di Luca Fumagalli

L'isola perduta

L’isola del dottor Moreau, pubblicato per la prima volta nel lontanissimo 1896, è uno dei romanzi più famosi di H. G. Wells. Scritto sull’onda del crescente fascino suscitato del genere gotico in Inghilterra – segnale delle piccole crepe che stavano attraversando l’edificio della fastosità vittoriana e sinistro presagio dell’imminente catastrofe europea – il libro è diventato col tempo uno dei classici della distopia scientifica, un gioiellino che non ha mancato di ispirare più di una pellicola cinematografica.

Dopo i film del 1933 e del 1977 – a cui è da aggiungere il prodotto televisivo Dr. Moreau’s House of Pain (2004) – John Frankenheimer ne diresse nel 1996 un adattamento in chiave contemporanea intitolato L’isola perduta.

Edward Douglas (David Thewlis), un funzionario dell’ONU salvato da un incidente, viene condotto da Montgomery (Val Kilmer) nell’isola dove lavora il dottor Moreau (Marlon Brando), esperto in genetica e premio Nobel. Il lavoro per Moreau è una specie di missione: il suo traguardo è quello di migliorare il genere umano creando, attraverso esperimenti di manipolazione genetica tra uomini e animali, una nuova razza. I risultati, però, sono deludenti e spaventosi: quando le povere creature disubbidiranno ai comandamenti di Moreau ed in loro avrà il sopravvento l’istinto animale, l’isola verrà messa a soqquadro.

Il film – che non ha avuto successo di pubblico ed è stato stroncato dalla critica – è, nell’insieme, un convincente manifesto contro la cieca fiducia nei confronti del progresso e della scienza, considerate alla stregua di divinità. La narrazione verte infatti sulle responsabilità dello scienziato di fronte al bivio tra esigenze di ricerca e morale. Il dottor Moreau, in questo senso, incarna l’ “umanista” moderno, così disgustato da qualsiasi forma di dipendenza che si immagina (illudendosi) artefice di se stesso, egocentrico e, come esito ultimo, pericoloso per sé e per gli altri. Crede di poter cambiare l’ordine delle cose ma, infine, dovrà soccombere a quel lato oscuro, a quel “Signore delle mosche” – per citare l’omonimo romanzo di Golding – che alberga nel cuore degli uomini e che Moreau tenterà inutilmente di eliminare a colpi di operazioni chirurgiche e iniezioni di ormoni.

Il pessimismo di Wells nel vedere l’inevitabile trionfo del lato animale su quello razionale è tradotto più che dignitosamente nella pellicola di Frankenheimer grazie soprattutto a certi effettacci da grand-guignol (comunque affascinanti) e all’ottima interpretazione di Marlon Brando che, son la sua solo presenza, risolleva di molto un film che, dal punto di vista puramente tecnico, risulta appena sufficiente.

PS Si consiglia la visione della pellicola a un pubblico adulto.