Sulla questione della fantomatica problematicità della traduzione della sesta petizione del Pater noster vogliamo pubblicare un ultimo commento, questa volta tratto dal “De sermone Domini in monte” di sant’Agostino.
La sesta domanda è: Non ci immettere nella tentazione (Mt 6, 13). Alcuni manoscritti hanno: Indurre, che ritengo abbia il medesimo significato; infatti dall’unico termine greco è stato tradotto l’uno e l’altro. Molti poi nel pregare dicono: Non permettere che siamo indotti in tentazione, mostrando, cioè, in che senso sia stato usato l’indurre. Infatti Dio non ci induce da se stesso, ma permette che vi sia indotto colui che per un ordinamento occultissimo e meriti avrà privato del suo aiuto. Spesso anche per ragioni manifeste egli giudica uno degno fino a privarlo del suo aiuto e permettere che sia indotto in tentazione. Una cosa è infatti essere indotto in tentazione e un’altra essere tentati. Infatti senza la tentazione nessuno è adatto alla prova, tanto in se stesso, come si ha nella Scrittura: Chi non è stato tentato che cosa sa? (Eccli 34, 9), quanto per l’altro, come dice l’Apostolo: E non avete disprezzato quella che era per voi una tentazione nella carne (Gal 4,14). Da questo fatto appunto li ha riconosciuti costanti, perché non furono distolti dalla carità a causa delle sofferenze capitate all’Apostolo nel fisico. Infatti noi siamo noti a Dio prima di tutte le tentazioni perché egli sa tutto prima che avvenga.
Quindi la frase che si ha nella Scrittura: Il Signore Dio vostro vi tenta per sapere se lo amate (Dt 13, 3) è stata espressa nel traslato da per sapere a per farvi sapere, come diciamo allegro un giorno che ci rende allegri e pigro il freddo perché ci rende pigri e altri innumerevoli modi di dire che si hanno tanto nel gergo abituale, come nel linguaggio dei letterati e nei libri della Sacra Scrittura. Gli eretici, che sono contrari al Vecchio Testamento e non comprendendo questa locuzione, pensano che è bollato, per così dire, da un marchio d’ignoranza l’essere di cui è stato detto: Il Signore Dio vostro vi tenta, come se nel Vangelo del Signore non sia stato scritto: Lo diceva per tentarlo perché egli sapeva quel che stava per fare (Gv 6, 6). Se infatti conosceva il cuore di colui che tentava, che cosa voleva conoscere tentando? Ma senz’altro l’episodio è avvenuto, affinché colui che veniva tentato riflettesse su se stesso e riprovasse la sua sfiducia perché le turbe furono saziate col pane del Signore, mentre egli pensava che esse non avessero di che mangiare (Cf. Gv 6, 7-13).
Quindi con quella preghiera non si chiede di non essere tentati, ma di non essere immessi nella tentazione, sulla fattispecie di un tale, a cui è indispensabile essere sottoposto all’esperimento del fuoco, e non chiede di non essere toccato col fuoco, ma di non rimanere bruciato. Infatti la fornace prova gli oggetti del vasaio e la prova della sofferenza gli uomini virtuosi (Eccli 27, 6). Giuseppe difatti è stato tentato con la seduzione dell’adulterio, ma non è stato immesso nella tentazione (Cf. Gn 19 , 7-12). Susanna è stata tentata e neanche lei indotta o immessa nella tentazione (Cf. Dn 13, 19-23) e molti altri dell’uno e dell’altro sesso, ma soprattutto Giobbe. Gli eretici, nemici del Vecchio Testamento, volendo con parole sacrileghe schernire la sua ammirevole costanza in Dio suo Signore, allegano a preferenza degli altri l’episodio che Satana chiese di tentarlo (Cf. Gb 1, 9-12). Chiedono agli ignoranti, assolutamente incapaci di capire certe cose, in che modo è stato possibile a Satana di parlare con Dio. Non riflettono, e non lo possono perché sono accecati dall’errore e dalla polemica, non riflettono dunque che Dio non occupa uno spazio con la dimensione del corpo sicché è in un luogo e non in un altro o per lo meno ha una parte qui e un’altra altrove, ma con infinita grandezza è in atto in ogni spazio, non diviso nelle parti ma tutto in ogni spazio. E se intendono in senso letterale la frase: Il cielo è per me il trono e la terra lo sgabello dei miei piedi (Is 66, 1), e se a questa posizione si riferisce anche il Signore con le parole: Non giurate né per il cielo perché è il trono di Dio, né per la terra perché è lo sgabello dei suoi piedi (Mt 5, 34-35), che cosa v’è di strano se il diavolo, giunto sulla terra, si è fermato davanti ai piedi di Dio e ha detto qualche cosa in sua presenza (Cf. Gb 1, 7)? Quando infatti questi tali finiranno per capire che non v’è anima, quantunque perversa, che comunque in qualche modo può ragionare, nella cui coscienza Dio non parli? Chi se non Dio ha scritto nel cuore degli uomini la legge naturale? E di questa legge dice l’Apostolo: Quando i pagani, che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi pur non avendo la legge, sono legge a se stessi; dimostrano infatti che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della coscienza di essi e dei loro stessi ragionamenti che li accusano o anche li difendono nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini (Rm 2, 14-16). Quindi ogni anima ragionevole, sia pure accecata dalla passione, tuttavia pensa e ragiona e tutto ciò che mediante il suo ragionamento è vero non si deve attribuire a lei, ma alla luce stessa della verità, dalla quale sia pure scarsamente nei limiti della sua capacità è illuminata, affinché nel pensare percepisca come vero qualche cosa. Non c’è quindi da far meraviglie se si afferma che l’anima del diavolo, corrotta da un depravante pervertimento, ha udito dalla voce di Dio, cioè dalla voce della stessa verità tutto ciò che ha pensato su un uomo virtuoso, quando volle tentarlo (Cf. Gb 1, 8; 2, 3); e invece tutto ciò che era falso si attribuisce a quel pervertimento da cui ha avuto l’appellativo di diavolo. Tuttavia anche per mezzo di creatura fisicamente visibile spesso Dio ha parlato tanto ai buoni che ai cattivi secondo i meriti di ciascuno, come Signore e guida di tutti e loro ordinatore al fine; ha parlato anche per mezzo di angeli che si manifestarono in sembianze umane e per mezzo dei profeti che dicevano: Queste cose dice il Signore. Che meraviglia quindi se si dice che Dio ha parlato col diavolo non certamente attraverso il pensiero, ma mediante una creatura ovviamente adattata allo scopo?
