citazione a cura di Luca Fumagalli
Inizia con questo brano il viaggio tra le pagine migliori de “I necromanti”, romanzo del 1909 scritto da mons. Robert Hugh Benson e dedicato ai pericoli per l’anima connessi allo spiritismo e alle pratiche magiche.
Laurie Baxter è distrutto dalla morte dell’amata Amy. La ragazza, con cui aveva sperato di condividere una futuro felice, ora non c’è più. Tutte le certezze crollano improvvisamente e il protagonista si chiude nell’autocommiserazione. Non gli rimane altro che abbandonarsi ai ricordi felici, mentre Dio appare sempre più lontano.
Era il figlio unico di una vedova, aveva una rendita eccellente, stringeva amicizie ovunque andava e si era appena assicurato le stanze più carine vicino al Tempie. Aveva parecchio cervello, un cuore fin troppo appassionato, e aveva da poco abbracciato una fede che soddisfaceva ogni istinto della sua natura. Era il migliore dei mondi possibili e gli calzava a pennello come i suoi vestiti di buon taglio. Era fatto di privilegi senza responsabilità.
E ora era giunto lo schianto, e tutto era finito.
Quando suonò il gong per il pranzo si rigirò sdraiato sulla schiena, fissando il soffitto.
Sarebbe stato un volto davvero attraente in altre circostanze. Da sotto ai suoi riccioli castani, con appena un tocco d’oro, sbucavano fuori un paio di occhi grigi, una settimana prima splendenti, ora umidi di lacrime, e sottolineati da rughe di dolore. Le sue labbra ben disegnate, piuttosto passionali, erano ora contratte con gli angoli in giù, in un’espressione di autocontrollo rabbioso che faceva pena a vedersi; la sua pelle chiara appariva chiazzata e opaca. Non aveva mai neanche immaginato potesse esistere una disperazione simile in tutta la sua vita.
Mentre stava così, con le mani abbandonate lungo i fianchi, che di tanto in tanto si contraevano nel dolore del ricordo, vedeva una sequenza interminabile di scene e si volgeva a tratti alla contemplazione di un futuro buio senza vita, né amore, né speranza. Vide di nuovo Amy, così come l’aveva vista la prima volta in quella luminosa serata di luglio, in alto ingioiellata di stelle ammiccanti, ma ambrata verso ovest, dove il sole era disceso in fiamme. Lei portava il suo cappello da sole e il vestito stampato, mentre gli veniva incontro attraverso l’erba del pascolo che, da poco tosato dei suoi fiori e germogli, mandava un fresco profumo; e lo guardava con quella curiosa ammirazione impaurita che lo deliziava adulandolo. Aveva il viso rivolto a occidente: il trionfo del sole vi si rifletteva delicato come la luce su di un fiore e i suoi occhi blu lo guardavano da sotto un alone di capelli dorati.
La vide anche com’era stata una sera di luna, nella quale erano rimasti assieme presso la chiusa di un torrente, nella quiete del bosco sotto al villaggio, con tutto il paesaggio fiabesco attorno e dentro i loro cuori. Lei aveva avvolto il capo in uno scialle ed era sgattaiolata lì per vie secondarie al loro appuntamento, per incontrarlo, come stabilito, quando sarebbe uscito dopo cena, ancora tutto in ghingheri come si usava nelle famiglie importanti, con l’abito da sera, le scarpe con la fibbia e i pantaloni al ginocchio. Quant’era bella allora – una dolce ninfa in carne e ossa, a cui la luna conferiva una delicatezza eterea, col pallore vivo della pelle abbronzata e gli occhi che lo guardavano come stelle da sotto il suo scialle. Si erano detti ben poco; erano rimasti là in piedi al cancello della chiusa, il braccio di lui attorno alle spalle di lei, e lei che gli si rannicchiava contro, tremando ogni tanto; a guardare la superficie lucente del torrente che scorreva lento. Da essa, nell’impercettibile brezza della notte, uno dopo l’altro, spettri di vapore acqueo fuggivano per fluttuare e perdersi nei boschi addormentati.
