citazione a cura di Luca Fumagalli

R. H. Benson, nel romanzo La tragedia della regina (1906), mette a confronto due delle regine inglesi più famose della storiaElisabetta e Maria, sebbene sorelle, non hanno nulla in comune. La prima, con la sua giovane età e il naturale carisma, incarna le nuove forze protestanti che stanno dilagando in Inghilterra. La seconda, invece, sconfitta da una vita che le ha riservato solo dispiaceri, non può fare altro che aggrapparsi a una fede che ormai è condivisa solo da una piccola minoranza di sudditi.

Guy quella sera […] disse le sue preghiere con devozione e si trovò a pregare per la regina con un fervore che non aveva mai sperimentato prima. Si meravigliò di non aver mai compreso prima la sua solitudine; di non aver capito che l’emotività era fuori luogo in una persona di governo – le parole di monsignor Priuli[1] sull’argomento, dette più di un mese prima, gli ritornarono in mente adesso, e si chiese se non fossero state intenzionali; certamente lui aveva confessato una fredda devozione verso la sua sovrana. Quindi i suoi pensieri tornarono alla regina. Si sedette sui calcagni e pensò a lei. No; non era amabile nel senso che comunemente si intende, ma non era forse degna di ammirazione, e anche di compassione? Si ricordò delle delusioni che aveva ricevuto da lei; la beffa della sua malattia mortale, il fallimento che l’aveva accompagnata dalla culla alla corona e che probabilmente sarebbe proseguito fino alla tomba.

Era stato gentile con lei? Aveva fatto le concessioni che desiderava che gli altri facessero a lui? Di certo la compassione, e non il disprezzo, era l’emozione appropriata. Lei era così vecchia ora, e vecchia di un’età più dolorosa di quella anagrafica! – era così zelante; così ben controllata e tuttavia tanto appassionata e semplice quando riteneva giusto lasciar andare il suo cuore verso l’uomo che chiamava marito, e che la ricambiava con un odio cortese.

Ora, mentre stava inginocchiato dritto accanto al letto con le mani giunte, l’immagine delle due sorelle gli tornò davanti ancora una volta – Elisabetta, con il colorito della giovinezza, gli occhi vicini e le labbra rosse, duttile, indomabile; Maria, pallida, irritante, tristemente dignitosa, con il cuore spezzato. Le due figure stavano lì, come  erano state la notte precedente. Ognuna di loro invitava un patto. La prima con gli anni e l’onore davanti a sé, ricompense tra le mani, la speranza di un popolo inquieto fissa su di sé e i loro cuori e persone al suo servizio, una religione che aveva ben poca pretesa sulla fede o sulla vita e una politica che solleticava l’orgoglio della nazione. L’altra, invece, avviata alla tomba, odiata da coloro che la conoscevano, incapace di aiutare o ricompensare se non con ringraziamenti, e avara anche di quelli, con una fede così forte da non poter tollerare l’infedeltà e un piano di governo che avrebbe reso l’Inghilterra parte di un gruppo di nazioni invece di relegarla da sola in un isolazionismo fiero e baldanzoso. La prima gli aveva offerto onore; l’altra l’aveva trascurato.

Queste erano le due che chiedevano il suo omaggio, e questa volta lui non esitò.

[1] Amico del cardinale Pole, Matteo Priuli (1528-1595), rampollo di una delle più note famiglie veneziane,  fece diversi viaggi in Europa – Portogallo, Inghilterra, Francia, e Spagna – prima di diventare vescovo di Vicenza.

(Brano tratto da: R. H. BENSON, La tragedia della regina, Verona, Fede & Cultura, 2015)