di Luca Fumagalli

wonder

Wonder (2017) aveva tutte le carte in regola per diventare un clamoroso fiasco cinematografico. Quando si parte da un romanzo di successo, infatti, è difficile riportare sullo schermo quelle sottigliezze, quei non detti che solo la pagina sa offrire e che, come in questo caso, più che un contorno costituiscono la portata principale del racconto. Soprattutto la sceneggiatura doveva scontrarsi con quello scoglio non indifferente costituito dallo stile inconfondibile di R. J. Palacio, capace nel libro – divenuto in poco tempo un caso letterario in tutto il mondo – di trattare una questione delicatissima con sagacia, profondità e ironia.

Invece, nelle sapienti mani del regista Stephen Chbosky – già autore nel 2012 del sottovalutato Noi siamo infinito –, Wonder diventa pura poesia, una lirica del quotidiano che stempera il sentimentalismo nell’ironia, che non esagera mai nei toni, che non vuole strafare ma si “accontenta” di portare alla luce quelle piccole grandi battaglie cha fanno parte della quotidianità dell’essere umano. Ne risulta una pellicola delicata, percorsa dalla finezza di una messa in scena credibile, con belle intuizioni a metà tra fantasia e realtà (su tutte, le apparizioni di Chewbecca e dell’astronauta).

La trama, per quanto lineare, è brillantemente sviluppata secondo prospettive diverse, attraverso gli occhi dei vari protagonisti. Sì, perché Chbosky, come Palacio, decide di non concentrarsi esclusivamente sul piccolo Auggie, affetto da una rara malattia genetica che ne ha irrimediabilmente deturpato il volto, ma spazia passando da personaggio a personaggio, con un ritmo che dona tridimensionalità a una narrazione che rischiava, altrimenti, di cadere nel classico cliché alla Frankenstein, quello della diversità alle prese con la perfidia del mondo.

L’impatto di Auggie (Jacob Tremblay) con la scuola è, sulle prime, devastante. Lui che aveva sempre studiato a casa con la mamma Isabel (Julia Roberts) e il papà Nate (Owen Wilson), si trova ora, a 10 anni, a frequentare un istituto insieme a tanti altri suoi coetanei, alcuni dei quali iniziano a prenderlo in giro e a fargli terribili scherzi. Ma Auggie non è l’unico che soffre: la sorella maggiore Via (Izabela Vivodic) ha perso la sua migliore amica e ora che è alle superiori si sente terribilmente sola, priva anche della guida affettuosa della nonna, recentemente scomparsa, a cui era molto legata.

A questo punto Wonder poteva stemperarsi in un drammone hollywoodiano dai sentimenti facili, ma è proprio a partire da questa apparente impasse che le vite dei protagonisti, attraverso una serie paradossale e provvidenziale di imprevisti, inizia lentamente a risollevarsi. Niente retorica, niente banalità: Wonder individua la possibilità della meraviglia nelle relazioni tra i personaggi, nell’essere “per gli altri”. A partire dagli insegnanti, veri educatori interessati innanzitutto al bene degli alunni, tutto il film è un inno alla collaborazione, al gesto gratuito e disinteressato, a osservare l’altro con sguardo affettuoso, perché, come ricorda Auggie, «ognuno combatte ogni giorno la propria battaglia». Anche la famiglia, al pari della scuola, diviene luogo di confronto, a volte aspro, ma anche e soprattutto di crescita, tanto per i genitori quanto per i figli.

Wonder, in conclusione, è un film assolutamente da non perdere, una perla rara di anticonformismo che testimonia la speranza e la positività dell’esistenza; è un inno alla vita di contro a un presente che pare sempre più avviato verso il baratro della disgregazione e dell’autoreferenzialità.