democrazia

 

di Cristiano Lugli

 

Cari amici di Radio Spada,

Parlare in Italia di politica è un po’ come parlare di calcio: non se ne salta mai fuori perché, nell’accozzaglia di passionari democratici, c’è sempre chi vuol far prevalere un’altrettanta, insulsa, idea democratica.

I motivi per cui mi sono deciso a scrivere quanto precede e quanto seguirà, sono prevalentemente due: 1) ho letto sulla vostra pagina Facebook che, secondo qualche utente, io starei facendo propaganda elettorale per il Popolo della Famiglia; 2) le reazioni createsi a seguito di un mio precedente articolo apparso su Chiesa e post Concilio in cui, elogiando l’astensionismo cattolico, di fatto espugnavo l’illazione assurda legata al motivo n.1; che risolvo in due righe: non ho niente, di fatto, contro il partito di Mario Adinolfi. Penso che tutto sommato abbiano fatto una buona campagna elettorale e penso pure che, a differenza di altri, abbiano preferito starsene da soli senza accollarsi – come molti nel mondo del Family Day hanno fatto – a partiti di dubbia moralità per raggiungere un numero più alto di voti. Per il resto, non posso condividere un certo tipo di approccio che sta alla base di questo partito, legato, a mio avviso, a una visione della famiglia naturale figlia del personalismo di Giovanni Paolo II dal quale, di fatto, scaturisce il dramma moderno e finanche modernista. Precisato questo, cioè che non voterò per il PdF e nemmeno faccio propaganda a loro, tengo a spendere il resto sul punto n. 2, certamente più centrato sulla realtà delle cose piuttosto che sulla fantasia di qualcuno. Anche perché, sempre fra i vostri lettori, ho trovato spunti interessanti. Per fare ciò, dividerò tutto in alcuni punti a motivazione della posizione da me sostenuta e in risposta ad alcuni – non tutti – punti critici che ho notato in circolazione qua e là nel web. Qualche mini-spot elettorale insomma, visto che siamo in tema, e qualche mia personalissima riflessione priva di qualsiasi dogma d’infallibilità.

1) Partiamo dalla bella Piazza Duomo di Milano – sabato scorso – e in particolare dal clamoroso gesto di Salvini che, probabilmente impaurito dalla candidatura di Giulia Bongiorno, acerrima nemica della morale cattolica, teme di perdere il voto dei cattolici e dunque, con Rosario e Vangelo in mano, giura proprio sul secondo di essere fedele al popolo italiano. Di colpo le vesti stracciate da qualcuno si ricuciono, e anche i dubbiosi risolvono i loro dubbi: “Salvini ha fatto un gesto epocale! Ha giurato sul Vangelo e con il Rosario in mano, evviva! Bisogna votarlo assolutamente!”. Chi se ne importa poi se chi giura è tranquillamente divorziato-riaccompagnato, nonché sostenitore delle unioni (in)civili fra invertiti. Vi è ovviamente chi può fare peggio, come ad esempio l’Eccellenza milanese che invita Salvini ad occuparsi di politica e non di religione: aveva due colpi buoni in canna da poter sparare, l’Eccellenza, ma ha preferito una terza demenziale via. Avrebbe potuto invitare Salvini ad occuparsi di politica senza spergiurare, visto che la sua condotta morale non è delle più esemplari, e certamente avrebbe fatto buona sicura; avrebbe potuto – ma siamo nel raggio dell’utopia più accelerata – elogiare la politica che si occupa dei Diritti di Dio, dal momento che le due cose non possono essere scisse. L’Eccellenza, decide invece di fare la figura più becera, servendo su un piatto d’argento tutto gli insulti che si è preso (tutti giustamente dovuti) da chi gli ha ricordato che la campagna elettorale della Emma “Europa” Bonino si è svolta più dentro le chiese che sulle piazze. Ma si sa, all’Eccellenza milanese gli immigrati piacciono assai.

