da “Sì sì no no”, gennaio 2013 (fonte Una Vox)
L’integrità della Fede
Durante e dopo la tempesta del Concilio Vaticano II furono molti gli scritti sulla sua opposizione alla Tradizione della Chiesa (card. Alfredo Ottaviani, card. Antonio Bacci, card. Arcadio Larraona, card. Giuseppe Siri, card. Ernesto Ruffini, sua ecc.za Dino Staffa, sua ecc.za Antonio de Castro Mayer, sua ecc.za Marcel Lefebvre, sua ecc.za Luigi Carli, mons. Klaus Gamber, dr. Arnaldo Xavier Vidigal Da Silveira, dr. Romano Amerio, dr. Michel Davies, mons. Francesco Spadafora, p. Cornelio Fabro, p. Michel Guérard des Lauriers, sino ai recenti studi di mons. Brunero Gherardini).
Questi eminenti teologi chiedevano di correggere o addirittura di abrogare gli errori e le ambiguità che avevano rilevate nei testi del Concilio e nella “Messa del Concilio” promulgata da Paolo VI nel 1969. Ma la risposta non è mai stata data a partire da Paolo VI sino a Benedetto XVI, che ha fatto della ermeneutica della continuità il suo cavallo di battaglia. Si è soltanto affermato senza provarlo che vi è continuità tra Vaticano II e Tradizione apostolica.
Anche l’ultimo grande teologo (Brunero Gherardini), che ha riproposto tali domande sul Concilio a papa Benedetto XVI dal 2009 al 2012, è rimasto senza nessuna risposta
ed ha continuato a sospendere il suo assenso agli insegnamenti “pastorali” dubbi del Vaticano II.
Sennonché proprio nell’ambiente tradizionalista, che aveva combattuto le deviazioni modernistiche dei testi conciliari in maniera aperta e sistematica, in questi ultimi anni
(2009) si è iniziato ad annacquare la propria resistenza affermando che la maggior parte del Concilio è accettabile.
Ora l’ultimo Concilio presenta, come vedremo, dei punti assai controversi che cadono sotto varie censure teologiche e pertanto la suddetta affermazione non ha senso perché l’integrità della Fede esige che essa va insegnata ed accettata senza sconti di percentuale anche minime.
“Gli Ariani, i Montanisti, i Quartodecimani, gli Eutichiani – scrive Leone XIII – non avevano abbandonata in tutto la dottrina cattolica, ma solo in questa o quella parte, e tuttavia è cosa certa che essi sono stati dichiarati eretici ed espulsi dal seno della Chiesa” (Satis Cognitum) (1).
Inoltre i moralisti (S. Alfonso de’ Liguori, Prümmer, Merkelbach, Noldin, Ramirez, Roberti-Palazzini…) insegnano che si è obbligati, per Comando divino, a professare pubblicamente la Fede, quando il tacere o il tergiversare implica una negazione diretta o indiretta della Fede. Perciò di fronte alle ambiguità e agli errori del Concilio Vaticano II non si può tacere, ma occorre far notare a chi di dovere la discrepanza con la Tradizione apostolica.
Negazione di una dottrina comune e definita
La Costituzione dogmatica su “La Divina Rivelazione” Dei Verbum del Vaticano II accantona la dottrina definita dal Concilio Tridentino e dal Vaticano I sulle “due Fonti” della Rivelazione (Tradizione e S. Scrittura), per far convergere la Tradizione e il Magistero nella sola Scrittura. Soprattutto nel paragrafo 10 della Dei Verbum il precedente Magistero dogmatico e infallibile è spazzato via all’insegna d’una radicale ed insostenibile unificazione di Scrittura, Tradizione e Magistero. La Dei Verbum, pertanto, altera una verità di fede definita dal Concilio Tridentino e dal Vaticano I.
Per quanto riguarda la Tradizione la “Dei Verbum” rigettò lo schema della Commissione preparatoria “De fontibus Revelationis”, approntato sotto la direzione del card. Ottaviani e che riprendeva le definizioni dogmatiche, infallibili ed irreformabili, del Concilio Tridentino e Vaticano I e ciò per poter annacquare il peso della Tradizione a vantaggio della sola Scrittura, in vista del dialogo ecumenico col protestantesimo, che aborrisce la Tradizione. Col Vaticano II, infatti, non si parla più di duplice fonte della Rivelazione (S. Scrittura e Tradizione) e si insiste sull’aggettivo “vivente” quando si nomina la Tradizione per poter far dire alla Scrittura tutto e il contrario di tutto nell’ottica del libero esame soggettivistico luterano, avendo con detto aggettivo accantonato l’interpretazione autentica del Libro sacro data dai Padri e dal Magistero, alla quale ha il dovere di conformarsi l’esegesi cattolica. Si misura, infine, la Tradizione in base alla Scrittura: tutto ciò che non è scritto non può essere ritenuto come vero.
