L’Osservatore Romano del 2 dicembre 2011 ha pubblicato uno studio di Mons. Fernando Ocáriz [Opus Dei], uno dei quattro esperti che hanno rappresentato la Santa Sede negli ultimi colloqui dottrinali con la Fraternità San Pio X (da ottobre 2009 ad aprile 2011). In esso si affronta in tutta chiarezza (§1), ma in una maniera che rimane del tutto insufficiente (§2), la questione centrale del valore magisteriale del Concilio Vaticano II.
Nella prima parte del suo studio, il prelato spagnolo ricapitola le nozioni fondamentali già ricordate da Pio XII nella Humani generis [1]: il fatto che un atto del magistero della Chiesa non sia garantito dal carisma dell’infallibilità, proprio delle definizioni solenni, non significa che esso possa essere considerato «fallibile», nel senso che trasmetterebbe una «dottrina provvisoria» o anche delle «autorevoli opinioni». In senso lato questo significa che, quando non dà delle definizioni solenni e infallibili, il magistero è sempre assistito da Dio, e questa assistenza è necessaria per assicurare la trasmissione indefettibile del deposito della fede. In questo senso anche il semplice magistero ordinario beneficia di un certo carisma di verità [2]. L’infallibilità del magistero deve dunque estendersi in senso analogo, cioè a gradi diversi [3].
Ne deriva evidentemente che anche l’adesione dovuta alla verità proposta dal magistero si intende in modi diversi. Le definizioni solenni infallibili propongono ordinariamente, come tali, delle verità formalmente rivelate, alle quali è dovuto un assenso di fede teologale. Gli altri insegnamenti non definitori, per la verità proposta richiedono una adesione intellettuale indicata come assenso religioso interno, che comporta, oltre all’assenso nei confronti della verità propriamente detta, una certa parte di obbedienza nei confronti dell’autorità magisteriale. Infine, gli atti magisteriali possono contenere elementi che, non costituendo materia d’insegnamento propriamente detto, in quanto tali non esigono alcuna adesione.
2. UNA PROBLEMATICA INSUFFICIENTE
Questi richiami generali non presenterebbero alcuna difficoltà, se Mons. Ocáriz non li applicasse agli insegnamenti del Vaticano II. Infatti, secondo lui, anche se l’ultimo concilio non ha voluto definire alcun dogma, il carisma della verità e l’autorità magisteriale vi furono certamente presenti, al punto che il negarle all’insieme dell’episcopato riunito cum Petro et sub Petro per dare un insegnamento alla Chiesa universale, significherebbe negare una parte dell’essenza stessa della Chiesa. Di modo che, le affermazioni del Concilio che richiamano delle verità di fede richiedono evidentemente l’adesione di fede teologale, non perché siano state insegnate da questo Concilio, ma perché erano già state insegnate come tali in maniera infallibile dalla Chiesa, sia in virtù di una decisione solenne, sia col magistero ordinario e universale. Lo stesso assenso pieno e definitivo è richiesto per le altre dottrine richiamate dal Concilio e già proposte con un atto definitivo dai precedenti interventi magisteriali. Gli altri insegnamenti dottrinali del Concilio richiedono dai fedeli l’assenso religioso della volontà e dell’intelligenza.
Senza dubbio, ci si potrebbe felicitare nel vedere infine un teologo della Santa Sede introdurre tutte queste sfumature e con questo opporre il diniego più formale, quantunque implicito, a tutte le esposizioni unilaterali che fino ad oggi hanno presentato il Concilio Vaticano II in un’ottica massimalista, come fosse un dogma assolutamente intoccabile, «ancora più importante di quello di Nicea» [4]. Tuttavia, per quanto sia seducente per le sfumature e le distinzioni apportate, una simile analisi veicola alla sua radice un postulato che è lungi dall’essere evidente. In questo modo, lo studio di Mons. Ocáriz evita di rispondere alla domanda cruciale, rimasta ancora pendente tra la Fraternità San Pio X e la Santa Sede. Più esattamente, agli occhi del prelato dell’Opus Dei sembra che la risposta a questa domanda sia del tutto implicita, come se non fosse mai stato necessario affrontare la questione o come se non si fosse mai svolto alcun dibattito.
Esso invece si impone più che mai. Infatti, è lungi dall’essere evidente che il carisma della verità e l’autorità del magistero siano stati sicuramente presenti nell’ultimo concilio e che l’insieme dell’episcopato riunito cum petro et sub Petro abbia beneficiato dei lumi dello Spirito Santo per insegnare alla Chiesa universale. Che lo si voglia o no, non è scontato che l’ultimo concilio possa imporsi agli occhi dei cattolici, in tutto e per tutto come l’esercizio di un vero magistero, tale da richiedere la loro adesione ai diversi gradi indicati. Infatti, noi lo neghiamo, per delle ragioni seriamente fondate. In effetti, se si richiama la definizione tradizionale di magistero (§ 3-5) si è proprio obbligati a constatare che le procedure del Vaticano II non vi si conformano (§ 6-7). Tanto più che questa novità integrale del 21° concilio ecumenico si spiega in profondità in ragione di presupposti assolutamente inediti (§ 8-12).
3. LA RAGION D’ESSERE DEL MAGISTERO
L’unità della Chiesa e l’unità nella fede sono inseparabili, e giustamente il magistero ha il compito di salvaguardarle. A questo fine gli è necessario il carisma della verità, come il mezzo richiesto perché si conservi il bene comune della Chiesa, che è il bene dell’unità nella professione di una stessa fede. È la ragione addotta dalla costituzione Pastor aeternus del Concilio Vaticano I: «Perciò questo carisma di verità e di fede, giammai indefettibile, è stato accordato da Dio a Pietro e ai suoi successori in questa Cattedra, perché […] dopo aver eliminato ciò che porta allo scisma, tutta la Chiesa si mantenesse una» [5]. Allo stesso modo, San Tommaso spiega perché il papa, quando insegna il dogma, dev’essere divinamente assistito, e dev’esserlo precisamente in quanto agisce come capo, per salvaguardare l’unità della Chiesa: « E la ragione di ciò sta nel fatto che la Chiesa deve avere un’unica fede, secondo l’ammonimento di S. Paolo (1 Cor, 1, 10): “Dite tutti la stessa cosa, e non ci siano tra voi degli scismi”. Ma questo non si può osservare se, quando sorge una questione di fede, non viene definita da chi presiede su tutta la Chiesa, in modo che la sua decisione sia accettata dalla Chiesa intera con fermo consenso» [6]. È questa dunque la causa finale dell’attività del magistero, che spiega la sua indefettibilità nella fede. Il magistero è assistito da Dio nella misura in cui deve assicurare l’unità della Chiesa, che è l’unità della professione comune della fede. Questa assistenza non è dunque assoluta, ma limitata: essa accompagna la trasmissione della Rivelazione e non altro. Cristo ha detto ai suoi Apostoli che lo Spirito Santo li avrebbe assistiti per insegnare tutto ciò che Lui stesso aveva insegnato loro, né più, né meno [7].
Dunque, lungi dal costituire la dottrina, l’atto del magistero non fa altro che conservarla e dichiararla [8]: il magistero si definisce come tale in dipendenza oggettiva della rivelazione divina, di cui deve assicurare la trasmissione. Al momento dei dibattiti che precedettero l’adozione della costituzione Lumen gentium, i principali rappresentanti del «Coetus internationalis patrum», fra cui Mons. Lefebvre, proposero un emendamento significativo [9]. Questa modifica del testo dava ad intendere che, se le definizioni del romano pontefice sono irreformabili per se stesse e non perché la Chiesa darebbe loro l’assenso, è perché l’assistenza dello Spirito Santo non permette che esse possano mai contraddire la fede comune della Chiesa o allontanarsi da essa. La ragione di questo emendamento era proprio quella di mostrare (soprattutto al cospetto degli scismatici orientali) che il papa non ha il potere di definire arbitrariamente ogni specie di verità, anche al di fuori del deposito della fede. In occasione del primo concilio del Vaticano, il relatore incaricato di spiegare, a nome della Santa Sede, l’esatto significato del testo della Pastor aeternus, insistette nello stesso senso: dal momento che l’esercizio del magistero ha per ragion d’essere il bene comune dell’unità della fede, l’assistenza è data al papa perché egli possa preservare la fede comune della Chiesa[10]. Come è stato giustamente fatto notare[11], se, per una falsa prospettiva, si perde di vista il giusto rapporto che fa dipendere il magistero dalla Tradizione oggettiva, il Deus revelans rischia di passare in secondo piano a vantaggio della custos et magistra. Il mezzo per evitare questo rischio consiste nel ricordare qual è la definizione essenziale del magistero: una potenza ordinata al suo oggetto.
Poiché l’unità di una potenza deriva da quella del suo oggetto, l’unità del magistero è quella della verità rivelata [12]. L’una richiama l’altra, poiché la dottrina rivelata è il principio e il fondamento degli insegnamenti magisteriali, come l’oggetto specifico di un atto.
4. L’UNITA’ DELLA VERITA’ E DELLA RIVELAZIONE
Nella spiegazione sviluppata da Aristotele e San Tommaso [13], l’unità, lungi dall’escludere la molteplicità, la suppone e la supera, perché stabilisce giustamente un legame che mette in relazione e in ordine, gli uni in rapporto agli altri, diversi elementi che entrano in composizione e che per ciò stesso cesseranno di costituire una moltitudine informe. Questa composizione è precisamente ciò che riassorbe la molteplicità nell’unità.