2)Ormai la democrazia ha fatto flop”, sostiene qualcuno. Ritengo questa frase assurda nella sua dimensione volta a comprendere l’oggettività dei fatti: non è che la democrazia “ormai” ha fatto flop, ma è il sistema democratico in generale ad essere, per sua natura, gravemente fallimentare. Esso riduce tutto alla piattezza più assoluta, sradicando l’efficacia dell’intelletto e sostituendola con l’arroganza del numero. Laddove non esiste gerarchia – nemmeno intellettuale – il sistema decade ipso facto. Come dice la Meloni – non rendendosi però conto che siamo noi a sbagliare, e non i greci – nell’Antica Grecia erano gli dèi a scegliere chi doveva governare. Così nell’Europa che fu Cristiana le dinastie di grandi re venivano certamente designate da un volere divino. Se anche si sono verificati casi di re indegni nella storia, così come di papi, ciò veniva permesso con la certezza che il sistema di governo rimanesse intatto nella sua imponenza, con una gerarchia ben delineata. Ovvio che ogni cosa è permessa da Dio; persino la democrazia! Ciò però non vuol dire che il sistema di scelta e di governo di quest’ultima possa essere paragonata a qualsiasi altra forma precedente come, ad esempio, la Monarchia. Vedremo poi perché.

3) Certuni rimproverano l’atteggiamento secondo il quale, non votando, si starebbe a guardare senza combattere, pensando che tutto ciò che accade sia un giusto castigo divino contro il quale non si debba far nulla, se non accettarlo gridando “mea culpa”. Anzitutto sono costretto a parlare di me stesso, per quanto non mi piaccia, di modo da non creare equivoci. Il sottoscritto ha mille difetti, così come gode di alcune qualità che il Buon Dio ha distribuito, distintamente, ad ogni uomo; fra questi doni, credo non mi manchi quello dell’azione e dell’intraprendenza, che ho sempre cercato, nel mio piccolo, di portare sul campo di battaglia. Non sento mia una simile critica pervenutami soprattutto in virtù del fatto che l’assenteismo, motivato e coscienziosamente scelto come atto volontario, risulta essere una vera e propria azione. La contemplazione, senza l’azione, è sempre e comunque insufficiente: i papi e i santi delle crociate ne sono l’esempio. Ecco perché sarebbe folle credere nel voto democratico come modello d’azione improcrastinabile nell’attuale momento storico.

4) Pensare di essere tarli che corrodono da dentro il sistema politico, come qualcuno sostiene dicendo che i cattolici devono turarsi il naso entrando dentro e combattendo da dentro, vuol dire essere come i tanti conservatori che vantano come modello assoluto questa strategia. Lo strabiliante endorsement al Centro Destra millantato da tanti ferventi cattolici, in particolare verso Salvini e Meloni – Dio ci scampi da Silvio! –, ricorda tanto questo atteggiamento: dalla Chiesa alla politica esso rimane lo stesso, pur con connotati diversi. Messa Tradizionale sì, ma ritorno alla Dottrina di sempre no, sta ad immigrazione no, ma aborto sì, o, quanto meno, perché no. Europa no, ma unioni fra sodomiti anche sì. Perché, d’altronde, come disse il buon Matteo – quello del Duomo e non quello della Leopolda – “ognuno è libero di amare chi vuole” [1]. Come si può notare, il Liberalismo offre mollica di pane buona per tutti i gusti: anche per i cattolici del “male minore” travestito da “meno peggio”. Piuttosto è questa ad essere una tendenza tipica della mentalità fuoriuscita dal Concilio Ecumenico Vaticano II e dai suoi postumi.

5) A proposito di quanto appena detto nel punto n. 4, qui vorrei, sperando di non risultare troppo pretenzioso, chiedere se nei programmi dei partiti di CD è per caso presente la proposta di abrogare l’omicida legge 194 e la legge 40 (ancor più omicida della prima), oltre che la legge Cirinnà e quella recente sulle DAT. Chi pensa che lasciare un simile status quo senza aggiungere altro di peggiore sia già sufficiente per essere credibile, sbaglia di grosso. Sarebbe come lasciare legalizzato l’omicidio senza fare niente per fermare una legge che lo permette: questo d’altronde fa la 194. Mi si potrebbe dire che questo stato di cose c’è da decenni. A questo rispondo che, almeno, la proposta andrebbe messa nel programma elettorale, soprattutto se, come dei falsari, si spergiura sul Vangelo di Gesù Cristo. Parlare della legge sul divorzio sarebbe troppo per un divorziato, lo capisco e quindi non infilo il dito nella piaga. Se ci si erge a difensori della famiglia e delle tradizioni, bisogna però avere un minimo di coerente decenza.

