religione cattolica. E questo viene detto con troppa leggerezza, come se la Spagna del 2017 possa vantare un qualche primato morale, come se non fosse – statistiche alla mano – uno dei paesi europei con il più avanzato processo di secolarizzazione, come se il re – da qualcuno forse scambiato per l’omonimo Filippo II – non fosse sposato con una donna già reduce da un matrimonio civile e dal conseguente divorzio.
Se poi per qualcuno l’unità nazionale è un valore che va difeso a priori, come un baluardo contro l’ondata rivoluzionaria dei “rossi” catalani, non so cosa dire. Mi permetto solo di ricordare, sommessamente, che gli stati nazionali sono essi stessi figli della rivoluzione.
Ma quello che più sconcerta è notare la mancanza, in taluni ambienti, di qualsiasi forma, anche minima, di sano realismo, trasformando così il mondo nella proiezione fantastica e drogata dei propri ideali. Fosse per me torneremmo agli Asburgo, a Lepanto, all’Invincibile Armada, alle Fiandre spagnole, ai missionari in America … ma la Spagna di oggi, purtroppo o per fortuna, non è più quella di cinque secoli fa, o quella degli anni ’30, e da tempo Madrid non simboleggia alcunché.
Tengo a precisare che non sono favorevole a un diritto indiscriminato dei popoli all’autodeterminazione, ma in un’Europa priva di ogni valore che conta, costruita sulla sabbia, che una regione voglia a no diventare indipendente è, come anticipato, questione di lana caprina, totalmente indifferente.
Da parte mia sono favorevole a qualsiasi soluzione, dall’indipendenza effettiva alla duplice monarchia castigliana-aragonese. Basta solo che non si cada nell’errore di credere che con la cosiddetta “catalexit” cambierà il destino dell’universo. Spiace deludere i più, ma in questa storia, ancora una volta, il succo del discorso è che non c’è in ballo un bel nulla per cui valga la pena fare tanto chiasso.