citazione a cura di Luca Fumagalli

Continua il nostro viaggio tra le pagine migliori de “Il trionfo del re”, romanzo storico del 1905 a firma di mons. R. H. Benson.

Nel seguente brano il famigerato primo ministro Cromwell rivela a Ralph, il protagonista del libro,  i progetti di Enrico, intenzionato a rompere definitivamente con Roma pur di sposare Anna Bolena, la cortigiana di cui si è perdutamente invaghito. Nonostante alcune proteste e sommosse, il re prosegue noncurante sulla via dello scisma. Al clima di sospetto e paura che circonda la corte inglese si oppone il gioviale More che Ralph va a visitare in carcere. L’uomo trae la sua proverbiale forza d’animo dalla profonda fiducia che nutre nella volontà di Dio.

Aveva trascorso un’intera mattinata nella stanza di Cromwell, nella Cancelleria, occupato attorno alle testimonianze di avversione per la politica di Enrico che piovevano da tutte le parti, separando le incriminazioni senza valore da quelle serie. Tutti i giorni gli giungevano dalle spie disseminate per tutto il Paese torrenti di simili testimonianze, relative al crescente malumore per i metodi usati dal governo; e Cromwell, come consigliere del re, veniva accusato di molti abusi. Veniva riportata qualsiasi manifestazione di tali sentimenti; le chiacchiere nelle osterie come quelle alla tavola dei signori, parole dette durante una partita di caccia o giocando alle carte. I colpevoli erano trattati in vari modi; alcuni severamente rimproverati o semplicemente avvertiti; ad altri veniva fatta una visita improvvisa in casa da parte di un cursore coi suoi uomini. Al termine della mattinata Ralph stese come al solito la sua relazione e stava per andarsene quando Cromwell lo richiamò dalla porta.

«Un momento, ho qualcosa da dirvi. Sedetevi». Quando Ralph fu tornato a sedersi, Cromwell prese in mano una penna e cominciò a giocherellare con essa mentre parlava. «Avrete notato», incominciò, «come sono eccitati gli animi in tutto il Paese e son sicuro che ne avrete anche compresa la ragione. Non è tanto quello che è accaduto – voglio dire nella questione del matrimonio e dei frati – ma ciò che il popolo teme debba accadere. Teme che la sicurezza stia per scomparire; non comprende che la miglior sicurezza è riposta nell’ubbidienza. E soprattutto crede che le cose si volgano in male per la Chiesa. Esso sa che il papa ha parlato e che il re, anziché dargli retta, diventa sempre più audace, e questo perché la sua coscienza glielo comanda. Ricordatevi di ciò quando avrete da trattare con Sua Maestà». Diede di nuovo uno sguardo a Ralph, ma non c’era nei suoi occhi gravi vestigio di canzonatura. Poi continuò.

«Vi dirò, Sir Torridon, che la gente non ha tutti i torti, e che Sua Maestà non ha ancora fatto tutto quel che intende fare. C’è ancora un passo da compiere, ossia dichiarare il re capo supremo della Chiesa d’Inghilterra». Ralph sentì quegli occhi potenti fìssi su di lui e chinò il capo senza segni di approvazione o altro.

«Questa non è una novità, Sir Torridon», riprese Cromwell dopo un momento di silenzio. «Il re d’Inghilterra è sempre stato il capo supremo; devo però riconoscere che questa realtà è stata un po’ misconosciuta in questi ultimi tempi, ma è ora che sia riaccettata. I papi sono diventati presuntuosi e hanno vantato il diritto a titoli che Cristo non ha mai concesso ed è tempo che sappiano che l’Inghilterra è libera e non soffrirà più oltre il loro dominio. Quanto all’unità della Chiesa cattolica, questa potrà essere oggetto di considerazione in seguito e con più solido fondamento quando cioè il papa avrà imparato a non essere così orgoglioso. Frattanto verrà emanato a tale scopo un atto del Parlamento forse l’anno venturo, e allora sapremo meglio quello che bisognerà fare. Fino a quel tempo è assolutamente necessario, co-me vi siete accorto voi stesso, tenere il popolo calmo e non permettere opposizioni ai diritti di Sua Maestà. Mi capite, Sir Torridon?» Cromwell depose la penna e si appoggiò alla sedia, stringendosi le mani.

«Capisco», disse Ralph con voce perfettamente uguale.

«Bene, questo è tutto quello che ho da comunicarvi», terminò Cromwell guardandolo ancora. «Non ho bisogno di dirvi quanto sia necessario mantenere il segreto in questa materia».