E non suppongano che è proprio di deferenza e quasi merito di virtù il fatto che Dio ha parlato con lui, perché ha parlato con uno spirito angelico, sebbene stolto e vizioso, come se parlasse con un’anima umana stolta e viziosa. Oppure dicano essi stessi in che modo Dio ha parlato con quel ricco, di cui volle biasimare un vizio molto stolto con le parole: Stolto, questa notte l’anima ti sarà richiesta e di chi saranno le ricchezze che hai messo da parte? (Lc 12, 20). Evidentemente questo lo dice il Signore stesso nel Vangelo, al quale questi eretici, volere o no, chinano la testa. Se poi si preoccupano del fatto che Satana chiede a Dio di tentare un uomo virtuoso, non io spiego perché sia avvenuto, ma sprono costoro a spiegare perché nel Vangelo sia stato detto dal Signore stesso ai discepoli: Ecco che Satana cerca di vagliarvi come il grano (Lc 22, 31); e a Pietro: Ma io ho pregato affinché non venga meno la tua fede (Lc 22, 32). Quando mi spiegano queste parole, unitamente spiegano a se stessi quel che chiedono da me. Se poi non saranno capaci di spiegarlo, non osino censurare con sventatezza in un libro qualsiasi quel che senza ripugnanza leggono nel Vangelo.
Avvengono dunque le tentazioni ad opera di Satana, non per un suo potere, ma col permesso del Signore per punire gli uomini dei loro peccati o per provarli e addestrarli in riferimento alla bontà di Dio. E importa molto in quale tentazione uno incorra. Difatti Giuda, che vendé il Signore (Cf. Mt 26, 14-16 e 50), non è incorso nella medesima tentazione in cui è incorso Pietro che per paura negò il Signore (Cf. Mt 26, 69-75). Vi sono anche delle tentazioni provenienti, così penso, dall’uomo, quando uno con buona intenzione ma nei limiti dell’umana debolezza sbaglia in qualche consiglio ovvero si adira col fratello nell’intento di correggerlo, ma un po’ al di là di quel che richiede la serenità cristiana. Di queste tentazioni dice l’Apostolo: Non vi sorprenda la tentazione se non quella umana; ed anche: Dio è fedele, perché non permette che siate tentati al di là di quel che potete, ma vi darà assieme alla tentazione anche il superamento affinché possiate sopportarla. E con questo pensiero ha mostrato abbastanza che non dobbiamo pregare per non essere tentati, ma per non essere indotti in tentazione. E vi siamo indotti, se si verificano di tale fatta che non riusciamo a superarle. Ma poiché le tentazioni pericolose, in cui è dannoso essere immessi o indotti, hanno origine dalle prosperità o avversità nel tempo, non si fiacca dalla inquietudine delle avversità chi non si lascia allettare dall’attrattiva delle prosperità.
(S. Agostino, De sermone Domini in monte, II, 9, 30-34)
“Non ci indurre in tentazione
ma liberaci dal male…”
che cosa c’è da recriminare su questa formulazione della preghiera se alla maniera ebraica, per parallelismo antitetico, ci fa chiedere a Dio di liberaci dal male, e di salvarci dalla tentazione di cedere ad esso? Se la vita è un campo di battaglia contro le forze del male, perché trionfi in noi il Bene, a chi dobbiamo ricorrere , se non a Dio perché questo si compia ? E orra arriva il Bergoglio a dire la sua anche qui, da teologo da …bar!
Pensi piuttosto il Bergoglio detto papa, a non essere lui la tentazione che ci induce davvero a soccombere al male, quello dell’ abbandono della fede in Dio e nel suo Cristo, vista la difficoltà di conciliare la presenza di Dio nel mondo e la presenza di tale ‘papa’ sovvertitore della fede, ‘in nome’ e ‘per conto’ dello stesso Dio e Cristo …
Che non si debba intendere la preghiera anche nel senso che Dio ci liberi da tale perversa presenza?