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Iran, le proteste nascono all’interno del regime

 

di Luca Fortis

 

La sorpresa è il sentimento che ha accomunato la maggior parte degli iraniani quando sui telegiornali è apparsa la notizia che in molte città del Paese erano in corso manifestazioni anti governative. Al contrario di quello che spesso si è detto i primi a essere sorpresi sono stati gli studenti e i laici che di solito guidano le proteste nel Paese. Infatti inizialmente delle manifestazioni non ne sapevano nulla. Anzi i commenti più diffusi erano che, non solamente non erano loro ad averle volute, ma che apparivano fin troppo organizzate per essere spontanee. La maggior parte degli studenti ha quindi preferito aspettare a scendere in piazza per capire chi c’era dietro. Infatti solamente pochi mesi fa avevano votato in massa per Rohani ed era troppo presto per accusarlo di aver fallito. Anche perché lo hanno votato in moltissimi turandosi il naso pur di non mettere a rischio l’accordo sul nucleare. Inoltre le persone scese in piazza non sembravano proprio degli studenti laici, ma piuttosto dei conservatori. Ecco che da subito è circolata la voce che dietro le sorprendenti proteste ci fosse l’ala destra del regime che voleva mettere in crisi il nuovo governo.

Si è sussurrato che fosse l’ex presidente Ahmadinejad, attualmente sotto processo e secondo le ultime voci, arrestato per “incitamento alla rivolta”, che voleva minacciare il governo e Khamenei. Altri ancora, come l’ex sindaco di Teheran, Karbaschi, hanno fatto allusioni sul possibile coinvolgimento dell’ayatollah di Mashad, Alam Hoda, che controlla il potentissimo ente di “beneficenza”, “Astan Quds Razavi”. L’associazione caritatevole, legata anche all’ex candidato presidenziale conservatore Ebrahim Raisi, non solo è potentissima e ha interessi in molti rami dell’economia, ma non paga alcuna tassa sui tanti profitti che fa. Il governo di Rohani ha tentato di tassarla, ma senza esito per ora. Questo secondo molti osservatori, avrebbe spinto l’ayatollah conservatore a indebolire il governo di Rohani per dare un segnale forte al leader supremo Khamenei che finora lo ha appoggiato. Altri ancora hanno sussurrato che l’ala destra del regime si stia preparando alla successione di Khamenei che è anziano e malato di cancro.

Certamente è un fatto nuovo che le proteste nascano dalla parte più conservatrice del regime che sta provando davvero di tutto per far naufragare l’accordo sul nucleare, trovandosi così paradossalmente d’accordo con Donald Trump e Benjamin Netanyahu.

Certamente poi quando si accende una miccia in un Paese in cui solamente meno del trenta per cento della popolazione appoggia la Repubblica Islamica e dove la crisi economica si fa sentire eccome, non si sa mai dove si va a finire. Ecco perché per alcuni giorni fa i conservatori sembravano aver perso il controllo delle proteste e in molti ne hanno approfittato per mostrare la loro rabbia e bruciare immagini di Khamenei.

Però questa volta non sembra che le varie anime che si oppongono al regime, laici, sciiti che non accettano l’accentramento dell’interpretazione del Corano creata dalla Repubblica Islamica, sunniti, azeri, sufi, tribù nomadi e Bahai non abbiano ceduto alle sirene della protesta. Lo hanno fatto solamente alcuni, proprio perché la maggioranza ha sentito che dietro alle manifestazioni vi fosse un gioco di potere della frangia destra del regime.

Il governo negli ultimi mesi aveva eliminato molti sussidi e alzato i prezzi, per tagliare il debito. Per farlo aveva sperato che la ripresa economica dopo l’allentamento delle sanzioni avrebbe lenito le sofferenze del popolo per l’aumento dei prezzi. Speranza che non si è avverata.