In breve è stata ribaltata la dottrina comune e definita della insufficienza della sola Scrittura nei confronti della Tradizione. Col Tridentino e il Vaticano I la Tradizione era accolta perché proveniente da Gesù e dagli Apostoli, col Vaticano II (‘DV’) è accolta se sono i teologi a riconoscere tale provenienza fondandosi sulla Scrittura, omologata alla Tradizione. La distinzione tra le due fonti, invece, è stata ribadita anche dopo il Vaticano I da S. Pio X nel Decreto Lamentabili (1907) e poi da Pio XI nell’enciclica Mortalium animos (1928).
Quanto ai rapporti tra Tradizione e S. Scrittura è dottrina comune che la Tradizione è più ricca della sola Scrittura in antichità (anche la Scrittura, prima di essere scritta, fu Tradizione, in quanto trasmetteva oralmente la predicazione di Cristo e degli Apostoli), in pienezza (in quanto la Tradizione contiene tutte le verità per sé rivelate mentre la Scrittura no) e in sufficienza (poiché la Scrittura ha bisogno della Tradizione per stabilire la sua autorità) (2).
Per il protestantesimo, invece, l’unica fonte della Rivelazione è la S. Scrittura, onde la sola nozione di Tradizione orale e di magistero quale canale trasmettitore di essa è inconcepibile.
Contro i protestanti la Chiesa ha definito infallibilmente nel Concilio di Trento (sessione IV del 6 aprile 1546; DB, 783) e nel Concilio Vaticano I (DB, 1787)
1°) che esistono insegnamenti o Tradizioni divino-apostoliche concernenti la fede e la morale
2°) trasmesse ininterrottamente tramite il magistero della Chiesa
3°) assistita da Dio.
Se manca una sola di queste tre condizioni la tradizione è solo umana e quindi fallibile.
Inoltre sempre il Tridentino ha definito contro il protestantesimo (sessione IV; DB 783) che la fede e la morale “ è contenuta tanto nei Libri Sacri scritti [sotto divina ispirazione], quanto nella Tradizione non scritta” e che bisogna “ricevere con pari amore di pietà e riverenza” sia l’una che l’altra fonte della Rivelazione (DB 738; ripreso dal Vaticano I; DB1787).
Asserire, pertanto, che il testo della Dei Verbum – come l’insieme del Concilio Vaticano II – è sia pure in minima parte accettabile è già almeno un errore teologico oggettivo.
Una dottrina estranea alla Tradizione e già condannata dalla Chiesa
Per quanto riguarda la Costituzione dogmatica su “La Chiesa” Lumen gentium, occorre sapere che la Dottrina della Chiesa è quella che la sua Tradizione, dagli Apostoli sino ad oggi, presenta e propone come tale: di questa Dottrina la collegialità non fa parte. Anzi la Collegialità episcopale (3) è stata costantemente condannata dal Magistero ecclesiastico sino a Pio XII, il quale, ancora tre mesi prima di morire, nell’ enciclica Ad Apostolorum principis (29 giugno 1958) ribadì per la terza volta, dopo la Mystici Corporis del 1943 e la Ad Sinarum gentem del 1954, che la giurisdizione viene ai vescovi tramite il Papa. Il gallicanesimo o conciliarismo, invece, tende ad assegnare al Concilio ecumenico e quindi all’insieme dei Vescovi una funzione suprema eguale, se non superiore, a quella del Papa.
Storico è lo scontro (8 novembre 1963) che ebbe Frings con Ottaviani sulla collegialità. Ottaviani rispose a Frings che “chi vuol essere una pecora di Cristo deve essere condotto al pascolo da Pietro che è il Pastore, e non sono le pecore [i vescovi] che debbono dirigere Pietro, ma è Pietro che deve guidare le pecore [i vescovi] e gli agnelli [i fedeli]”.
La dottrina sulla ‘collegialità’ venne attaccata anche dalla rivista diretta da mons. Antonio Piolanti “Divinitas” n. 1 del 1964 tramite due articoli, l’uno di mons. Dino
Staffa e l’altro di mons. Ugo Emilio Lattanzi (che citava, confutandolo, anche l’allora teologo J. Ratzinger), i quali articoli vennero fatti distribuire in Concilio sotto forma di estratti dal card. Ottaviani.
