a cura della Redazione

 

Con l’approssimarsi della festa della Candelora, condividiamo con voi “a puntate”, fino al 1 febbraio, uno dei più importanti, antichi, venerandi e profondi tesori spirituali della nostra Santa Religione che abbiamo in comune con i nostri fratelli cattolici di rito orientale: il celebre inno Akàthistos dedicato alla Santa Madre di Dio.
Ai più non molto noto nel rito latino, esso tuttavia rappresenta, come per noi il Santo Rosario, la preghiera più alta da innalzare alla Santa Vergine, e così come il Rosario sopperisce per i semplici alla recita del Breviario così fa quest’inno, con la differenza che esso è organizzato proprio come un Ufficio Divino, con tanto di canone.
Con parole sublimi narra, canta e loda, pregando, la storia della Santissima Vergine, e quindi della salvezza, mettendo in comunione vera, cioè di fede, le due anime della Chiesa, occidentale ed orientale, nell’autentica unione di fede e preghiera nella Cattolica Romana (non a caso il rito si apre con la preghiera per il romano pontefice).
Unendo in sé le caratteristiche sia di un Ufficio Divino, sia di una poesia, sia di un’ode (come da tradizione greco-romana) che di un canto, esso, oltre ad elevare a Dio una poderosa preghiera, allo stesso tempo austera e dolce, attraverso la Santissima Madre, riesce a rappresentare un concentrato di dottrina e di mariologia perfetto, con in nuce tutti i dogmi cristologici e mariani, a significazione dello splendore, dell’antichità e della certezza della Verità custodita da Santa Romana Chiesa.
Non a caso, come si vedrà nelle immagini proposte, i Romani Pontefici, riconoscendo l’importanza di questo tesoro, ne hanno esteso la recita, con annesse alcune delle indulgenze, anche ai fedeli di rito latino, onde potessero farne partecipi i frutti e le grazie spirituali per sé stessi e soprattutto per la Chiesa tutta: l’intenzione da porre infatti all’intercessione di Colei che “da sola ha vinto tutte le eresie” è quella del ritorno dei dissidenti nel seno di Romana Chiesa, oltre alle altre intenzioni generali quali la riparazione e l’impetrazione.
Importante segno dunque, soprattutto in questi tempi (e giorni, come ogni anno in Gennaio) di demoniaco falso ecumenismo, così opposto a quello rappresentato dall’Akathistos, da essere tornato stringente il recitare questo bellissimo inno di carità e ringraziamento alla Santa Vergine. Tanto più se la genesi di questo inno ci ricorda proprio una vittoria contro i nemici della fede.
L’inno fu composto, nella sua forma primitiva, in un momento tragico e glorioso al tempo stesso: nel 626 Costantinopoli, capitale dell’impero romano d’oriente, respinge un pericolosissimo assedio dei persiani (l’islam non era ancora nato), a capo dell’impero Sassanide erede di quello partico; un assedio che fece quasi crollare l’impero, ci si andò vicinissimi, un crollo che avrebbe aperto alla persecuzione del cristianesimo in oriente, e alla sua prematura sparizione, e spianato la strada alla caduta dell’occidente: Roma infatti era senza difese, non vi era un Sacro Romano Impero, ancora, a difendere la Chiesa Romana. 
All’epoca la gravità della situazione era talmente ben chiara, erano anni che Bisanzio subiva rovesci, che la Chiesa organizzò preghiere e liturgie affinché il Romano Imperatore d’Oriente, Eraclio, trionfasse, non solo materialmente ma anche spiritualmente: soprattutto perché i persiani, non meno dei loro successori maomettani, professavano una religione pagana, idolatra, con elementi gnostici e manichei, sintesi un po’ di tutte quelle eresie che fino a quel momento la Chiesa aveva sconfitto e che ora sembrava dovessero ripresentarsi e riguadagnare terreno, in quegli anni infatti la fede cattolica era in pericolo e anche molte autorità ecclesiastiche e civili professavano eresie come il monoenergismo e il monotelismo derivate da dottrine orientali appunto.
Fu in quel momento però , quando l’assedio fu rotto, e i nemici annientati, dopo molte preghiere alla Santa Vergine, che il patriarca Sergio, che aveva lui stesso guidato l’ultimo disperato contrattacco, nel tempio mariano delle Blalcherne, miracolosamente sfuggito alle fiamme del fuoco greco, proruppe tra lacrime di gioia e dolore in questo primissimo inno di lode alla Madre di Dio, salvatrice della città e soprattutto della fede, recitandolo “In piedi”, che è appunto il significato di Akàthistos, che si recita in piedi. Fu poi messo fattivamente in strofa e canto da San Romano di Emesa in Siria.
L’inno poi divenne popolare e amatissimo e ad esso nel secolo VIII fu aggiunto, da San Giuseppe Innografo, un canone sullo stesso soggetto dell’inno, l’Incarnazione , la storia di Maria insieme col Bambin Gesù , la sua figura protagonista in quanto Madre, Regina, Vergine e Sposa Immacolata.
È da questo momento che inno e canone insieme vengono intrecciati in una vera Akolouthia, Ufficio Divino. Secondo la più antica tradizione si canta cinque giorni prima della festa dell’Annunciazione e viene unito al canto dell’Apòdeipnon, la Compieta della Vergine con un rito tutto proprio.
Fu concepito quindi come un “dramma” scenico in cui il fedele attraverso la preghiera e il canto viene trasportato ad osservare, contemplare le varie “stanze” (i capitoletti dell’ufficio) dove davanti a lui si mostrano e svelano i vari misteri della fede e gli inni di lode.
La poesia segue la ritmica dell’innologia bizantina e l’Akathistos fa parte del genere detto dei Contáci: strofa introduttiva, 24 strofe (stanza) che svolgono il “tema”, infine strofa di invocazione. Lo stesso schema di stanze, 24 strofe di tema e strofa finale, è usato ad esempio nella canzone petrarchesca, che si chiude con un commiato. Fatto questo che rimarca l’incredibile originalità, eleganza e bellezza di questo Ufficio.
Spiace che chi non conosce il greco antico non possa apprezzarne pienamente ogni sfumatura, ma ai fini spirituali non è assolutamente vincolante.
A parte qualche differenza nell’ordine delle parole delle Orazioni e delle strofe (rendere rime e figure retoriche in altra lingua nel tentativo che il meno possibile vada perso è impresa titanica) la traduzione risulta ottima, avendo mutuato da quella del Ricciotti eseguita sulla LXX.
L’unica precisazione da fare è che la traduzione più corretta del termine Θεοθοκε, Theothoke, non è Madre di Dio come ovunque si sente, ma Deipara, termine desueto purtroppo ma preciso.
Che la Vergine, con la recita di questo inno, possa concederci oggi come allora la vittoria contro i nostri nemici personali, spirituali e non, e soprattutto contro quelli della Santa Romana Chiesa, a gloria di Dio e a salvezza delle anime.
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