Come ha dimostrato il cardinale Franzelin [14], l’unità della verità rivelata e della Tradizione è per prima cosa e innanzi tutto l’unità di significato dei differenti dogmi, nell’espressione ordinata di una stessa verità. I dogmi sono distinti gli uni dagli altri, ma compongono un’unità, perché sono ordinati gli uni agli altri, nella misura in cui significano tutti in maniera complementare, gli uni in dipendenza degli altri, i differenti aspetti della stessa verità rivelata. E questo si spiega perché questa verità rivelata da Dio suppone il principio stesso di ogni verità, che è il principio di non contraddizione, il principio di non divisione a livello di significato, il principio dell’unità della verità. Questa unità della verità dogmatica passa per l’unità di significato delle parole che esprimono la verità.
È per questo che nella costituzione Dei Filius, il concilio Vaticano I afferma: «il senso dei sacri dogmi che deve sempre essere conservato è quello che la santa Madre Chiesa ha determinato una volta per tutte e non bisogna mai allontanarsi da esso sotto il pretesto e in nome di una intelligenza più profonda» [15]. E nel Giuramento antimodernista di San Pio X, al n° 4, è anche detto: «accolgo sinceramente la dottrina della fede trasmessa a noi dagli Apostoli per mezzo dei padri ortodossi, nello stesso senso e sempre nello stesso contenuto; e per questo respingo totalmente l’eretica invenzione dell’evoluzione dei dogmi, che passano da un significato ad un altro, diverso da quello che prima riteneva la Chiesa» [16].
5. L’UNITA’ DEL MAGISTERO
L’oggetto della fede è la verità ontologica, cioè la realtà stessa del mistero, come viene colta dai credenti tramite concetti ed espressioni verbali[17]. L’oggetto della rivelazione è la verità logica, cioè l’enunciazione concettuale del mistero, la cui espressione (o il segno verbale esteriore, scritto o orale) è il dogma. La predicazione del magistero o la tradizione è la comunicazione di questa rivelazione attuata con un linguaggio esteriore (scritto o orale) che esprime l’enunciazione concettuale del mistero. La rivelazione e la tradizione hanno per oggetto il fornire al fedele i concetti e le espressioni verbali per mezzo delle quali il suo atto di fede giungerà alla realtà del mistero. Il deposito della fede è l’insieme di queste espressioni concettuali e verbali. Questo deposito, affidato alla custodia del magistero, è sostanzialmente immutabile nel suo significato. Dunque, il magistero non può contraddire la rivelazione, proponendo delle verità il cui senso non sarebbe quello voluto da Dio. E nemmeno può contraddire se stesso, proponendo delle verità il cui senso sarebbe contrario a quello delle verità che esso stesso ha già proposto. Questo resta vero anche se l’espressione concettuale o verbale della verità rivelata può guadagnare in precisione e perfino quando il magistero esercita la sua azione per proporre delle formule dogmatiche più esplicite, cosa questa che autorizza a parlare di un certo «progresso omogeneo del dogma». Queste espressioni dogmatiche, peraltro, finiscono col diventare definitive quando esprimono in maniera sufficientemente esplicita la verità rivelata. Questo è affermato da Pio XII in opposizione ai falsi postulati della nuova teologia [18]. La missione che ha per oggetto il dichiarare il deposito della fede, obbedisce alle stesse regole della missione che ha per oggetto il conservarlo, poiché ne è solo una conseguenza.
Ecco perché il magistero, definito per la dipendenza dal suo oggetto, è costante o tradizionale: tale costanza corrispondendo esattamente all’unità stessa del magistero, che deriva dal suo oggetto. L’unità del magistero è dunque quella di un insegnamento che propone sempre la stessa verità divinamente rivelata, dandole un significato immutato, anche se la sua espressione può guadagnare in precisione attraverso una formulazione concettuale e verbale più esplicita.
6. IL CASO DEL VATICANO II: UN NUOVO MAGISTERO PASTORALE
Il discorso d’apertura di papa Giovanni XXIII (11 ottobre 1962) [19], l’allocuzione dello stesso indirizzata al Sacro Collegio il 23 dicembre 1962 [20] e il discorso di Benedetto XVI del 22 dicembre 2005 [21] indicano chiaramente l’intenzione del Concilio e il significato esatto di «magistero pastorale». Il Vaticano II ha voluto esprimere la fede della Chiesa secondo i modi di ricerca e di formulazione letteraria del pensiero moderno, e ha voluto ridefinire la relazione della fede della Chiesa nei confronti di certi elementi essenziali di tale pensiero.
È del tutto evidente che il magistero della Chiesa è sempre pastorale nelle sue intenzioni, nel senso che in ogni epoca storica la prudenza dei pastori propone la verità per guidare le anime verso la salvezza eterna. Ma, al tempo stesso, l’insegnamento del magistero della Chiesa resta sempre di natura strettamente dottrinale e disciplinare nel suo oggetto. Le dichiarazioni di Giovanni XXIII affermano chiaramente che, a differenza di tutti i concili precedenti, il Vaticano II ha voluto essere pastorale fin nel suo oggetto. Anche se questo concilio ha potuto prendere per oggetto materiale di studio dei punti differenti sia dottrinali, sia disciplinari, sia pastorali, l’ottica unica e specifica secondo la quale ha voluto considerare tutti questi punti, vale a dire il suo oggetto formale, non fu dottrinale, ma pastorale, in un senso fondamentalmente nuovo. Cosa che spiega, peraltro, la perplessità di un gran numero di padri conciliari al cospetto di un genere di testi sconosciuto fino ad allora. Quando il magistero della Chiesa propone l’oggetto della fede ricorrendo al linguaggio tratto dalla filosofia naturale all’intelligenza umana [22], questo apporto filosofico è quello di uno strumento concettuale e verbale posto al servizio della più perfetta espressione delle verità rivelate. Il Vaticano II ha voluto «studiare ed esporre la dottrina», non solo «secondo le formulazioni letterarie», ma anche «secondo i modi di ricerca del pensiero moderno». Se ci si attiene a questa intenzione espressa da Giovanni XXIII, si è obbligati a dire che il Concilio ha voluto ricorrere al pensiero moderno, non solo come ad uno strumento, ma anche e soprattutto come ad un vero oggetto formale, principio e metodo per lo studio e per l’esposizione della dottrina. È qui che il «pastorale» assume tutto il suo significato. L’intenzione esplicita del Vaticano II è stata quella di ricevere dal mondo le problematiche nuove sorte nell’epoca moderna.
Come prova supplementare possiamo prendere ciò che ha scritto il card. Ratzinger nel suo libro Les principes de la théologie catholique [23], pubblicato in francese nel 1982. L’epilogo di questo libro è intitolato: «La Chiesa e il mondo: a proposito della questione della ricezione del Concilio Vaticano II»[24]. Il Prefetto della fede vi afferma: «Di tutti i testi del Concilio Vaticano II, la costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (Gaudium et spes) è stata incontestabilmente la più difficile e anche […] la più gravida di conseguenze. Per la sua forma e la direzione delle sue dichiarazioni, essa si allontana in larga misura dalla linea della storia dei concilii e per ciò stesso permette, più di tutti gli altri testi, di cogliere la speciale fisionomia dell’ultimo concilio. È per questo che, dopo il Concilio, è stata considerata sempre di più come il suo vero testamento: dopo un processo di fermentazione di tre anni, sembra che la sua vera volontà sia infine apparsa e abbia trovato la sua forma. L’incertezza che pesa ancora sulla questione del vero significato del Vaticano II è in rapporto con delle diagnosi di questo genere e dunque in rapporto con questo documento» [25]. […] «Ancora una volta, dobbiamo interrogarci su ciò che la costituzione pastorale comporta precisamente di nuovo e di speciale […] un primo punto caratteristico mi sembra consista nel concetto di “mondo” che vi si trova. […] La costituzione intende per “mondo” un dirimpettaio della Chiesa. Il testo deve servire a condurre entrambi ad un rapporto positivo di cooperazione, il cui scopo è la costruzione del “mondo”. La Chiesa coopera col “mondo” per costruire il “mondo” – è così che si potrebbe caratterizzare la visione determinante del testo. […] Sembra che per mondo si intenda l’insieme delle realtà scientifiche e tecniche del tempo presente, e tutti gli uomini che le sostengono o le hanno assimilate nella loro mentalità»[26]. Nessuna sorpresa quindi quando il card. Ratzinger dice ancora: «Il testo di Gaudium et spes svolge il ruolo di un contro-Syllabus nella misura in cui rappresenta un tentativo per una riconciliazione ufficiale della Chiesa col mondo, così com’esso era divenuto dal 1789»[27]. O anche: «Il Vaticano II aveva ragione di auspicare una revisione dei rapporti tra la Chiesa e il mondo. Ci sono dei valori che, anche se nati fuori dalla Chiesa, possono trovare il loro posto – purché vagliati e corretti – nella sua visione» [28]. Fondato sul metodo di ricerca del pensiero moderno, il Concilio dà necessariamente degli insegnamenti che lo rendono dipendente dal mondo moderno.