La Nota explicativa praevia (messa, però, in coda alla Costituzione) fu dovuta, secondo Alberigo (che cita come fonti mons. Prignon, Suenens, mons. Charue, mons. Gerard Philips e mons. Carlo Colombo), al fatto come egli scrive, che «da due mesi a questa parte Paolo VI ha subito una fortissima pressione da parte dell’estrema destra. Sembra che si sia arrivati al punto di minacciare di far saltare il Concilio nel caso passasse il testo votato sulla Collegialità. Lo si è accusato come dottore privato di inclinare verso l’ eresia» (4). In realtà il 18 ottobre 1964 fu inviata una nota personalmente riservata a Paolo VI, curata dal card. Larraona e firmata da parecchi Cardinali e Superiori Generali. Nella nota fra l’altro si legge:
«sarebbe nuovo, inaudito e ben strano che una dottrina [la collegialità episcopale], la quale prima del Concilio era tenuta come meno comune, meno probabile, meno seria e meno fondata, passasse improvvisamente […] a divenire più probabile, anzi certa o addirittura matura per essere inserita in una Costituzione dogmatica. Questo sarebbe cosa contraria ad ogni norma ecclesiastica, sia in campo di definizioni infallibili pontificie sia di insegnamenti conciliari anche non infallibili. […] lo schema [sulla collegialità] cambia il volto della Chiesa; infatti a) la Chiesa diventa da monarchica episcopale e collegiale, e ciò per diritto divino e in virtù della consacrazione episcopale. b) Il Primato [papale] resta intaccato e svuotato. […] il Pontefice romano non è presentato come la Pietra sulla quale poggia tutta la Chiesa di Cristo (gerarchia e fedeli); non è descritto come il Vicario di Cristo che deve confermare e pascere i suoi fratelli; non è presentato come colui che solo ha il potere delle chiavi. […]. La Gerarchia di Giurisdizione, in quanto distinta dalla Gerarchia di Ordine, […] viene scardinata. Infatti, se si ammette che la consacrazione episcopale porta con sé non solo le Potestà di Ordine […] ma anche, per diritto divino, tutte le Potestà di Giurisdizione, di magistero e di governo non solo nella Chiesa propria ma anche nella Chiesa universale, evidentemente la distinzione oggettiva e reale tra Potere d’Ordine e Potere di Giurisdizione, tra Gerarchia di Ordine e di Giurisdizione diventa artificiosa, capricciosa e paurosamente vacillante. E tutto ciò – si badi bene – mentre tutte le fonti, le dichiarazioni dottrinali solenni, tridentine e posteriori, la disciplina fondamentale, proclamano questa distinzione essere di diritto divino. […]. Se la dottrina [della collegialità] proposta nello Schema fosse vera, la Chiesa avrebbe vissuto per molti secoli in diretta opposizione al diritto divino […]. Gli ortodossi e i in parte i protestanti avrebbero dunque avuto ragione nei loro attacchi contro il Primato» (5).
Come si vede, la collegialità episcopale fu tacciata di contraddire la dottrina costante e definita della Chiesa e di favorire l’eresia da numerosi e valenti cardinali e teologi già durante il Concilio Vaticano II. Per cui non si riesce a vedere quale
minima parte di essa sia accettabile.
Dal culto di Dio al “culto dell’uomo”
Altro punto di rottura con la dottrina tradizionale è l’antropocentrismo della Costituzione pastorale Gaudium et spes su “La Chiesa nel mondo contemporaneo” (n. 24, §4): «l’uomo è in terra la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa (“propter se ipsam”)». Mentre San Pio X voleva “instaurare omnia in Cristo, ricentrare tutto in Cristo”, Gaudium et spes vuol “instaurare omnia in homine; ricentrare tutto nell’uomo”. Essa è tutta orientata in direzione dell’uomo e protesa ad abbassare Cristo al livello del puramente naturale, disarcionandolo dal trono della sua Divinità. Quale rottura più radicale di questa?
La dottrina cattolica tradizionale riassunta nel “Catechismo di San Pio X” insegna che «Dio ci ha creati per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita, e goderlo poi nell’altra in Paradiso». La dottrina del Concilio Vaticano II, invece, sostituisce l’adorazione della creatura a quella del Creatore e tutto orienta all’esaltazione della dignità pressoché infinita della persona umana, smentendo, come osserva R. Amerio, «il solenne passo di Prov. 16, 4: “Universa propter Se metipsum operatus est Deus”, “Il Signore ha fatto tutte le cose per Se stesso”» (Iota Unum, cap. XXX).
