di Luca Fumagalli

Gatsby (film)

Long Island, estate del 1922. Nick Carraway (Tobey Maguire) giunge sulla costa orientale con lo scopo di far fortuna nel mondo della speculazione finanziaria. La sua vita, sino a quel momento priva di particolari scossoni, viene sconvolta dall’incontro con Jay Gatsby (Leonardo DiCaprio), l’eccentrico vicino di casa, un affascinante e ricco trentenne dal passato misterioso. Ogni sera Gatsby organizza presso la sua immensa dimora feste a base di alcol e musica a cui partecipano decine e decine di invitati. È l’uomo più noto e chiacchierato della città. In breve tempo Nick diventa suo confidente e scopre così che l’amico, al di là delle apparenze, è profondamente infelice e porta nel cuore un pesante fardello: l’amore impossibile per una donna che non ha mai dimenticato. Nick cercherà in tutti i modi di aiutare Gatsby, ma il destino sembra avere in serbo per quest’ultimo un progetto molto diverso. Intorno a loro, nel frattempo, si dipanano le vicende sentimentali di sodali quali lo stolto e arrogante Tom Buchanan (Joel Edgerton), sua moglie Daisy (Carey Mulligan) e la frivola golfista Jordan Baker (Elizabeth Debicki).

Il grande Gatsby, romanzo breve scritto nel 1925 da quel geniaccio americano di Francis Scott Fitzgerald, un cattolico dalla vita sfortunata, è diventato un classico della letteratura occidentale, emblema delle angosce collettive di un’umanità in rovina.

Dopo la riduzione filmica del 1974, sceneggiata da Coppola ma cinematograficamente poco consistente, Il grande Gatsby proposto nel 2013 del regista australiano Baz Luhrmann è un tripudio di luci e colori, sfavillanti costumi e atmosfere da grandeur festaiola, il tutto curato con rara perizia. Non mancano le pecche – come un’esibizione forse un po’ troppo marcata dei sentimenti in campo, gli stessi che la penna di Fitzgerald dipinge più in sordina – ma nell’insieme si tratta di un prodotto valido, più che convincente.

Il grande Gatsby è una sorta di canto del cingo dell’epoca del jazz, anni felici in cui gli Stati Uniti divennero sinonimo di riscatto sociale, dove la vita pareva risolversi in risate e balli spensierati. Il sogno americano, iniziato con lo sbarco dei pellegrini del Mayflower, stava andando lentamente a inabissarsi, e all’orizzonte si potevano scorgere i segnali di declini e cadute. La crisi del ’29 in effetti annichilì nel giro di qualche mese quella fantasmagoria di cartapesta, tutta lustrini e coriandoli, e gettò sul freddo marciapiede esistenze che parevano destinante all’olimpo della gloria.

Luhrmann regala allo spettatore un invito a sgombrare la mente dai tanti palliativi che la stordiscono – soldi, donne, potere ecc. – per tornare a guardare la realtà con il cuore gonfio di attesa, alla ricerca di quella meraviglia che sola può soddisfare l’uomo, di quel mistero adeguato a chi anela l’infinito. Dietro le facce sorridenti che sfilano lungo le strade della Grande Mela si cela infatti il vuoto, il baratro della solitudine, vite spezzate dall’abiezione, in balia degli eventi e, soprattutto, incapaci di amare.