Senza dubbio, il mondo moderno può essere indotto a porsi in maniera nuova certe questioni eterne, alle quali la Chiesa apporterà (forse in termini più espliciti) delle risposte che derivano sempre dagli stessi principi e dallo stesso metodo. Ma il Vaticano II non ha esaminato alla luce della fede le nuove questioni sollevate dalla modernità, al contrario, ha perfino rifiutato esplicitamente di esaminarne un buon numero, la cui importanza era invece riconosciuta da tutti i cattolici, come la questione del comunismo. La specificità che fa del Vaticano II un caso assolutamente unico è quella di aver voluto proporre la fede alla luce e secondo il modo di pensare moderno. Ora, nessun concilio potrebbe far suoi questi modi di ricerca del pensiero o della cultura del mondo moderno, «com’esso era divenuto dal 1789» [29]. I principi e il metodo del magistero ecclesiastico sono stati sufficientemente indicati dal concilio Vaticano I: «La dottrina della fede, che Dio ha rivelato, non è stata proposta all’intelligenza umana come un sistema filosofico da perfezionare, ma, come un divino deposito, è stata affidata alla Chiesa, sposa di Cristo, perché la custodisca fedelmente e infallibilmente la proclami» [30]. La conseguenza è indicata da Pio XII, nell’enciclica Humani generis: «è massima imprudenza il trascurare o respingere o privare del loro valore i concetti e le espressioni che da persone di non comune ingegno e santità, sotto la vigilanza del sacro Magistero e non senza illuminazione e guida dello Spirito Santo, sono state più volte con lavoro secolare trovate e perfezionate per esprimere sempre più accuratamente le verità della fede, e sostituirvi nozioni ipotetiche ed espressioni fluttuanti e vaghe della nuova filosofia, le quali, a somiglianza dell’erba dei campi, oggi vi sono e domani seccano; a questo modo si rende lo stesso dogma simile a una canna agitata dal vento».
D’altra parte, proponendosi di esprimere la fede secondo i modi di ricerca del pensiero moderno, il Concilio non voleva indirizzarsi primariamente ai cattolici, ma all’uomo moderno in generale. Ma nel darsi un tale uditorio, il Concilio rinunciava per ciò stesso ad esporre formalmente la fede con l’autorità di un magistero propriamente detto, che parla a nome di Dio, poiché il suo interlocutore era per definizione refrattario o indifferente al messaggio della Chiesa. Il Vaticano II poteva pretendere solo di enunciare la fede in maniera del tutto materiale, secondo un procedimento affatto magisteriale, ma apologetico, e poteva proporsi di rendere la fede accettabile all’uomo moderno, mostrandogli che la verità rivelata non mette in causa le categorie del suo pensiero. Qui non giudichiamo l’efficacia apologetica di un tale procedimento (i fatti parlano da soli), sottolineiamo semplicemente la sua grande debolezza magisteriale.
Di conseguenza, è falso affermare, come fa Mons. Ocáriz, una costanza di metodo in virtù della quale i testi del Vaticano II chiarirebbero legittimamente quelli del magistero precedente al 1962. Infatti, da un lato, lo scopo del Vaticano II non era quello di riprendere e di precisare questi insegnamenti, e dall’altro, il Vaticano II ha voluto esprimere la fede secondo i principi e i metodi di un sistema filosofico contrario alla fede [31], non solo in questo o in quello dei suoi contenuti, ma fin nelle fondamenta, cioè nei suoi dubbi criteriologici. Pertanto, un tale sistema, non solo è incompatibile col cattolicesimo, ma si oppone direttamente alla metafisica naturale dell’intelligenza, rimettendo in questione la sua capacità di conoscere il vero. La filosofia moderna ha capovolto il rapporto tra il soggetto e l’oggetto, e per ciò stesso il rapporto tra l’uomo e Dio. Assumendo i modi di ricerca della modernità, il pensiero conciliare ha fatto suo questo capovolgimento, come dimostra chiaramente, per esempio, nella dichiarazione sulla libertà religiosa: il principio e il fondamento di questa dichiarazione non è altro che il primato della dignità ontologica sulla dignità morale, cioè il primato del soggetto sull’oggetto. Una simile inversione è assolutamente contraria al principio criteriologico supposto dalla rivelazione, dalla tradizione e dal magistero, cioè al principio dell’oggettività più realista. Un presupposto soggettivista non può servire di base ad una interpretazione che si propone di chiarire il senso e la portata di un magistero i cui presupposti oggettivi vengono radicalmente capovolti.
7. IL CASO DEL VATICANO II: DEGLI INSEGNAMENTI NUOVI CONTRARI ALLA TRADIZIONE
Almeno su quattro punti, gli insegnamenti del concilio Vaticano II sono in evidente contraddizione logica con gli enunciati del precedente magistero tradizionale, così che è impossibile interpretarli in conformità con gli altri insegnamenti già contenuti nei precedenti documenti del magistero ecclesiastico. Il Vaticano II ha dunque rotto l’unità del magistero, così come ha rotto l’unità del suo oggetto.
Questi quattro punti sono i seguenti.
La dottrina sulla libertà religiosa, così com’è espressa nel n° 2 della Dichiarazione Dignitatis humanae, contraddice gli insegnamenti di Gregorio XVI nella Mirari vos, e di Pio IX nella Quanta cura, come anche quelli di papa Leone XIII nella Immortali Dei e quelli di Pio XI nella Quas primas [32].
La dottrina sulla Chiesa, così com’è espressa nel n° 8 della costituzione Lumen gentium, contraddice gli insegnamenti del papa Pio XII nella Mystici corporis e nella Humani generis [33].
La dottrina sull’ecumenismo, così com’è espressa al n° 8 della Lumen gentium e al n° 3 del decreto Unitatis redintegratio, contraddice gli insegnamenti del papa Pio IX nelle proposizioni 16 e 17 del Syllabus, quelli di Leone XIII nella Satis cognitum e quelli del papa Pio XI nella Mortalium animos [34].
La dottrina sulla collegialità, così com’è espressa nel n° 22 della costituzione Lumen gentium, compreso il n° 3 della Nota praevia, contraddice gli insegnamenti del Concilio Vaticano I sull’unicità di soggetto del potere supremo nella Chiesa, contenuti nella costituzione Pastor aeternus.
Per di più [35], la riforma liturgica del 1969 ha prodotto la confezione di un Novus Ordo Missae che «rappresenta, nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino» [36].
La restaurazione del rito della Messa attuato da San Pio V aveva raggiunto il risultato di esplicitare gli aspetti della fede cattolica negati dall’eresia protestante. La riforma liturgica compiuta da Paolo VI ottenne il risultato di occultare questi stessi aspetti, proprio nello stesso tempo in cui risorgevano con forza accresciuta le eresie che avevano reso indispensabile l’esplicitazione di tali aspetti. Il Messale di Paolo VI, dunque, non è venuto a precisare quello di San Pio V, esso se n’è allontanato, nel senso che ha reso oscuro ed ambiguo ciò che il Messale di San Pio V aveva chiarificato e reso esplicito.
Se si obietta che la riforma liturgica di Paolo VI ha voluto esplicitare altri aspetti fino ad allora rimasti in ombra, rispondiamo che una nuova esplicitazione non può rimettere in discussione l’esplicitazione avvenuta prima, cosa che invece ha fatto il nuovo Messale del 1969, occultando gli aspetti della fede cattolica negati precisamente dalle eresie protestanti.
Sui quattro punti indicati, come nella riforma liturgica che ne è seguita, il Concilio Vaticano II presenta agli occhi del cattolico perplesso delle contraddizioni evidentemente inaccettabili. Presa nel suo insieme, la grande riforma del Vaticano II appare come uno strano amalgama, un sottile miscuglio di verità parziali e di errori già condannati [37]. Infettato dai principi del liberalismo e del modernismo, questo insegnamento presenta delle gravi deficienze. Queste impediscono sicuramente di guardare al Vaticano II come ad un concilio come gli altri, rappresentante l’espressione autorizzata della Tradizione oggettiva. Ed impedisce anche che si possa dire che l’ultimo Concilio si iscriva nell’unità del magistero di sempre.
8. UNA NUOVA PROBLEMATICA
In conformità col discorso del 2005, Mons. Ocáriz pone il principio di una «interpretazione unitaria», in base alla quale i testi del concilio Vaticano II e i documenti magisteriali precedenti dovrebbero chiarirsi reciprocamente. Non solo il concilio Vaticano II dev’essere interpretato alla luce dei documenti magisteriali precedenti, ma anche alcuni di questi ultimi si comprendono meglio alla luce del Vaticano II. L’interpretazione delle novità insegnate dal concilio Vaticano II deve dunque rigettare, come ha detto Benedetto XVI, «l’ermeneutica della discontinuità nei confronti della Tradizione, mentre deve affermare l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità». Si trova qui un nuovo vocabolario che esprime chiaramente una nuova problematica; quella che ispira tutto il ragionamento di Mons. Ocáriz.«Una caratteristica essenziale del magistero», egli scrive, «è la sua continuità e la sua omogeneità nel tempo».
Questo vocabolario è nuovo. Le idee che veicola anche. Se si parla di «continuità» o di «rottura», si dovrebbe trattare, in senso tradizionale, di una continuità o di una rottura oggettive, cioè tali in rapporto all’oggetto della predicazione della Chiesa. Parlare di continuità quindi significherebbe parlare dell’insieme delle verità rivelate come il magistero della Chiesa le conserva e le espone, dando loro lo stesso significato, e senza che la predicazione presente possa contraddire la predicazione passata. La rottura consisterebbe nell’arrecare danno al carattere immutabile della Tradizione oggettiva e quindi sarebbe sinonimo di contraddizione logica fra due enunciati i cui rispettivi significati non potrebbero sussistere simultaneamente.