A ragione ci si chiede come si possa sostenere, senza rotture con la S. Scrittura, con la Tradizione apostolica e con la retta ragione, l’affermazione che l’uomo “è in terra la sola creatura che Dio abbia creata per se stessa”.
Mons. Brunero Gherardini (Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, Torino, Lindau, 2011, p. 36, nota 3) commenta: «È un testo assurdo e blasfemo. […]. Il “per se stessa” sovverte i valori, sottoponendo il Creatore alla creatura». E Romano Amerio: “La centralità finalistica dell’uomo è conforme allo spirito dell’uomo contemporaneo, ma non ha fondamento alcuno nella religione, la quale ordina tutto a Dio e non all’uomo” (ibidem). Insomma Dio diventa il tributario dell’uomo, un suo sottoposto e l’uomo il valore primario (6). Come si vede l’antropocentrismo rende il Concilio e la Gaudium et Spes totalmente inaccettabili.
Una Dichiarazione in contraddizione con la S. Scrittura, i Santi Padri e il Magistero
La Dichiarazione su “La Libertà Religiosa” (Dignitatis humanae, 7 dicembre 1965) è in contraddizione con la Tradizione apostolica e il Magistero costante della Chiesa riassunti nel Diritto Pubblico Ecclesiastico (7).
La dottrina cattolica ha sempre insegnata la subordinazione dello Stato alla Chiesa, come del corpo all’anima. Essa ha conosciuto delle sfumature accidentali: potere diretto in (nelle cose spirituali) e indiretto in temporalibus ratione spiritualibus peccati (sulle cose temporali a motivo del peccato, cioè sotto il profilo morale) oppure potere diretto anche in temporalibus, ma non esercitato e dato al Principe temporale dal Pontefice romano (plenitudo potestatis). Mai, però, dalla nascita dello Stato cristiano nessun Papa, Padre ecclesiastico, Dottore della Chiesa, teologo o canonista approvato dalla Chiesa ha insegnato la separazione tra Stato e Chiesa, che, al contrario, è sempre stata condannata.
Invece, la Dignitatis humanae (d’ora in poi ‘DH’) insegna che l’uomo ha “diritto alla libertà religiosa […] privatamente [e fin qui nulla da obiettare: si tratta del ‘foro interno’ che riguarda solo l’uomo e Dio e non lo Stato] e in pubblico sia da solo sia associato ad altri [e qui casca l’asino, perché in ‘foro esterno’ non si ha il “diritto” di professare l’errore in pubblico, si può parlare occorrendo di tolleranza, mai di diritto]. […]. È necessario che a tutti i cittadini e a tutte le comunità religiose venga riconosciuto il diritto alla libertà in materia religiosa. […] Libertà religiosa che deve essere riconosciuta come un diritto a tutti gli uomini e a tutte le comunità e che deve essere sancita nell’ordinamento giuridico [ecco la rottura totale con il ‘Diritto Pubblico Ecclesiastico’ da papa Gelasio sino a Pio XII!]” (‘DH’, n. 2, 3, 6 e 13).
PIO IX nella Quanta cura (8 dicembre 1864) ha definito esplicitamente che la libertà religiosa in foro esterno per le false religioni “è contraria alla dottrina della S. Scrittura, della Chiesa e dei Santi Padri ecclesiastici” e che “lo Stato ha il dovere di reprimere i violatori della Religione cattolica con pene specifiche”. Quindi non è lecito affermare che la libertà religiosa della ‘DH’ è accettabile nella quasi totalità.
Altra evidente rottura con la dottrina tradizionale
Anche la Dichiarazione su “Le relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane” Nostra aetate (7 dicembre 1965) è in rottura palese con la Tradizione cattolica (Padri ecclesiastici e Magistero sino a Pio XII (8)). La Tradizione cattolica è una delle due Fonti della Rivelazione, è la parola di Dio trasmessa a viva voce e a noi pervenuta attraverso l’insegnamento moralmente unanime dei Padri. La Tradizione è infallibile – quando parla di Fede e Costumi, Vita spirituale e Salvezza eterna (9) – così come lo è il Magistero ordinario costantemente ripetuto semper idem. Invece Nostra aetate ha un valore unicamente prudenziale o “pastorale” di applicazione di una dottrina al caso pratico e quindi non è né infallibile, né irreformabile e, nel caso essendo in palese rottura o difformità con la Tradizione deve essere corretta e riformata. Per cominciare, il Dio degli Ebrei non è quello dei Cristiani che è la SS. Trinità di cui Gesù Cristo è la Seconda Persona incarnata nel seno della Vergine Maria per opera dello Spirito Santo. Questi due dogmi principali del Cristianesimo, per l’Ebraismo attuale o post-biblico (che non è l’Antico Testamento, ma il talmudismo rabbinico), sono la bestemmia, per la quale Cristo fu crocifisso “poiché da uomo si faceva Dio” (cfr. Gv., X, 33) e S. Stefano fu lapidato.