Dopo le proteste il governo è corso ai ripari, abbassando di nuovo il prezzo di alcuni beni di prima necessità, tra cui quello delle uova che è stato abbassato di un quarto, dopo che era salito vertiginosamente nelle settimane precedenti. Khamenei ha comunque anche messo in guardia la sinistra dall’unirsi alla rivolta arrestando in modo preventivo centinaia di ragazzi a Teheran e in altre città. Però non si può dire che la maggior parte dei tantissimi laici che vivono nella megalopoli iraniana, che conta più di 13 milioni di abitanti nella sua area metropolitana, si sia unita alle proteste.

Va però detto che la rabbia nel paese è davvero tanta e che le persone che si sentono messe ai margini del sistema della Repubblica Islamica per motivi religiosi, civili, culturali o economici, sono troppe, se non maggioritarie. Quindi la miccia si potrebbe riaccendere se il governo non trovasse un modo per coinvolgerle o far ripartire l’economia. Anche i nemici esterni dell’Iran, spaventati per l’aumento della sua influenza nei paesi arabi, non aspetta altro che soffiare sulle braci ardenti nascoste sotto le mille contraddizioni della Repubblica Islamica. Solamente il tempo dirà se il presidente Rohani e il leader supremo Khamenei riusciranno a ridurre lo scontento nel paese e far aumentare le persone che si sentono parte del sistema o no.

 


 

Iran-Arabia Saudita, cosa unisce i due acerrimi nemici del Golfo

di Roberto Bongiorni

I due acerrimi nemici hanno molto più in comune di quanto vogliano mostrare al mondo. Entrambi ambiscono da tempo a divenire la potenza regionale del Golfo Persico, sulle cui sponde opposte si affacciano. Ed entrambi puntano a isolare il rivale. Che si tratti degli ayatollah sciiti o della monarchia wahabita di Riad, i due governi, se non allergici allo stato di diritto, hanno sempre guardato e tutt’ora guardano con estrema diffidenza ad un sistema realmente democratico.
Sauditi (arabi) e iraniani (persiani) sono alle prese peraltro con gli stessi problemi: economie ancora troppo petrodipendenti e schiacciate dall’onnipresente mano dello Stato, disoccupazione rampante, mancate riforme. Condividono perfino le stesse paure: scampati alle primavere arabe, sono sempre in guardia per evitar che il malcontento popolare non minacci di rovesciare le rispettive leadership.

Le due potenze naturali della regione
In questa martoriata ma strategica area del pianeta, dove si trova quasi la metà delle riserve mondiali di greggio, Riad e Teheran hanno entrambi i numeri per rivendicare il ruolo di potenza regionale. L’Arabia, roccaforte dell’Islam wahabita (una delle versione più rigide dell’Islam sunnita) e custode dei due luoghi più sacri (Mecca e Medina), e l’Iran – la potenza mondiale sciita – sono i due paesi più popolosi ed estesi della regione (escludendo la Turchia che non fa parte del Golfo). La popolazione propende per gli iraniani; 80 milioni contro i 32 milioni di sauditi (che tuttavia restano il paese più popoloso della Penisola arabica). I rispettivi governi hanno compreso che le giovani generazioni sono il passaggio verso il successo, o verso una pericolosa deriva. Perché i giovani sono tanti, sia in Iran, dove la metà della popolazione ha meno di 30 anni, sia nel regno saudita, dove i giovani della stessa età rappresentano addirittura il 70 per cento. Che siano sauditi o iraniani, le giovani generazioni soffrono tassi di disoccupazione estremamente elevati. Il territorio propende invece per il regno saudita: 2,2milioni di chilometri quadrati, in verità quasi tutto deserto, contro 1,6 milioni di km2.

Due economie in crescita ma frenate dalla corruzione
C’è un altro punto in comune che i due nemici condividono. Le loro economie, da poco uscite da una fase di recessione (più recente quella saudita), dovrebbero crescere in questi anni a tassi sostenuti, invidiabili per molti Paesi industrializzati. Eppure sono ancora inferiori alle aspettative, e comunque decisamente insufficienti ad assorbire i giovani che ogni anno si affacciano sul mercato del lavoro (solo in Iran sono 750mila).