Ma bisogna arrendersi all’evidenza e riconoscere che il termine «continuità» non ha affatto questo significato tradizionale negli attuali discorsi degli uomini di Chiesa. E precisamente si parla di continuità a proposito di un soggetto che evolve nel corso del tempo. Non si tratta della continuità di un oggetto, quella del dogma o della dottrina, che il Magistero della Chiesa esporrebbe oggi, dandogli lo stesso senso di un tempo. Si tratta della continuità dell’unico soggetto Chiesa. D’altronde, Benedetto XVI parla esattamente, non di continuità, ma «del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino». Al contrario, egli aggiunge subito, «L’ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare». Questo significa che la rottura deve situarsi allo stesso livello: una rottura tra due soggetti, nel senso che la Chiesa, l’unico soggetto del Popolo di Dio, non sarebbe più la stessa prima e dopo il Concilio.
9. UNA NUOVA CONCEZIONE DELL’UNITA’ DEL MAGISTERO
Questo nuovo discorso implica una nuova idea dell’unità del magistero. La continuità di cui si tratta è l’unità nel tempo, cioè attraverso i cambiamenti che misura il tempo, ed è innanzi tutto l’unità del soggetto, non quella dell’oggetto. Questo soggetto è la Chiesa, unico Popolo di Dio, cioè l’insieme di tutti i battezzati. Questo soggetto è il punto di riferimento che rende conto dell’unità della Tradizione.
L’istruzione Donum veritatis del 24 maggio 1990 [38], su cui si basa Mons. Ocáriz, sviluppa in dettaglio questo punto di vista. Col titolo «La verità dono di Dio al suo popolo», il primo capitolo di questo documento sviluppa l’idea già presente nel n° 12 di Lumen gentium, secondo il quale la conservazione e l’esplicitazione del deposito rivelato riguarderebbe l’intero Popolo di Dio, prima ancora di ogni distinzione gerarchica. I battezzati avrebbero in retaggio una funzione profetica, più fondamentale di quella magistrale propria degli Apostoli e dei loro successori. Il cardinale Ratzinger insiste su quest’idea, ai suoi occhi decisiva, nella Presentazione che fa dell’Istruzione Donum veritatis: «Considerando la struttura del documento, ci si sorprenderà di vedere che all’inizio non abbiamo posto il magistero, quanto il tema della verità come dono di Dio al suo popolo; la verità della fede non è donata all’individuo isolato (papa o vescovo), ma con essa Dio ha voluto dar vita ad una storia e ad una comunità. La verità risiede nel soggetto comunitario del Popolo di Dio, nella Chiesa». Del pari, Giovanni Paolo II, al n° 27 dell’Esortazione post-sinodale Pastores gregis, afferma: «Nella Chiesa, scuola del Dio vivente, vescovi e fedeli sono tutti condiscepoli e hanno tutti bisogno di essere istruiti dallo Spirito. I luoghi dove lo Spirito dona il suo insegnamento interiore sono veramente numerosi. Prima di tutto il cuore di ciascuno, poi la vita delle diverse Chiese particolari, ove appaiono e si fanno sentire i molteplici bisogni delle persone e delle diverse comunità ecclesiali, con dei linguaggi noti, ma anche con linguaggi diversi e nuovi» [39].
Qui manca la distinzione assolutamente necessaria tra destinatario e depositario-intermediario. L’intero Popolo di Dio, e molto più che il Popolo di Dio: tutti gli uomini senza eccezione, sono i destinatari della verità che deve salvarli. Ma solo alcuni individui isolati sono scelti tra gli uomini per essere i titolari di una funzione gerarchica e i depositari di questa verità, poiché è solo ad essi che è stata affidata in deposito con il compito di conservarla, e solo essi sono gli intermediari stabiliti da Dio per comunicare in suo nome la verità salutare. Vero è che la dichiarazione Mysterium Ecclesiae del 24 giugno 1973 [40], sulla quale anche si appoggia Mons. Ocáriz, dice che l’autorità del magistero è richiesta per assicurare l’unità sociale dell’espressione della fede [41]: a differenza di ciò che accade nel protestantesimo o nel modernismo di Alfred Loisy, condannato da San Pio X, il magistero è qui un’istituzione divina e solo esso è assistito da Dio per condurre il Popolo, indicandogli l’interpretazione autorizzata della Parola di Dio. Ma non dice che la funzione magisteriale è richiesta come quella di un depositario e di un intermediario, testimone privilegiato che, in quanto individuo isolato, ha ricevuto da Dio la verità della sua rivelazione con l’incarico di conservarla e di trasmetterla. E Donum veritatis non conferma forse su questo punto Mysterium Ecclesiae, dicendo che la verità di fede è un dono di Dio a tutto il Suo Popolo e che non è data all’individuo isolato (papa o vescovo), ma risiede nel soggetto comunitario del Popolo di Dio [42]?
Nel «Commento» pubblicato il 27 giugno 1994, allo scopo di precisare il senso della Lettera Apostolica Ordinatio sacerdotalis, apparsa il 22 maggio precedente, il cardinale Ratzinger esprime nettamente questa nuova concezione di magistero: «La Scrittura può divenire il fondamento di una vita solo se è affidata ad un soggetto vivente – quello stesso da cui essa è nata. Essa ha avuto la sua origine nel Popolo di Dio guidato dallo Spirito Santo, e questo Popolo, questo soggetto, non ha smesso di sussistere. Il Concilio Vaticano II ha espresso tutto questo nel modo seguente: “la Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura” (Dei Verbum, 9). […] Secondo la visione del Vaticano II, la Scrittura, la Tradizione e il magistero non devono essere considerate come tre realtà separate, ma la Scrittura, letta alla luce della Tradizione e vissuta nella fede dalla Chiesa, in questo contesto vitale si apre al suo pieno significato. Il magistero ha il compito di confermare questa interpretazione della Scrittura resa possibile dall’ascolto della Tradizione nella fede» [43]. In questo testo, il termine «Tradizione» è distinto da magistero ed indica la vita concreta del Popolo di Dio, cioè il contesto vitale al quale il magistero deve attingere come ad una fonte.
La catechesi dispensata da Benedetto XVI nel 2006, conferma ancora questa idea. All’origine la Chiesa deriva da una esperienza che gli Apostoli hanno vissuto con Cristo [44]. Prolungata nello spazio e nel tempo, questa esperienza suscita una comunione, che deve ricorrere al servizio del ministero apostolico per conservare la sua coesione spazio-temporale [45]. L’unità gerarchica, nel tempo e nello spazio, è una seconda unità che scaturisce da una prima unità più radicale, quella dell’esperienza comune. È così che la tradizione vivente, che è l’esperienza comune continuata nel tempo, precede e suscita la tradizione apostolica, che è il ministero continuato nel tempo come un servizio della comunione. Le due tradizioni resteranno sempre sincronizzate, e non si troverà mai la continuità dell’esperienza comune senza la continuità del ministero, poiché agli occhi di Benedetto XVI, la Chiesa non è una comunità puramente carismatica. E tuttavia, nella definizione che egli dà della Chiesa, vi è una anteriorità logica dell’esperienza comune in rapporto al ministero. Questa anteriorità è esattamente quella introdotta dall’Istruzione Donum veritatis: il Popolo di Dio depositario della verità precede in questo senso il magistero gerarchico. La Tradizione è allora intesa in un senso nuovo, come la continuità di una presenza attiva, quella di Gesù che vive nel suo Popolo [46]. Essa è compiuta dallo Spirito Santo ed espressa [47] grazie al servizio del ministero apostolico: «Questa permanente attualizzazione della presenza attiva di Gesù Signore nel suo popolo, operata dallo Spirito Santo ed espressa nella Chiesa attraverso il ministero apostolico e la comunione fraterna, è ciò che in senso teologico s’intende col termine Tradizione» [48]. Si tratta esattamente de «la comunione dei fedeli intorno ai legittimi Pastori nel corso della storia, una comunione che lo Spirito Santo alimenta assicurando il collegamento fra l’esperienza della fede apostolica, vissuta nell’originaria comunità dei discepoli, e l’esperienza attuale del Cristo nella sua Chiesa» [49].
In questa nuova ottica, non si dice più che il ruolo del magistero è di conservare e di trasmettere in nome di Dio il deposito delle verità rivelate da Cristo agli Apostoli. Si dice che il ruolo consiste nell’assicurare la coesione dell’esperienza comunitaria delle origini, di modo che la comunione di oggi continui la comunione di ieri. Il magistero è allora al servizio del soggetto Chiesa e il suo ruolo consiste nell’esplicitare in formule autorizzate le intuizioni preconcettuali del sensus fidei.
Non si può negare la realtà di questo sensus fidei. Esso equivale al consenso unanime e infallibile della credenza. Ma si tratta proprio del consenso della Chiesa discente. Questo deriva dall’infallibilità della Chiesa docente, che è la sua causa propria. Essendo la Chiesa una e santa nella fede, la credenza dei fedeli è indefettibilmente e solidarmente docile, nel tempo e nello spazio, all’insegnamento della gerarchia magisteriale. Indubbiamente si può parlare di un certo soggetto della Tradizione in senso passivo, che è un senso lato, e che corrisponde all’insieme di tutti i credenti, ma questo soggetto è tale come semplice testimone dell’insegnamento del magistero, e il consenso della Chiesa nella credenza possiede tutt’al più il valore di un segno che fa conoscere l’infallibilità dell’insegnamento che ha proposto a credere la verità creduta unanimemente. In questo senso, la professione di fede indefettibile della Chiesa discente rappresenta un luogo teologico, poiché è essa sola che manifesta bene delle verità proposte infallibilmente dalla predicazione orale del magistero ordinario universale. Ma questo genere di criterio resta il semplice segno dell’infallibilità dell’insegnamento, e non la sua causa. Farne una causa significa riprendere per sé l’errore condannato dal concilio Vaticano I, estendendolo al dominio particolare del potere di magistero: «questo primato [di giurisdizione] non è stato conferito immediatamente e direttamente allo stesso beato Pietro, ma alla sua Chiesa e, per mezzo di questa, a lui come suo ministro»[50]. Questo implica anche che una proposizione del magistero sarebbe infallibile solo nella misura in cui sarebbe accettata (anche antecedentemente) dal Popolo, il che contraddice formalmente la definizione enunciata infallibilmente dallo stesso concilio Vaticano I: «queste definizioni del vescovo di Roma sono irreformabili per se stesse, e non in virtù del consenso della Chiesa» [51].