“NA” invece fa passare tutti coloro che discendono carnalmente da Abramo (tranne gli Arabi) come aventi legami spirituali o di fede con la Chiesa cristiana. Le cose non stanno così: la maggior parte dei figli d’Abramo secondo la carne tuttora non crede alla divinità di Cristo; solo “un piccolo resto” (Rom., IX, 27; XI, 15) lo ha accettato come Dio e Messia.
Al n. 4e, “NA” insegna: “Secondo s. Paolo gli ebrei, in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento”. Abbiamo già confutato questo sofisma: S. Paolo dice solo che la vocazione da parte di Dio non muta (“Ego sum Dominus et non mutor”), ma può cambiare o venir meno la risposta umana alla chiamata di Dio, com’è stato per la maggior parte del popolo d’Israele, che ha malamente corrisposto alla vocazione e ai doni di Dio, uccidendo i Profeti e Cristo stesso; onde sono “cari a Dio”, ossia stanno in grazia di Dio, solo coloro che hanno accettato Cristo venuto (NT), come lo avevano accettato venturo i loro padri nell’AT.
Al n.° 4g la Dichiarazione conciliare scrive: “La morte di Cristo è dovuta ai peccati di tutti gli uomini. E, se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi, né agli ebrei del nostro tempo”.
Occorre fare alcune distinzioni omesse dal testo conciliare: Cristo è morto (causa finale) per riscattare i peccati di tutti gli uomini, però la causa storica, efficiente e responsabile, della morte di Cristo non furono i peccati degli uomini, ma il giudaismo farisaico o rabbinico, che, negando la divinità di Cristo, lo condannò a morte e fece eseguire la sentenza dai romani.
Nella morte di Cristo è implicata la comunità religiosa dell’Israele post-biblico e non tutta la stirpe israelitica perché un “piccolo resto” fu fedele a Cristo (gli Apostoli e i Discepoli), anche se la maggior parte del popolo prese parte attiva alla condanna di Gesù.
Il consenso unanime dei Padri è regola di fede perché essi sono l’organo che trasmette la tradizione divino-apostolica, vale a dire che è stato rivelato da Dio e consegnato agli Apostoli ciò che i Padri ecclesiastici insegnano con consenso moralmente unanime in materia di fede e di morale (non è necessario il consenso assoluto o matematico).
Nel nostro caso i Padri (da S. Ignazio d’Antiochia †107 sino a S. Agostino †430; passando per S. Giustino †163, S. Ireneo †200, Tertulliano †240, S. Ippolito di Roma †237, S. Cipriano †258, Lattanzio †300, S. Atanasio †373, S. Ilario di Poitiers †387, S. Gregorio Nazianzeno †389, S. Ambrogio di Milano †397, S. Cirillo d’Alessandria †444) sono non solo moralmente, ma anche matematicamente concordi nell’insegnare che la parte infedele a Cristo del popolo ebraico, ossia il giudaismo farisaico, fu responsabile, come causa storica efficiente, della morte di Cristo e ha dato luogo ad una religione scismatica ed eretica, il talmudismo, che si distacca dal mosaismo e che ancor oggi rifiuta la divinità di Cristo e lo condanna poiché da uomo ha preteso di farsi Dio.
Occorre poi distinguere il grado di responsabilità.
I capi sapevano chiaramente, come insegna S. Tommaso d’Aquino (S. Th., III, q. 47, a. 5, 6; S. Th., II-II, q. 2, a. 7, 8), che Gesù era il Messia e volevano ignorare o non ammettere che era Dio: ignoranza affettata che aggrava la colpevolezza.