Per anni strozzata dalle sanzioni internazionali, l’economia iraniana è uscita da una profonda recessione nel 2016. L’accordo sul dossier nucleare (estate 2015) è stato seguito nel gennaio dalla rimozione di molti sanzioni, incluso l’embargo petrolifero europeo. Il Pil ha così cominciato a correre .
Nel primo semestre del corrente anno fiscale (2017-2018) il Pil iraniano è cresciuto del 5,6 per cento. Il Fondo monetario internazionale ha stimato per il 2018 e il 2019 una crescita rispettivamente del 4 e del 4,3 per cento. Ci sarebbe di che rallegrarsi. Ma in verità si è trattato di un boom senza benessere. E a farne le spese sono le classi meno abbienti e una classe media ormai sempre più assottigliata.
L’Arabia saudita ha invece accusato la prima recessione in otto anni proprio nell’anno che si è appena concluso (-0,5 per cento). Ma per il 2018 Riad si attende già una crescita del 2,7 per cento che dovrebbe rafforzarsi negli anni seguenti.
Nel 2016 il Pil saudita era valutato circa 646 miliardi di dollari. Quello iraniano era superiore ai 420. Si potrebbe dire che il Pil pro capite premia i sauditi, ma le sperequazioni sociali sono ampie anche qui. Mentre la corruzione, endemica, ha frenato la distribuzione della ricchezza.

Una petrodipendenza curata male
Arabia ed Iran sono il primo ed il terzo produttore dell’Opec, oltre ad essere il primo ed il quarto esportatore di greggio al mondo. Nei periodi delle vacche grasse, quando i prezzi del greggio non accennavano a scendere sotto la media dei 100 dollari al barile, i due paesi non hanno fatto quasi nulla per diversificare le rispettive economie ed affrancarle almeno in parte dal giogo della petro-dipendenza , un male comune a diversi paesi esportatori di greggio. Secondo il Dipartimento americano dell’Energia, nel 2016 il greggio ha rappresentato il 75% delle esportazioni saudite e il 60% delle entrate governative. Anche se meno petrodipendente, l’Iran, che vanta un’economia più diversificata, resta comunque in balia delle oscillazioni delle quotazioni internazionali del barile.
Quando è iniziato il crollo dei prezzi del greggio (nel giugno 2014 il Brent era a 115 dollari al barile, nel febbraio successivo si trovava a 40), sono iniziati i problemi.
Schiacciate dalle sanzioni, nei periodi più bui le esportazioni iraniane erano scese sotto i 700mila barili al giorno (con una media di circa un milione di barili). Nel 2016 sono balzate a due milioni di barili al giorno ed ora si aggirano sui 2,6 milioni. La produzione petrolifera è più che raddoppiata a 3,8 milioni di barili. I sauditi esportano oltre 10 milioni di barili.

Le riforme mancate e quelle (ambiziose) ancora da fare 
Tra le ragioni per cui molti iraniani sono scesi in piazza per protestare contro Hassan Rouhani, quel clerico-moderato che avevano riconfermato presidente soltanto sette mesi prima, ci sono soprattutto le mancate riforme economiche e la fallimentare battaglia contro la corruzione, una piaga che inghiotte miliardi di dollari ogni anno, frena gli investimenti stranieri, impedisce una crescita sana e una reale distribuzione della ricchezza.
Rouhani aveva posto l’economia al centro della sua campagna elettorale. Ma in realtà ha fatto ancora molto poco. E agli occhi di molti iraniani l’uomo della speranza è divenuto presto il riformatore mancato. L’Iran deve ancora scrollarsi di dosso l’ingombrante presenza dello Stato, o dell’esercito, in quasi tutti i più remunerativi settori dell’economia. Deve avviare quanto prima la riforma del suo obsoleto sistema bancario. E cercare di privatizzare l’economia.
Diversificare è la parola d’ordine anche dei sauditi. Se si dovesse riassumere il faraonico piano della monarchia saudita per rilanciare l’economia (Vision 2030), il motto potrebbe essere questo: «Spendere per crescere».