10. UNA NUOVA CONCEZIONE DELL’UNITA’ DELLA VERITA’
Nell’ottica tradizionale, dove il punto di riferimento è quello dell’oggetto, l’unità del magistero è quella della verità rivelata, poiché il magistero si definisce come l’organo della Tradizione oggettiva. Per questo, l’atto del magistero non si definisce essenzialmente come un atto presente, in opposizione a un atto passato. Poiché il magistero si esercita, non in quanto è presente o attuale, ma in quanto esso esprime sempre lo stesso significato della stessa verità, in modo sempre più preciso. Questa espressione della verità, con l’esplicitazione che l’accompagna in eodem sensu, è di per sé intemporale. In questo senso, il magistero vivente non si riduce al magistero presente, in opposizione al magistero passato che sarebbe un magistero non vivente, o postumo. Se il magistero presente è vivente, anche il magistero passato lo è stato. Il tempo non ha alcuna incidenza diretta e immediata sull’oggetto né sull’atto del magistero che l’enuncia. Per appoggiare la sua critica agli insegnamenti del Vaticano II, Mons. Lefebvre richiama sempre, con grande precisione, non il «magistero passato», ma il «magistero di sempre», in altre parole il magistero costante. Il tempo attiene solo al soggetto che esercita l’atto del magistero, ed è in questo senso che si può distinguere tra regola lontana (il magistero passato) e regola prossima (il magistero presente) della fede.
Nella nuova ottica implicata dal discorso del 2005 e delucidata nei testi che abbiamo citati, il punto di riferimento non è più quello dell’oggetto. L’unità del magistero è quella «dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino». Il magistero si definisce come l’organo di una esperienza comune, vissuta dal Popolo di Dio sul filo del tempo. La continuità, allora, si basa nel soggetto della Chiesa che resta la stessa, indipendentemente dall’oggetto. Non è più il soggetto che si adatta all’oggetto, ma è l’oggetto che è detto continuo perché il soggetto che lo dice resta lo stesso. Il rinnovamento nella continuità di cui parla Benedetto XVI, consiste nello stabilire «il collegamento fra l’esperienza della fede apostolica, vissuta nell’originaria comunità dei discepoli, e l’esperienza attuale del Cristo nella sua Chiesa» [52]. Di fatto, questo rinnovamento non consiste nel proporre la stessa dottrina secondo un modo più esplicito, ma consiste nel cambiare la dottrina con i principi da essa implicati, col pretesto che questi principi (di cui si dice solo che sono «durevoli») devono trovare la loro applicazione in una materia contingente. È in questo senso che il Vaticano II si è proposto di stabilire «una nuova definizione della relazione fra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno», affinché la dottrina della fede fosse «presentata in maniera da corrispondere alle esigenze della nostra epoca» e «secondo i modi di ricerca e di formulazione letteraria del pensiero moderno». Dal momento che è lo stesso soggetto Chiesa che in questo modo adotta una posizione differente nei confronti del mondo uscito dalla modernità, il rinnovamento sarà quello di una continuità e non di una rottura.
Come insegna logicamente la Dichiarazione Mysterium Ecclesiae, se il magistero impone al Popolo di Dio le formule dogmatiche come tante forme differenti atte a tradurre un’esperienza vissuta sul filo del tempo e della contingenza, «questo non vuol dire che ciascuna di esse lo sia stata o lo resterà in pari misura». Un simile relativismo si scontra con l’insegnamento dato da Pio XII nella Humani generis [53], ma si armonizza con la nuova idea del magistero esposta nella Donum veritatis. D’altronde, il futuro Benedetto XVI ha giustificato lui stesso questa concezione relativista: «[L’insegnamento magisteriale] afferma – forse per la prima volta in maniera così chiara – che vi sono delle decisioni del magistero che non possono costituire l’ultima parola su una materia in quanto tale, ma una sostanziale stimolazione in rapporto al problema, e soprattutto una espressione di prudenza pastorale, una sorta di disposizione provvisoria. […] A questo proposito, si può guardare tanto alle dichiarazioni dei papi del secolo scorso sulla libertà religiosa quanto alle decisioni antimoderniste dell’inizio del secolo, in particolare alle decisioni della Commissione biblica dell’epoca. In quanto grido d’allarme di fronte agli adattamenti affrettati e superficiali, esse restano pienamente giustificate. […] Ma nei particolari relativi ai contenuti, dopo aver assolto al loro dovere pastorale in un preciso momento, esse sono superate »[54]. Questo relativismo si ritrova nel discorso del 22 dicembre 2005, che ragiona come se ogni decisione, per il fatto che appartiene alla storia, può riguardare solo una materia contingente e può esprimere una verità solamente relativa alle circostanze: «In questo processo di novità nella continuità dovevamo imparare a capire più concretamente di prima che le decisioni della Chiesa riguardanti cose contingenti – per esempio, certe forme concrete di liberalismo o di interpretazione liberale della Bibbia – dovevano necessariamente essere esse stesse contingenti, appunto perché riferite a una determinata realtà in se stessa mutevole».
Nel pensiero del papa, questo relativismo non è di ieri. Ancora teologo, Joseph Ratzinger si spiegava già a sufficienza su questo punto. «Non solo – scriveva nel 1972 – si deve dire che la storia dei dogmi, nel dominio della teologia cattolica, è fondamentalmente possibile, ma anche che ogni dogma che non venga elaborato come storia dei dogmi è inconcepibile» [55]; ed è per questo che «la formazione del concetto di tradizione nel cattolicesimo post-tridentino costituisce il più grande ostacolo ad una comprensione storica della realtà cristiana» [56]. In effetti, il concetto post-tridentino suppone che la rivelazione si sia conclusa con la morte dell’ultimo Apostolo e che da allora rimanga sostanzialmente immutabile nel suo significato. Ora, «l’assioma della fine della rivelazione con la morte dell’ultimo Apostolo», spiega Joseph Ratzinger, «era ed è, all’interno della teologia cattolica, uno dei principali ostacoli per la comprensione positiva e storica del cristianesimo: l’assioma così formulato non appartiene ai primi dati della coscienza cristiana»[57]. […] «Affermando che la rivelazione è chiusa con la morte dell’ultimo apostolo, si concepisce oggettivamente la rivelazione come un insieme di dottrine che Dio ha comunicato all’umanità. Questa comunicazione un certo giorno finisce, così i limiti di questo insieme di dottrine rivelate resterà fissato. Tutto ciò che viene dopo sarebbe solo la conseguenza di questa dottrina o la corruzione di essa» [58]. Ora, «non solo questa concezione si oppone ad una piena comprensione dello sviluppo storico del cristianesimo, ma è anche in contraddizione con i dati biblici»[59].
Tutto questo è perfettamente coerente se si ritiene che la Tradizione è: «la comunione dei fedeli intorno ai legittimi Pastori nel corso della storia, una comunione che lo Spirito Santo alimenta assicurando il collegamento fra l’esperienza della fede apostolica, vissuta nell’originaria comunità dei discepoli, e l’esperienza attuale del Cristo nella sua Chiesa» [60], o anche: «la storia dello Spirito che agisce nella storia della Chiesa attraverso la mediazione degli Apostoli e dei loro successori, in fedele continuità con l’esperienza delle origini» [61], o se si postula che «la Tradizione non è trasmissione di cose o di parole, una collezione di cose morte. La Tradizione è il fiume vivo che ci collega alle origini, il fiume vivo nel quale le origini sono sempre presenti. Il grande fiume che ci conduce al porto dell’eternità»[62], o se si decide che «la Tradizione apostolica non è una collezione di cose, di parole, come una bottiglia piena di cose morte; la Tradizione è il fiume della vita nuova che viene dalle origini, da Cristo fino a noi, e che ci fa partecipi della storia di Dio con l’umanità».
Ma se le acque di questo grande fiume ove si bagna la fede della Chiesa non restano sempre le stesse, avremo un bel problema a seguire Mons. Ocáriz nella ricerca di una «interpretazione unitaria», che soddisfi le esigenze del principio di non contraddizione.
11. IL NODO DEL DILEMMA
Nella logica del Vaticano II e del discorso del 2005, l’oggetto in quanto tale è relativo al soggetto. Nella logica del Vaticano I, e di tutto l’insegnamento tradizionale della Chiesa, il soggetto in quanto tale è relativo all’oggetto. Queste due logiche sono inconciliabili.