O ancora, più nitidamente di tutto il resto ricordò quella volta che l’aveva guardata di nascosto, posticipando della delizia di rivelarsi, in un mattino d’agosto, appena tre settimane prima, quando lei era scesa lungo la strada che passava vicino alla casa, sempre col suo cappello da sole e il vestito stampato, con le gocce di rugiada che le splendevano intorno sull’erba e sulla siepe, e la nebbia di un mattino estivo che velava l’intenso blu del cielo. Poi l’aveva chiamata gentilmente per nome, e lei aveva rivolto verso di lui il viso illuminato dall’amore e dallo stupore… Ricordava anche ora, con un’intensità che rasentava l’illusione, il profumo del tasso e dei fiori del giardino.
Questo, dunque, era stato il sogno; e oggi il risveglio e il finale.
Quel finale era anche più terribile di quanto egli avesse ritenuto fosse possibile in quell’orrendo venerdì mattina della settimana precedente, quando aveva aperto il telegramma del padre di lei.
Non aveva mai compreso lo squallore dell’ambiente di lei bene quanto un’ora prima, quando si era trovato presso la tomba, con gli occhi che vagavano dalla lunga cassa d’olmo con la targa d’argento e una corona di fiori alle persone che piangevano dall’altra parte – il padre con il suo vestito di panno, la sua faccia severa e liscia contorta in rughe di grottesco dolore; la madre, con le gote paonazze inondate di lacrime, il suo elaborato abito nero, l’intollerabile nastro nero, e il mantello che cadeva rigido. Anche queste persone le aveva viste fino ad allora attraverso un velo d’amore; le aveva ritenute gente semplice e onesta, creature del suolo, ma moralmente sane, naturali e solide. Ora che il gioiello era andato perduto, l’astuccio era peggio che vuoto. Là nella cassa d’olmo giacevano i resti della gemma distrutta… L’aveva vista nel suo letto la domenica, col viso deperito, gli occhi infossati, tutta incorniciata nel detestabile bianco dei lini e dei fiori di cera, ma tuttavia commovente e attraente come sempre, e come sempre indispensabile alla sua vita. Era stato allora che il fatto principale si era presentato per la prima volta alla sua consapevolezza, e cioè che l’aveva persa – il fatto, enfatizzato quel mattino dalla scena del funerale, dalla folla che era venuta per vedere il giovane signore, dalla cassa d’olmo, dal mucchio di fiori, che l’aveva ora gettato su questo divano, spezzato, distrutto e privo di speranza, come una giovane edera dopo una tempesta.
Gli stati d’animo si alternavano in lui con la rapidità delle nuvole che passano. Un istante era furioso di dolore e l’istante dopo distrutto e passivo per la stessa ragione. Un momento malediceva Dio e desiderava morire, ribelle e furioso; e il momento successivo sprofondava in se stesso, debole come un bambino torturato, mentre le lacrime gli scorrevano sulle guance e piccoli gemiti come quelli di un animale gli sfuggivano dalla gola. Dio era un odiato avversario, un Giudice senza pietà… un Destino Cieco… non c’era un Dio… Lui era un demonio… non c’era niente nell’intero universo se non Dolore e Vanità…
Ma sotto a tutto, come una nota di basso continuo, pulsava il suo bisogno della ragazza. Avrebbe fatto qualsiasi cosa, sopportato qualsiasi cosa, offerto qualsiasi sacrificio, momentaneo o di una vita, se solo avesse potuto rivederla, stringere la sua mano per un istante, guardare dentro i suoi occhi resi misteriosi dal segreto della morte. Aveva solo tre o quattro parole da dirle, solo per assicurarsi che lei vivesse e fosse ancora sua, e poi… poi le avrebbe detto addio, appagato e felice di aspettare finché la morte non li avrebbe riuniti. Ah! Chiedeva così poco, e Dio non gliel’avrebbe concesso.
(Brano tratto da: R. H. BENSON, I Necromanti, Verona, Fede & Cultura, 2012)