Ralph era fortemente impressionato tornando a casa e comprese meglio allora quello che aveva udito. Mentre persone assennate tremavano già per la sfrontatezza e l’audacia del re, Enrico meditava un passo ancor più avanzato. Incominciò a capire che l’istinto di tutto un popolo era, come sempre, più perspicace di quello di un individuo e che questa inquietudine generale nasceva da una ben definita percezione del pericolo. L’idea della supremazia del re, quale l’aveva dipinta Cromwell, non sembrava voler essere un allontanamento reciso dal passato; simili proteste di libertà erano state fatte in precedenti regni. Ora però, fondandosi, come faceva, su un atto di aperta insubordinazione al Sovrano Pontefice e di negligenza verso la sua autorità in cose riguardanti la legislazione ecclesiastica e persino lo stato delle case religiose, palesava un significato che le proteste precedenti non avevano avuto. E dietro a tutto ciò vi era la coscienza del re! Questo era un pensiero nuovo per Ralph, ma più egli lo considerava e più ne restava avvinto. Era una coscienza curiosa, ma potente e sorretta da una volontà indomabile. Per la prima volta balenò nella mente di Ralph un lampo circa la possibilità che aveva sognato fino allora – quella di un nazionalismo spirituale – in forza del quale il vescovo di Roma, sebbene capo supremo della cristianità e dotato di speciali prerogative, non dovesse avere nessuna ingerenza negli affari della nazione; questi dovevano essere invece unicamente regolati dall’autorità civile. Senza dubbio, diceva, una riforma era necessaria: visioni e fantasie avevano formato una tale incrostazione attorno alle pratiche religiose che una ripulitura era invocata. Ma cosa sarebbe capitato se con questo metodo non solo si fossero eliminate tali superfetazioni, ma regolate questioni di maggiore importanza pratica e fatti dei passi per modificare le ingiustificate interferenze e le domande pecuniarie di questo vescovo straniero?

Aveva avuto più di un colloquio con Sir Thomas More nella Torre, e una volta poté portargli notizie della famiglia. Per un mese nessuno dei familiari, eccetto un servo, riuscì a fargli visita, e Ralph, andando da lui circa tre settimane dopo l’incarceramento, lo trovò ansioso di notizie. Viveva in una cella abbastanza comoda della Torre Beauchamp; il pavimento era ricoperto di stuoie; il letto stava in un angolo, con il crocifisso e la corona del rosario su un tavolino di fianco. Una stretta finestra guardava fuori attraverso tre metri di muro verso il Pa-lazzo di Giustizia e la Torre Bianca.

Anche i libri, che il servo John Wood aveva portato da Chelsea e che non gli erano ancora stati tolti, stavano qua e là nella camera e alcuni giacevano sul tavolo tra le carte su cui stava scrivendo quando Ralph fu introdotto dal custode.

«Sono molto contento di vedervi, Sir Torridon», disse; «sapevo che non avreste dimenticato un vecchio amico anche se lui non aveva accettato il vostro consiglio. Scommetto però che siete venuto per darmelo un’altra volta».

«Se sapessi che voi l’accettate», rispose Ralph.

«Ma non lo accetto», disse More sorridendo, «non più di quanto lo abbia accettato prima. Sedetevi, Sir Torridon». Ralph, pur essendo venuto dietro suggerimento di Cromwell, c’era venuto molto volentieri anche per interessi particolari. Sapeva di non poter dare a Beatrice una soddisfazione maggiore che visitare l’amico e si rallegrava al pensare che poteva in tal modo servire contemporaneamente i propri interessi e quelli del suo mandante. Parlò ancora un po’ del giuramento e del numero di quelli che l’avevano prestato durante le due ultime settimane.

«Sono contento che essi possano farlo con la coscienza tranquilla», osservò More. «E ora parliamo d’altro. Se non voglio prestarlo neanche per amor di mia figlia che mi ha scongiurato, non lo presterò certamente per compiacere ambedue le Camere del Parlamento e neppure, caro Sir Torridon, per compiacere voi e Sir Cromwell». Ralph vide che era inutile insistere e incominciò a parlare d’altro. Gli dette notizie di Chelsea.

«Non sono molto allegri, laggiù», disse, «e credo che voi stesso non vogliate che lo siano».

«Perché no?» ribatté More con volto raggiante. «Io sono abbastanza allegro. Non ho voluto farmi monaco; così Dio mi ha costretto a diventarlo e mi tratta come un bambino troppo viziato. Mi fa sedere sul suo grembo e mi culla. Io non sono mai stato così felice». Disse poi a Ralph che il suo più grande dolore era di non poter andare a messa né ricevere i sacramenti. Il Luogotenente, Sir Edward Walshingham, che era stato suo amico, gli aveva detto che gli avrebbe ben volentieri concesso tale libertà, ma che non osava per timore della disgrazia del re.

«Ma io gli ho risposto», riprese More, «che non si prendesse pensiero; che mi piacevano i suoi modi di fare così com’erano e che, se mai non mi fossero più piaciuti, mi mettesse pure fuori della porta». Dopo alcuni minuti di conversazione fece vedere a Ralph ciò che stava scrivendo. Era un trattato intitolato Dialogo del conforto nella tribolazione. «L’ho fatto per persuadermi che non sono maggiormente prigioniero di quanto lo fossi prima; so che è così, ma qualche volta me ne dimentico. Noi siamo tutti prigionieri di Dio». Ralph fece scorrer lo sguardo sulla pagina appena scritta e si stupì del buon umore che ne sprizzava.

«Qualche detenuto di un’altra prigione», lesse, «canta, danza nei suoi ceppi e non teme di inciampare in un sasso; mentre un prigioniero di Dio che ha solo un piede inceppato dalla gotta, se ne giace gemendo su di un letto e si agita e grida se sta per cascargli sui piedi un cuscino».