Il magistero, in qualunque epoca, deve rimanere l’organo del deposito della fede. Esso si snatura nella misura in cui altera questo deposito. È falso che dei principi divinamente rivelati ed esplicitati dal magistero anteriore non si imporrebbero più necessariamente, con la scusa che il soggetto Chiesa le vive diversamente attraverso le contingenze della storia o che il Popolo di Dio si trova indotto a stabilire una relazione nuova fra la fede e il mondo moderno. Dei principi che si applicano in materia contingente (come quelli che fondano tutta la dottrina sociale della Chiesa) non sono contingenti. Certo, l’immutabilità sostanziale della verità rivelata non è assoluta, poiché l’espressione concettuale e verbale di questa verità può guadagnare in precisione, ma questo progresso non comporta alcuna rimessa in questione del senso della verità, che diviene solamente più esplicita nella sua formulazione. I principi restano necessari, qualunque siano le diverse forme concrete della loro applicazione. Questa distinzione fra principi e forme concrete si rivela fittizia in ciò che riguarda la dottrina sociale della Chiesa, ed è vano che Benedetto XVI vi ricorra nel suo discorso del 2005 per legittimare la dichiarazione Dignitatis humanae.
Per tornare al Vaticano II, la questione fondamentale è sapere qual è il principio primo che deve servire da regola ultima per l’attività del magistero. È il dato oggettivo della rivelazione divina, com’esso si esprime nella sua sostanza definitiva attraverso il magistero di Cristo e degli Apostoli, al quale il magistero ecclesiastico non fa che succedere? È l’esperienza comunitaria del Popolo di Dio, depositario (e non solo destinatario) del dono della verità in quanto portatore del senso della fede? Nel primo caso, il magistero ecclesiastico è l’organo della Tradizione e dipende dal magistero divino-apostolico come dalla sua regola oggettiva; e allora la questione sta nel sapere se gli insegnamenti oggettivi del Concilio Vaticano II sono quelli di un magistero costante e di una Tradizione immutabile. Nel secondo caso, il magistero ecclesiastico è il portavoce federatore della coscienza comune del Popolo di Dio, incaricato di stabilire la coesione spazio-temporale dell’espressione del sensus fidei; e allora il Vaticano II è per il soggetto Chiesa il mezzo per esprimere in linguaggio concettuale il suo sensus fidei, vissuto e riattualizzato nel rispetto delle contingenze dell’epoca moderna.
12. ERMENEUTICA E REINTERPRETAZIONE
Agli occhi di Mons. Ocáriz, gli insegnamenti del Vaticano II rappresentano delle novità, «nel senso che esplicitano aspetti nuovi, fino a quel momento non ancora formulati dal magistero, ma che non contraddicono a livello dottrinale i documenti magisteriali precedenti». La giusta esegesi dei testi del Concilio, dunque, apparentemente presupporrebbe il principio di non contraddizione. Apparenza errata, poiché la non contraddizione non ha più lo stesso significato di prima.
Il magistero della Chiesa ha sempre inteso questo principio come un’assenza di contraddizione logica tra due enunciati oggettivi. La contraddizione logica è una opposizione che si stabilisce tra due proposizioni di cui l’una afferma e l’altra nega lo stesso predicato dello stesso soggetto. Il principio di non contraddizione esige che quando si determini questa opposizione, le due proposizioni non possono essere contemporaneamente vere. Questo principio è una legge dell’intelligenza e non fa che esprimere l’unità del suo oggetto. La fede, definendosi come adesione intellettiva alla verità proposta da Dio, verifica questo principio. Anche l’unità oggettiva della fede corrisponde all’assenza di contraddizione nei suoi enunciati dogmatici.
L’ermeneutica di Benedetto XVI intende questo principio in senso non più oggettivo, ma soggettivo, non più intellettualistico, ma volontaristico. L’assenza di contraddizione è sinonimo di continuità al livello del soggetto, mentre la contraddizione è sinonimo di rottura allo stesso livello. Il principio di continuità non esige per prima cosa e innanzi tutto l’unità della verità, ma l’unità del soggetto che si sviluppa e ingrandisce nel corso del tempo. È l’unità del Popolo di Dio, com’esso la vive nel momento presente, nel mondo di questo tempo, per riprendere il titolo suggestivo della costituzione pastorale Gaudium et spes. Unità che si esprime attraverso la sola parola autorizzata del magistero presente, proprio in quanto presente. Mons. Ocáriz lo sottolinea. «Un’interpretazione autentica dei testi conciliari può essere fatta soltanto dallo stesso magistero della Chiesa. Perciò nel lavoro teologico d’interpretazione dei passi che nei testi conciliari suscitino interrogativi o sembrino presentare difficoltà, è innanzitutto doveroso tener conto del senso in cui i successivi interventi magisteriali hanno inteso tali passi».
Non equivochiamo: il magistero che deve servire da regola di interpretazione è il nuovo magistero di questi tempi, com’è uscito dal Vaticano II. Non è il magistero di sempre. Come giustamente è stato fatto notare, il Vaticano II deve comprendersi alla luce del Vaticano II, reinterpretando nella sua logica di continuità soggettiva e vitale tutti gli insegnamenti del magistero costante.
Il magistero della Chiesa, fino ad oggi, non si era mai compromesso con una tale petizione di principio, è voluto sempre restare fedele alla sua missione di conservare il deposito. La sua principale difesa e illustrazione è sempre stata quella di riferirsi alle testimonianze della Tradizione oggettiva, unanime e costante. La sua espressione è sempre stata quella dell’unità della verità.
13. IL MAGISTERO E IL VATICANO II
La stessa parola «magistero» si usa in due sensi diversi: della persona che esercita il potere di magistero (il papa o i vescovi) e dell’atto del potere di magistero (una definizione infallibile o un insegnamento semplicemente autentico). La persona è il soggetto di una potenza o di una funzione, che per definizione è ordinato al suo oggetto. Per esempio, ogni uomo è dotato di una intelligenza speculativa, ordinata per natura alla conoscenza dei principi primi [63]. Questa funzione è o non è in maniera assoluta. Di contro, l’esercizio del magistero è l’uso della funzione: anche se la maggior parte del tempo quest’uso è corretto, è sempre possibile che il titolare di una funzione ne eserciti l’atto in maniera difettosa, cosa che equivale al non compiere quest’atto, perché un atto difettoso si definisce come una privazione. Per esempio, l’errore intellettuale o la falsità si definiscono come la privazione del rapporto che avrebbe dovuto esistere tra l’intelletto e la realtà.
Noi accettiamo senza discutere che il Vaticano II ha rappresentato il magistero della Chiesa, nel senso che il potere dei vescovi allora riuniti in questo Concilio cum petro et sub Petro, fu e resta ancora quello di apportare un insegnamento alla Chiesa universale, ma obiettiamo che questo Concilio ha voluto soddisfare le necessità di un magistero sedicente pastorale, la cui intenzione nuova è chiaramente estranea alle finalità del magistero divinamente istituito, e che esso ha contraddetto almeno sui quattro punti segnalati i dati oggettivi del magistero costante, chiaramente definito.
In tal modo appare chiaro che questo magistero fu segnato da una grave deficienza, nel suo stesso atto. Il dottore angelico dice[64]: «Quando un artista fa delle opere difettose, non sono più opere d’arte, sono invece contrarie all’arte». Fatta salva la proporzione, quando un Concilio produce degli insegnamenti difettosi, non si tratta dell’opera del magistero, piuttosto (o peggio) contro il magistero, cioè contro la Tradizione.
Ecco perché oggi nessuno potrebbe accontentarsi dei cosiddetti «spazi di libertà teologica» all’interno stesso della contraddizione introdotta dal Vaticano II. Il desiderio profondo di ogni cattolico fedele alle promesse del suo battesimo è di aderire in tutta sottomissione filiale agli insegnamenti del magistero di sempre. La stessa pietà esige anche, con una urgenza maggiore, che si ponga rimedio alle gravi deficienze che paralizzano l’esercizio di questo magistero a partire dall’ultimo Concilio. È a questo scopo che la Fraternità San Pio X auspica ancora e più che mai una autentica riforma, nel senso che per la Chiesa si tratta di rimanere fedele a se stessa, di rimanere ciò che è nell’unità della fede e di conservare così la sua forma originaria, nella fedeltà alla missione ricevuta da Cristo. Intus reformari.
NOTE
[1] «Infatti è vero che generalmente i Pontefici lasciano liberi i teologi in quelle questioni che, in vario senso, sono soggette a discussioni fra i dotti di miglior fama; però la storia insegna che parecchie questioni, che prima erano oggetto di libera disputa, in seguito non potevano più essere discusse. Né si deve ritenere che gli insegnamenti delle Encicliche non richiedano, per sé, il nostro assenso, col pretesto che i Pontefici non vi esercitano il potere del loro Magistero Supremo. Infatti questi insegnamenti sono del Magistero ordinario, di cui valgono poi le parole: “Chi ascolta voi, ascolta me” (Luc. X, 16); e per lo più, quanto viene proposto e inculcato nelle Encicliche, è già per altre ragioni patrimonio della dottrina cattolica. Se poi i Sommi Pontefici nei loro atti emanano di proposito una sentenza in materia finora controversa, è evidente per tutti che tale questione, secondo l’intenzione e la volontà degli stessi Pontefici, non può più costituire oggetto di libera discussione fra i teologi». (DS 3884-5).