Il popolo, che nella maggior parte ha seguito i capi pur avendo visto i miracoli di Cristo, ha avuto un’ignoranza vincibile, ma anche l’attenuante di aver seguito l’autorità del sommo sacerdote, del sinedrio, dei capi; il suo peccato, perciò, è grave in sé, ma è in parte diminuito non cancellato totalmente, da un’ignoranza non affettata (S. Th., ut supra) e dalla fiducia nelle autorità religiose del tempo.
Infine il giudaismo odierno, pur non avendo partecipato direttamente alla condanna storica di Gesù, poiché si ostina tuttora a non riconoscerlo quale Messia e Figlio di Dio, è moralmente solidale con il giudaismo rabbinico, che Lo giudicò degno di morte quale sacrilego impostore.
“NA” n.4h scrive: «gli ebrei non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla Scrittura».
Innanzi tutto “NA” è equivoca quando usa la semplice parola “ebrei” per parlare della stirpe di Abramo che ha un “così grande patrimonio spirituale comune” con la Chiesa di Cristo.
Occorre, infatti, distinguere il giudaismo dell’AT dal giudaismo rabbinico post-cristiano. Il primo (AT) è una preparazione del cristianesimo; il secondo invece ha negato la messianicità e la divinità di Gesù e Lo continua a rifiutare, per cui non vi è nessun “patrimonio comune”, ma un’opposizione di contraddizione tra cristianesimo e giudaismo attuale.
L’Antica Alleanza inoltre non era incondizionata (Dt., XI, 1-28), ma vincolata all’obbedienza del popolo d’Israele e Mosè ricevette da Dio le condizioni del patto: “Io vi offro benedizioni e maledizioni. Benedizioni se obbedite ai comandamenti divini… maledizioni se disobbedite” (Dt., XI, 28). L’alleanza, dunque, dipendeva anche dal comportamento d’Israele e Dio minaccia più volte di romperla a causa delle infedeltà del popolo ebreo che Egli vorrebbe perfino distruggere (Dt., XXVIII; Lev., XXVI, 14 ss.; Ier., XXVI, 4-6; Os., VII, 8 e IX, 6). Con la morte di Cristo l’infedeltà della maggioranza del popolo ebreo verso il Redentore e l’AT che Lo annunciava raggiunge il culmine e il perdono di Dio si restringe solo ad “un piccolo resto” fedele. Da parte di Dio non vi è rottura del suo piano, ma solo sviluppo e perfezionamento dell’Alleanza primitiva o antica nell’Alleanza nuova e definitiva, che darà ai giudei fedeli un “cuore nuovo” e si aprirà all’umanità intera…
Da notare che la Dichiarazione Nostra aetate non reca a suo sostegno una sola citazione di un Padre della Chiesa, di un Papa o di un pronunciamento del Magistero e con ragione, perché non ve ne sono. Come si può allora dire che essa è accettabile nella quasi totalità?
Sembra che gli ebrei attuali si rendano conto più dei cattolici del carattere rivoluzionario del Concilio e particolarmente di Nostra aetate. Basti pensare all’intimazione rivolta al Vaticano dal rabbino capo di Roma: se la riconciliazione con i cattolici fedeli alla Tradizione “significasse la rinuncia alle aperture del Concilio, la Chiesa dovrebbe decidere: o loro o noi!” (26 gennaio 2010). Il 10 novembre 2011 il rabbino responsabile del dialogo interreligioso per l’American Jewish Commitee precisava che l’accettazione, almeno pratica, di Nostra aetate “è richiesta per ogni riconciliazione” e, dopo l’udienza accordata dal Papa al Consiglio dei Capi religiosi di Israele, affermava di aver ricevuto assicurazioni in questo senso dal card. Knox.
Che Dio salvi la Sua Chiesa dagli uomini di Chiesa e i cattolici ancora fedeli da ogni illusione colpevole o incolpevole!
una domanda che da sempre mi assilla è questa: ma come facevano, come hanno fatto, tutti quei signori dottori e vescovi e cardinali citati in testa all’articolo, a credere che fosse ancora la Chiesa cattolica, e Paolo Vi il suo papa, quella alla quale chiedevano di “correggere o abrogare gli errori e le ambiguità rilevate nei testi del Concilio” e nella messa del Novus Ordo ( cfr Breve Esame Critico del Card. Ottaviani)??? Ma non aveva insegnato anche a loro il catechismo, come quello in mano ai bambini della prima comunuone – anni 8! – che la Chiesa, e il suo papa, non possono errare in materia di fede, e che al loro insegnamento si deve obbedienza, non riserve o appunti critici ?
O tutto l’insegnamento precedente era solo una colossale boutade, e peggio per chi ci aveva creduto?