di Luca Fumagalli

snowpiercer

In un futuro distopico, la Terra è diventata un pianeta ghiacciato. Gli ultimi sopravvissuti vivono confinati in un treno ultra-tecnologico in grado di percorrere in eterno il globo. L’inventore di questa macchina, il misterioso Wilford, ha anche determinato un rigido sistema sociale su cui si regge l’equilibrio della comunità che abita i vagoni: in coda stanno i miserabili, verso la testa del treno, invece, vivono nel lusso i passeggeri di prima classe. Ma la rivolta degli oppressi – sudicio melting pot di scarti d’umanità – è oramai imminente e il loro leader, Curtis (Chris Evans), attende solo il momento giusto per tentare di conquistare la locomotiva.

Snowpiercer (2013), di Bong Joon-ho, è il più costoso film mai prodotto in Corea, raro caso di un blockbuster d’autore che non immola la visione del suo regista sull’altare del successo di botteghino. Bong ha portato sullo schermo un classico della fantascienza, che non è solo un’efficace opera di intrattenimento, ma anche una profonda riflessione sull’uomo. Il destino della razza umana, apparentemente cupo e inquietante, è dipinto con un’ironia mordace che, nel finale, si apre addirittura alla speranza.

Snowpiercer è dunque una pellicola profetica che, per potenza e impatto visivo, può tranquillamente essere messa sullo stesso piano di Blade Runner, Brazil, Strange Days o The Matrix. Nel treno-mondo di Bong, costruito con scenografie geniali, la lotta di classe a cui dà il la Curtis si trasforma presto in lotta per affermare il diritto di ciascuno ad avere un cuore e una mente, è lotta per urlare all’universo che la vita è un dono e che certamente non è priva di senso.

Tra gli interpreti meritano di essere citati anche Kang-ho Song, Ed Harris, John Hurt e un’impareggiabile Tilda Swinton, allegoria vivente del volto tirannico e grottesco del potere.