[2] Su questo punto, Mons. Ocáriz fa riferimento alla costituzione Dei Verbum del Vaticano II (n. 8), ma San Pio X sottolinea la stessa idea nel Giuramento antimodernista: «Conservo pertanto e conserverò fino all’ultimo soffio di vita la fede dei padri nel carisma certo della verità, che è, è stato e sempre sarà nella “successione dell’episcopato dagli apostoli”; non perché si mantenga quello che possa sembrare migliore e più adatto secondo la cultura propria e di ogni epoca, ma perché “non sia mai diversamente creduta, mai diversamente” compresa, l’assoluta e immutabile verità predicata fin dall’inizio dagli apostoli. (Motu proprio Sacrorum antistitum dell’1 settembre 1910, DS 3549).
[3] Su questo punto si veda Charles Journet, L’Eglise du Verbe incarné, t. 1, 2° edizione del 1955, pp. 426-435. A fianco di un’assistenza assoluta, che è alla base dell’infallibilità in senso stretto, propria delle definizioni solenni, esiste anche un’assistenza prudenziale, che è alla base di una infallibilità in senso lato, propria della predicazione ordinaria e quotidiana del magistero.
[4] Lettera di Paolo VI a Mons. Lefebvre del 29 giugno 1975, in Itinéraires. La condamnation sauvage de Mgr Lefebvre, numero speciale fuori serie (dicembre 1976), p. 67.
[5] DS 3071.
[6] Somma Teologica. II – II, questione 1, articolo 10.
[7] Mt, 28, 20 ; Gv, 14, 26 ; Gv, 16, 13. Cfr. Cardinal Jean-Baptiste Franzelin, La Tradition, thèse 5, n° 60-66, Courrier de Rome 2008, p. 67-70 e thèse 22, n° 456-479, p. 325-336.
[8] « Fideliter custodienda et infallibiliter declaranda » (DS 3020) o « Sancte custodiendum et fideliter exponendum » (DS 3070).
[9] Cfr. gli Acta synodalia, t. II, parte I, p. 652. Al testo che parlava dell’infallibilità bisognava aggiungere l’inciso che qui riportiamo in grassetto: « Definitiones Romani Pontificis quae propter Spiritus sancti assistentiam nunquam extra vel contra fidem communem Ecclesiae proferuntur ex sese tamen et non ex consensu Ecclesiae irreformabiles esse ».
[10] «In effetti, il papa è infallibile se, e solo se, assolvendo alla sua funzione di dottore di tutti i cristiani, rappresentante tutta la Chiesa, egli giudica e definisce ciò che tutti devono credere o rigettare. E in questo non potrebbe separarsi dalla Chiesa, non più di quanto la fondazione possa discostarsi dall’edificio che deve sostenere. […] Questo è evidente se si considera il fine in vista del quale Dio ha accordato l’infallibilità al papa, che è di conservare la verità nella Chiesa» (Mons. Gasser, Mansi, t. 52, col. 1213 C).
[11] Cfr. Jean-François Chiron, L’Infaillibilité et son objet. L’autorité du magistère infaillible de l’Eglise s’étend-elle aux vérités non-révélées ? Cerf, 1999, pp. 501-503.
[12] Per il fatto stesso che deve proporre la verità rivelata, che è il suo oggetto primario, il magistero propone anche altre verità in connessione logicamente necessaria col deposito rivelato, o anche dei fatti contingenti in connessione moralmente necessaria col primo fine della Chiesa, che è di conservare ed esplicitare il deposito rivelato. La connessione è così stretta che la negazione di queste verità e di questi fatti metterebbe in pericolo la rivelazione. Questo dominio corrisponde all’oggetto secondario del magistero e comprende la proposizione del rivelato virtuale. Vi si trovano, per esempio, tutta la dottrina della Chiesa relativa alla legge naturale, i giudizi dottrinali che la Chiesa emette sugli scritti, la canonizzazione dei santi (ove si afferma il duplice fatto della glorificazione e della virtù eroica del santo), l’approvazione degli ordini religiosi (ove si afferma che tale regola di vita è atta a condurre alla perfezione).
[13] Si veda San Tommaso, Somma teologica, parte I, questione 11, articolo 1, corpus e ad 1.
[14] Cardinale Jean-Baptiste Franzelin, La Tradition, thèse 6, n° 67-76, Courrier de Rome 2008, pp. 71-76.
[15] DS 3020.
[16] DS 3541.
[17] Somma Teologica, II, II, questione 1, articolo 2 corpus e ad 2.
[18] «Certuni intendono ridurre al massimo il significato dei dogmi; liberare lo stesso dogma dal modo di esprimersi, già da tempo usato nella Chiesa, e dai concetti filosofici in vigore presso i dottori cattolici, per ritornare nell’esporre la dottrina cattolica, alle espressioni usate dalla Sacra Scrittura e dai Santi Padri. […] è massima imprudenza trascurare o respingere o privare del loro valore i concetti e le espressioni che da persone di non comune ingegno e santità, sotto la vigilanza del sacro Magistero e non senza illuminazione e guida dello Spirito Santo, sono state più volte con lavoro secolare trovate e perfezionate per esprimere sempre più accuratamente le verità della fede, e sostituirvi nozioni ipotetiche ed espressioni fluttuanti e vaghe della nuova filosofia, le quali, a somiglianza dell’erba dei campi, oggi vi sono e domani seccano; a questo modo si rende lo stesso dogma simile a una canna agitata dal vento. Il disprezzo delle parole e delle nozioni usate dai teologi scolastici, di per sé conduce all’indebolimento della teologia speculativa, che essi ritengono priva di una vera certezza in quanto si fonda sulle ragioni teologiche» (Pio XII, Enciclica Humani generis del 12 agosto1950).
[19] DC (La Documentation catholique) n° 1387 del 4 novembre 1962, col. 1382-1383.
[20] DC n° 1391 del 6 gennaio 1963, col. 101.
[21] DC n° 2350 del 15 gennaio 2006, col. 59-63.
[22] Pio XII, Humani generis: «Questa stessa filosofia, confermata e comunemente ammessa dalla Chiesa, difende il genuino valore della cognizione umana, gli incrollabili principî della metafisica cioè di ragion sufficiente, di causalità e di finalità ed infine sostiene che si può raggiungere la verità certa ed immutabile».
[23] Joseph Ratzinger, Les Principes de la théologie catholique. Esquisse et matériaux, Téqui, 1982
[24] Ratzinger, ibidem, p. 423-440.
[25] Ratzinger, ibidem, p. 423.
[26] Ratzinger, ibidem, p. 424-425.
[27] Ratzinger, ibidem, p. 427.
[28] Cardinal Joseph Ratzinger, Entretiens sur la foi, Fayard, 1985, p. 38 [Rapporto sulla fede, Vittorio Messori a colloquio con Joseph Ratzinger, Ed. Paoline, 1985, p. 34].
[29] Joseph Ratzinger, Les Principes de la théologie catholique. Esquisse et matériaux, Téqui, 1982, pp. 426-427.
[30] Costituzione dogmatica Dei Filius, cap. 4, DS 3020.
[31] Il magistero anteriore al Vaticano II ha condannato l’intenzione di incorporare la filosofia moderna alla teologia, dal momento che questa filosofia è imbevuta di razionalismo, di scetticismo e di relativismo. Cfr. per esempio, il Breve Eximiam tuam di Pio IX all’arcivescovo di Colonia, del 15 giugno 1857 (DS 2829), con il quale condanna la filosofia di Gunther.
[32] Il magistero precedente (Pio IX) condanna la proposizione che afferma che «la migliore condizione della società è quella in cui non si riconosce al potere il dovere di reprimere con delle pene legali i violatori della legge cattolica, se non nella misura in cui è richiesto dalla tranquillità pubblica»; DH 2 afferma che «la persona umana ha diritto alla libertà religiosa» e che «Il contenuto di una tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potere umano, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata».
[33] Pio XII afferma l’identità reale tra la Chiesa di Cristo e la Chiesa cattolica; LG 8 afferma la non separazione di due realtà distinte che sono la Chiesa di Cristo e la Chiesa cattolica.
[34] Il magistero anteriore afferma che al di fuori della Chiesa cattolica, nelle sette scismatiche ed eretiche prese come tali, non vi è alcun valore salvifico e che la Divina Provvidenza non si serve di queste sette come dei mezzi di salvezza; il Vaticano II afferma esattamente il contrario.
[35] La pubblicazione del Novus Ordo Missae nel 1969 non ha fatto altro che aggravare la crisi, suscitando delle difficoltà supplementari. Ma la crisi della Chiesa non è per prima cosa e innanzi tutto la crisi della Messa, è crisi del Concilio. Le due cose sono collegate, ma bisogna fare attenzione all’ordine che le collega, cogliendo bene dov’è la fonte principale del male. La nuova Messa (esattamente come il nuovo Codice di Diritto Canonico) avvelena la gente più efficacemente del Concilio, essa si può dire che è come l’imbuto col quale si versa nella bottiglia il veleno del Concilio, ma ciò non toglie che la fonte del veleno è il Concilio stesso.
[36] Cardinali Ottaviani e Bacci, lettera di presentazione del Breve esame critico del Novus Ordo Missae al papa Paolo VI, 1969.
[37] «Senza rigettare in blocco questo Concilio, io penso che si tratti del più grande disastro di questo secolo, e di tutti i secoli passati, dalla fondazione della Chiesa» (Mgr Lefebvre, Ils L’ont découronné, Editions Fideliter, 1986, p. XIII [Marcel Lefebvre, L’hanno detronizzato, Ed. Amicizia Cristiana, 2009]). Non è una questione di quantità o di percentuale (tale testo è buono, tal’altro è cattivo; tale passo è cattolico, tal’altro è modernista; tutto è buono; tutto è cattivo). Il modernismo è un errore unico nel suo genere, nel senso che amalgama degli enunciati materialmente veri con degli enunciati che sono più spesso incompleti, ambigui, contraddittori e raramente falsi in maniera chiara. Il risultato di questo amalgama è un insieme di enunciati erroneo nella sua coerenza interna, ma che conserva l’apparenza del vero in ogni punto parziale e isolato dall’insieme, con i passi buoni che vengono utilizzati per avallare i soggiacenti principi errati. San Pio X ha definitivamente diagnosticato il cancro del modernismo dicendo che questa malattia è «tanto più temibile, per quanto meno palese».