6) Ho letto, da qualche parte, che tirare in ballo Guareschi per elogiare l’astensionismo sia controproducente giacché, proprio Guareschi, votò la DC per arginare l’avanzata del PCI e PSI, coalizzati nel Fronte “Pecorale” (Popolare) Democratico. Non c’è bisogno di dirlo, visto che sono stato il primo a dirlo nel precedente articolo. Tuttavia ho motivato le ragioni per cui, probabilmente, anche Guareschi oggi sarebbe stato quantomeno in difficoltà. Ripeto allora che messer Guareschi votò perché inizialmente credette nella Democrazia Cristiana – che non sostenne più, invece, nelle elezioni del ’53 -, essa rappresentando qualcosa che poteva fermare l’avanzata del comunismo di stampo sovietico e anticlericale. La prima DC, infatti, fece ben sperare i veri cattolici – come appunto Guareschi – delusi dalla vittoria della Repubblica nel 1946, rivelandosi però poi collusa con idee apertamente catto-democratiche e quindi contrarie al fondamento cristiano. Ci sono sicuramente stati momenti storici in cui fu necessario votare, per arginare un’avanzata che pareva poter esser fermata. Oggi però il momento storico è nettamente diverso, dal momento che non esistono più i blocchi politici; la stessa forma politica è sfaldata ed esiste solo un polpettone di idee apparentemente diverse ma che, nella realtà dei fatti, hanno diversi punti in comune: primo fra tutti, il più dannoso, una fede immutabile nell’ideale democratico e liberale.

7) Questo settimo punto è quello su cui più mi preme soffermarmi, avendo notato interpretazioni – anche della Sacra Scrittura – a mio avviso completamente disordinate. Quando si parla del tema dell’Autorità, specie quella civile, non si può risolvere tutto con argomenti soggettivisti e relativi ad un attuale momento storico.

Ho notato che si è voluto scomodare San Paolo, nella lettera ai Romani, cap. 13,  epperò facendogli dire cose a metà. Il rispetto civile che l’Apostolo delle Genti chiede è certamente all’autorità romana del tempo, quindi pagana, ma è proprio qui che sta l’errore del paragonare tale autorità a quelle presenti nelle forme di governo odierne. Il perché, più nello specifico, lo vedremo fra un attimo. Soffermiamoci ora un momento sul concetto di Autorità, e alle differenze che si creano fra chi compete questo ruolo in modo degno e chi, invece, in modo del tutto indegno come tutti i politici odierni, frutto di quel miraggio liberal-capitalista che sarebbe meglio del blocco comunista ma che, in realtà, è solo l’altra faccia della medesima medaglia.

È vero che non può esistere una pacifica e ordinata convivenza degli uomini senza che un’autorità li coordini, facendo giustizia  – specie per i più deboli e i più indifesi -, e garantendo la Pace di Dio fra i popoli, a volte anche con la guerra alla stregua del motto “si vis pacem, para bellum”. Tale è l’autorità, definita di diritto naturale, il cui Autore primo è Dio stesso. L’autorità umana proviene perciò dalle Mani di Dio, dalla Sua volontà comunemente detta volontà di beneplacito.

Rimane però da distinguere il fatto che la volontà di Dio non determina che vi sia un determinato tipo di governo o una determinata persona a capo di esso, perché le scelte cattive degli uomini condizionano le situazioni e il tempo. Ecco perché, allora, alla volontà di beneplacito si “oppone” la volontà di permissione.

Il sistema politico attuale, e quindi democratico, è palesemente perverso perché livella tutto orizzontalmente, senza più nessun aspetto trascendentale o metafisico.  Possiamo allora pensare che in simile regime politico l’Autorità venga da Dio? Assolutamente no. E se lo status politico non viene da Dio, neanche l’ “autorità” che ne sta a capo potrà venire da lui ma, tutt’al più, potrà essere permesso: da ogni Male Dio può trarre maggior Bene, epperò questo non scusa il Male, né chi lo agevola o lo approva.