Il potente principe Mohammed Bin Salman (l’erede al trono conosciuto anche come MbS), è quanto mai determinato a procedere con il suo ambizioso piano di riforme per diversificare l’economia e sviluppare il settore privato. Per il 2018 la monarchia saudita si impegnerà così nel più costoso budget mai visto dai tempi dell’indipendenza: 261 miliardi di dollari. Come negli ultimi quattro anni, anche nel 2018 Riad sarà alle prese con un deficit di bilancio. La strada intrapresa, apprezzata dal Fondo monetario internazionale, sta portando tuttavia a una graduale riduzione del deficit, che nel 2015 era davvero ingombrante (100 miliardi di dollari).

Il nuovo budget non sarà poi all’insegna di regalie, aumenti dei salari pubblici, bonus e misure una tantum per placare il malcontento popolare. Tutt’altro. Contiene misure fiscali innovative per il regno saudita, come l’introduzione dell’Iva, pacchetti di robusti stimoli all’economia, ma anche tagli drastici e impopolari ai sussidi energetici (quelli alla benzina saranno azzerati, mentre quelli all’elettricità abbattuti). MbS intende dunque impiegare grandi risorse per creare un ambiente favorevole agli investimenti stranieri. Ecco perché il pareggio di bilancio è stato procrastinato al 2023. Ma forse pecca di ottimismo. Per esempio si attende per il 2018 una crescita del Pil pari al 2,7 per cento. Il regno confida in un aumento dei prezzi del greggio per rastrellare 133 miliardi di dollari dalle entrate energetiche rispetto ai 119 miliardi del 2017.

Una guerra per procura. In cui l’Iran è il vincitore. Per ora
Nonostante i botta e risposta tra Teheran e Riad assumano col passare dei mesi toni ormai apertamente belligeranti, un conflitto diretto tra le due potenze – per quanto non da escludere – è ancora un’ipotesi remota. L’Iran possiede un esercito più potente, numeroso, ed esperto. Riad sta cercando di correre ai ripari, con contratti per centinaia di miliardi di dollari. Riad è tra i primi tre paesi al mondo con il più alto rapporto percentuale tra spese militari e Pil ( superiore al 10%). L’Iran sta cercando di correre ai ripari con massicci aumenti di spesa per la Difesa.
I due paesi continueranno a combattersi nelle loro guerre per procura: in Yemen, dove la campagna militare saudita non ha sortito i risultati sperati, e in Siria. Se il presidente Bashar al-Assad è riuscito a rimanere al potere ed ora si appresta a riprendersi ampie pozioni del Paese, ciò lo si deve alla missione militare russa ma soprattutto alle milizie iraniane e a quelle degli Hezbollah libanesi, loro alleati. Insomma, con il crollo del regime siriano, l’incubo iraniano era di veder polverizzato lo strategico corridoio sciita che collega Teheran al Mediterraneo. Ma così non è avvenuto. L’Iran si è rafforzato in tutta la Siria ed in Iraq, paese già guidato da una governo a maggioranza sciita.

Due Paesi allergici al dissenso e ai diritti umani
Saranno anche acerrimi nemici, ma sulla restrizione della libertà di espressione, e su altre violazioni dei diritti umani, Riad e Teheran non sono certo esempi virtuosi. Tutt’altro.

Se l’Iran è il secondo paese al mondo che ha mandato a morte più persone nel 2016, l’Arabia è stato il terzo. Nella poco lusinghiera classifica dell’indice di percezione della corruzione i due paesi occupano le parti basse della classifica. E se in Iran la libertà di espressione è ridotta ai minimi, sul tema dei diritti delle donne, la strada dell’Arabia Saudita è ancora molto lunga. La recente revoca del divieto alla guida è solo un primo, piccolo passo. La donna saudita è un individuo abilitato nelle sue funzioni sociali e giuridiche, solo se accompagnata a un uomo. Senza di esso è un minore di fatto. Tanti problemi da risolvere. Ma non abbastanza per non farsi la guerra. Per ora, “fortunatamente” per procura.

 

 

Fonte 1 e fonte 2