[38] DC 2010 del 15 luglio 1990, pp. 693-701.
[39] DC 2302, col. 1022. Sono i nn° 26-28 di questo testo che vanno in questo senso.
[40] DC 1636 del 15 luglio 1973, pp. 664-671; commento pp. 837-839.
[41] Il n° 2 precisa in effetti che « lo Spirito Santo illumina e soccorre il Popolo di Dio, in quanto è il corpo di Cristo, unito in comunione gerarchica» e aggiunge che se il Popolo di Dio aderisce alla fede, questo avviene, non solo grazie a quel senso della fede, risvegliato e sostenuto dallo Spirito di verità, ma anche «sotto la guida del magistero»; rivestiti dell’autorità di Cristo, i pastori hanno il potere di insegnare e il loro ruolo non si riduce a ratificare il consenso già espresso dai semplici fedeli, essi «nell’interpretazione e nella spiegazione della parola di Dio scritta o trasmessa» possono «prevenire ed esigere tale consenso».
[42] Cfr. la Presentazione del cardinale Ratzinger all’Istruzione Donumveritatis: «Il documento tratta del problema della missione ecclesiale del teologo, non a partire dal dualismo magistero-teologia, ma nel contesto della relazione triangolare: Popolo di Dio, in quanto portatore del senso della fede e luogo comune a tutti dell’insieme della fede; magistero; teologia. Lo sviluppo del dogma negli ultimi 150 anni è una dimostrazione molto chiara di questa complessa relazione; i dogmi del 1854, 1870 e 1950 furono possibili perché essendo stati ripresi dal senso della fede, il magistero e la teologia furono condotti da quest’ultimo e cercarono lentamente di raggiungerli» (L’Osservatore romano, edizione settimanale francese del 10 luglio 1990, p. 9). D’altronde, Il quarto capitolo dell’Istruzione Donum veritatis presenta i rapporti che esistono tra il magistero e i teologi come dei rapporti, non tra dirigenti e diretti, ma di collaborazione (§ 22). Questa idea della collaborazione è l’idea nuova di una dipendenza reciproca nella comune dipendenza rispetto al Popolo. Non si tratta più dell’idea tradizionale della dipendenza del teologo, Chiesa discente, dal magistero, Chiesa docente.
[43] DC 2097 del 3 luglio 1994, p. 613.
[44] «L’avventura degli Apostoli comincia così, come un incontro di persone che si aprono reciprocamente. Comincia per i discepoli una conoscenza diretta del Maestro. Vedono dove abita e cominciano a conoscerlo. Essi infatti non dovranno essere annunciatori di un’idea, ma testimoni di una persona. Prima di essere mandati ad evangelizzare, dovranno “stare” con Gesù (cfr Mc 3, 14), stabilendo con lui un rapporto personale. Su questa base, l’evangelizzazione altro non sarà che un annuncio di ciò che si è sperimentato e un invito ad entrare nel mistero della comunione con Cristo» Benedetto XVI, Gli Apostoli, testimoni e inviati di Cristo, udienza del 22 marzo 2006, in L’Osservatore romano ed. francese n. 13 del 28 marzo 2006, p. 12.
[45] «Attraverso il ministero apostolico, la Chiesa, comunità radunata dal Figlio di Dio venuto nella carne, vivrà nel succedersi dei tempi edificando e nutrendo la comunione in Cristo e nello Spirito, alla quale tutti sono chiamati e nella quale possono fare esperienza della salvezza donata dal Padre. I Dodici ebbero cura, infatti, di costituirsi dei successori, affinché la missione loro affidata continuasse dopo la loro morte. Nel corso dei secoli la Chiesa, organicamente strutturata sotto la guida dei legittimi Pastori, ha così continuato a vivere nel mondo come mistero di comunione, nel quale si rispecchia in qualche misura la stessa comunione trinitaria, il mistero di Dio stesso». Benedetto XVI, Il dono della Comunione, udienza del 29 marzo 2006, in L’Osservatore romano ed. francese n. 14 del 4 aprile 2006, p. 12.
[46] Questa idea si ritrova in uno studio di Joseph Ratzinger, scritto nel 1965, e pubblicato al capitolo 2 di La Parole de Dieu, Ecriture Sainte, Tradition, Magistère, Parole et Silence, 2007, in particolare alle pp. 68-70. L’enciclica Deus caritas est riprende lo stesso tema nel suo n° 1 (DC n° 2352, col. 166): « All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva». Di primo acchito, una simile descrizione richiama più un atto affettivo che un atto intellettuale. Ora, l’unione con Cristo si realizza innanzi tutto con la fede e questa è un atto formalmente intellettuale. L’intelligenza è fatta non per incontrare delle persone, ma per conoscere la realtà mediante dei concetti e attraverso delle formule. La facoltà che si mette direttamente in rapporto con la realtà come essa esiste concretamente, e dunque con una persona, è la volontà. E la volontà che va incontro a Dio è la carità. Le espressioni utilizzate da Benedetto XVI suggeriscono una confusione tra la fede e la carità. L’«incontro con una persona» attiene all’amicizia e non alla conoscenza. L’esperienza soprannaturale (per analogia con l’esperienza naturale) che ci mette in relazione (o in contatto) con Dio e che suscita una conoscenza per connaturalità, esiste certo, ma essa ha luogo con gli atti dei doni dello Spirito Santo, il cui motivo formale è di ordine affettivo, poiché questi doni poggiano sulla carità. Non si potrebbe negare che la fede deve arricchirsi di questi doni, ma per essere uniti nella vita spirituale concreta, fede e doni devono restare formalmente distinti nella loro definizione, agli occhi del magistero e della teologia. E dal momento che ogni peccatore non è per questo un infedele, la fede può anche incontrarsi concretamente nella Chiesa, senza la carità né i doni.
[47] Mysterium Ecclesiae (citando al volo la condanna della proposizione n° 6 in Lamentabili) afferma in questo senso che il ruolo del magistero non si limita a ratificare il consenso già espresso dai semplici fedeli. Ma vi è differenza tra dire che il magistero ecclesiastico trasmette e impone a credere ai fedeli la verità di cui è depositario, in quanto continuatore del magistero apostolico, e dire che il magistero ecclesiastico impone l’espressione adeguata di una verità di cui è depositario il Popolo perché il suo senso della fede la detiene al suo stato preconcettuale. Questa seconda affermazione non sfugge alla condanna di Lamentabili. La proposizione condannata n° 6 dice infatti: « Nella definizione delle verità, la Chiesa discente e la Chiesa docente collaborano in tale maniera che alla Chiesa docente non resta altro che ratificare le comuni opinioni di quella discente» (DS 3406).
[48] Benedetto XVI, La Comunione nel tempo: la Tradizione, udienza del 26 aprile 2006, in L’Osservatore romano n. 18 dell’ed. francese del 2 maggio 2006, p. 12.
[49] Benedetto XVI, ibidem.
[50] Concilio Vaticano I, costituzione Pastor æternus, cap. 1, DS 3054.
[51] Concilio Vaticano I, costituzione Pastor æternus, cap. 4, DS 3074.
[52] Benedetto XVI, La Comunione nel tempo: la Tradizione, udienza del 26 aprile 2006, in L’Osservatore romano n. 18 dell’ed. francese del 2 maggio 2006, p.12.
[53] «Sebbene le verità che la Chiesa con le sue formule dogmatiche intende effettivamente insegnare si distinguano dalle mutevoli concezioni di una determinata epoca e possano essere espresse anche senza di esse, può darsi tuttavia che quelle stesse verità del sacro Magistero siano enunciate con termini che risentono di tali concezioni. Ciò premesso, si deve dire che le formule dogmatiche del Magistero della Chiesa fin dall’inizio furono adatte a comunicare la verità rivelata, e che restano per sempre adatte a comunicarla a chi le comprende rettamente. Ma questo non vuol dire che ciascuna di esse lo sia stata o lo resterà in pari misura».
[54] Cardinale Ratzinger, Presentazione dell’Istruzione Donum veritatis, in L’Osservatore romano, ediz. settimanale in francese del 10 luglio 1990, p. 9.
[55] Joseph Ratzinger, Théologie et histoire. Notes sur le dynamisme historique de la foi, 1972, p. 108, citato da Joaquim E. M. Terra, Itinerario teologico di Benedetto XVI, Roma, 2007, p. 66.
[56] Ratzinger, ibidem, p. 65.
[57] Ratzinger, ibidem, p. 64.
[58] Ratzinger, ibidem.
[59] Ratzinger, ibidem.
[60] Benedetto XVI, La Comunione nel tempo: la Tradizione, udienza del 26 aprile 2006, in L’Osservatore romano n. 18 dell’ed. francese del 2 maggio 2006, p.12.
[61] Benedetto XVI, ibidem.
[62] Benedetto XVI, ibidem.
[63] Somma Teologica, 1a2ae, q 51, a 1.
[64] Somma Teologica, 1a2ae, q 57, a 3, ad 1.