Persino Giovanni XXIII specificò alcune di queste differenze nell’Enciclica “Pacem in terris”, riportando anche il pensiero di San Giovanni Crisostomo a proposito dell’Autorità:

“La convivenza tra gli esseri non può essere ordinata e feconda se in essa non è presente un’autorità che assicuri l’ordine e contribuisca all’attuazione del bene comune in grado sufficiente. Tale autorità, come insegna s. Paolo, deriva da Dio: Non vi è infatti autorità se non da Dio (Rm 13,1-6). Il quale testo dell’Apostolo viene commentato nei seguenti termini da S. Giovanni Crisostomo: “Che dici? Forse ogni singolo governante è costituito da Dio? No, non dico questo: qui non si tratta infatti dei singoli governanti, ma del governare in se stesso. Ora il fatto che esista l’autorità e che vi sia chi comanda e chi obbedisce, non proviene dal caso, ma da una disposizione della Provvidenza divina” (S. GIOVANNI CRISOSTOMO, In epist. ad Rom., c. 13). Iddio, infatti, ha creato gli esseri umani sociali per natura; e poiché non vi può essere società che si sostenga se non c’è chi sovrasti gli altri, muovendo ognuno con efficacia ed unità di mezzi verso un fine comune, ne segue che alla convivenza civile è indispensabile l’autorità che regga; la quale, non altrimenti che la società, è da natura, e perciò stesso viene da Dio” (cfr. LEONE XIII, Immortale Dei)” (Pacem in terris, 19).

E ancora:  “L’autorità non è una forza incontrollata: è invece la facoltà di comandare secondo ragione. Trae quindi la virtù di obbligare dall’ordine morale: il quale si fonda in Dio che ne è il primo principio e l’ultimo fine”.

È ovvio allora che, seppur ogni autorità venga da Dio, non è consequenziale che tutto quello che essa comanda sia voluto da Dio: quando i comandi dell’autorità sono legittimi, allora obbedire all’autorità equivale ad obbedire a Dio; quando invece i comandi sono iniqui, non si può evidentemente attribuire il governo di quella “autorità” a Dio, ed anzi sarà doveroso disobbedire.

“(…) La loro obbedienza [dei cittadini, NdR] ai Poteri pubblici non è sudditanza di uomo a uomo, ma nel suo vero significato è un atto di omaggio a Dio creatore e provvido, il quale ha disposto che i rapporti della convivenza siano regolati secondo un ordine da Lui stesso stabilito; e rendendo omaggio a Dio, non ci si umilia, ma ci si eleva e ci si nobilita, giacché “servire Deo regnare est”’ (Pacem in terris, 22). 

Si può intuire quindi che ogni governo incapace di rinunciare a leggi inique, anche approvate da governi precedenti, governando senza abrogarle o ancor peggio adagiandosi su uno status quo preesistente, sia da ritenersi tutt’al più permesso, per  un disegno divino che sfugge a noi uomini. È falso però parlare di meno peggio: “Bonum ex integra causa: malum ex quocumque defectu”, spiega San Tommaso.

Ed è sempre l’Aquinate a ricordarci che “la legge umana in tanto è tale in quanto è conforme alla retta ragione e quindi deriva dalla legge eterna. Quando invece una legge è in contrasto con la ragione, la si denomina legge iniqua; in tal caso però cessa di essere legge e diviene piuttosto un atto di violenza” (Summa Theologiae, I-II, 93, 3, ad 2)”.

Ritornando – e concludendo il punto – all’auctoritas romana che Nostro Signore Gesù Cristo, ancor prima di Paolo, riconobbe come proveniente da Dio e quindi degna di rispetto, va tenuto in considerazione un aspetto molto importante, che differenzia quel riconoscimento dagli altri poiché incentrato su una specifica autorità. In due punti Cristo riconosce l’autorità romana:

– “Date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio” (Mt. 22,21);

– “Non avresti alcun potere su di me se non ti fosse dato dall’Alto” (Gv. 19,11).

Nel primo caso, mentre Gesù risponde agli erodiani e ai farisei che lo interrogavano sul tributo, viene delineato il dovere di dare all’autorità ciò che, di fatto, all’autorità spetta. Nel secondo caso, invece, mentre Gesù risponde a Pilato che gli fa presente quanto il suo potere possa essere utile a liberarlo, viene dichiarato dal Figlio di Dio proprio quello che San Paolo ripete a proposito dell’autorità che viene da Dio.

Orbene, così come non a caso il Figlio di Dio decise di incarnarsi in un determinato momento storico, così non a caso dice queste parole a riguardo di due autorità presenti durante la sua vita terrena: paragonare le autorità romane, sol perché pagane, a un tipo generico di “autorità”, è qualcosa di folle. Cristo riconosce in Cesare e in Pilato due autorità alle quale è conferito potere dall’Alto perché è in Roma che il Cristianesimo e la Sua Chiesa nacquero e sempre vivranno. La Croce purpurea che si innalza verso il Cielo sconvolge, convolge e riassume orizzontalmente e verticalmente la tradizione romana insieme a tutto il suo Impero. Roma, con i suoi simboli e la sua autorevolezza, diventa parte integrante del Cattolicesimo – che è solo ed esclusivamente romano. Dio non decide di cancellare Roma, ma anzi la risucchia nel Cristogramma che di lì in avanti trionferà glorioso sulle corone dorate dei Re. L’Autorità Romana, ancorché pagana, aveva ragione di essere e nulla può esistere di paragonabile lungo i secoli precristiani e post-cristiani quale il nostro, meno che mai la squallida democrazia contemporanea, dove si predilige lo stolto al sapiente. San Tommaso ricorda che la colpa dei romani non è paragonabile a quella dei giudei, giacché i primi, a differenza dei secondi, non sapevano. Ma sarà proprio Roma a sottomettersi al Cristianesimo divenendo il Centro di tutto, la vera e propria “caput mundi”. I simboli e i paramenti della liturgia romana hanno molto da raccontare su quanto l’autorità – quella che realmente viene da Dio per beneplacito – contasse nella Roma pagana la quale, dopo aver conosciuto Cristo e la Via della Croce, ne diventa il Vaso fiorente sopra il quale il sangue dei Martiri vivificherà la Chiesa Una, Santa, Cattolica, Apostolica e Romana.

CONCLUSIONE

Per chiudere questo capitolo, lasciando poi spazio a quelle che saranno le solite, immancabili, proteste democratiche (a proposito) non posso fare a meno di dire, avendolo in questi giorni più fortemente notato, che molti dei professi antimoderni pensano, parlano e agiscono in perfetta sintonia con lo spirito tipicamente moderno. Con il risultato di essere, alla fine, più moderni degli stessi che si pregiano di esserlo senza indugio alcuno. Inorridisco quando leggo di cattolici che paragonano il voto a qualcosa di vitale, a qualcosa senza il quale ci si deve porre addirittura interrogativi gravi di coscienza, quando tutt’al più può esser vero il contrario. Costoro, oltre ad essere intrisi del pensiero radicalmente democratico contro il quale vorrebbero poi opporsi, sono identici all’altro fronte della barricata, cioè a coloro che parlano di un’importanza quasi metafisica del voto, a causa della morte dei loro padri, nonni, bisnonni, trisavoli e via discorrendo, “che ci hanno donato la Costituzione più bella del mondo”.

Concludo veramente: ognuno è libero di andare a votare chi gli pare, e nemmeno biasimo chi lo fa per comprensibile disperazione; basta poi non fare le pulci a chi non lo fa, parlando di grave responsabilità o di mancanza di amore per la propria patria: a proposito di questo, mi sovviene un aneddoto in cui fu coinvolto un tale Anassagora, filosofo della Grecia antica, stimatissimo da Aristotele. Di costui si dice che fosse talmente disinteressato (rinunciò ad esempio alla cospicua eredità paterna) e unicamente volto allo studio e all’applicazione della Filosofia, da trascurare la politica fino al punto di essere accusato dai suoi contemporanei di non avere a cuore i problemi della sua patria. Di fronte a tali accuse, egli, indicando il cielo con un dito, così si difese: “M’importa e molto della Patria!”

Come già detto, si può certamente comprendere chi per disperazione va a votare, sperando nel meno peggio ma facendolo tuttavia con disinvoltura. Tale disinvoltura dovrebbe albergare, in egual modo, sia in chi vota, che in chi non vota. Questo sarebbe l’unico modo per scusare la scelta di un cattolico votata al “se lo devo fare, lo faccio…”.

La notarella in più per i votanti accaniti del Centro Destra (e sottolineo: accaniti, non disincantati), invece, è ricordare che i partiti della suddetta coalizione – tutti e tre dalla testa ai piedi – sono pregni del peggior Liberalismo. E il Liberalismo, cari fratelli cattolici, come diceva Padre Félix Sardà y Salvany (Radio Spada ne sa qualcosa) è il peggiore fra tutti i peccati.