citazione a cura di Luca Fumagalli
Si conclude con questo brano il nostro viaggio tra le pagine migliori di “Con quale autorità?” (1904), romanzo storico di mons. R. H. Benson ambientato in epoca elisabettiana, all’inizio delle persecuzioni anticattoliche.
Anthony e Isabel, divenuti cattolici, si recano a Stanfield dove sono accolti da Buxton, finalmente liberato dalla prigione. La sua casa è un luogo sicuro per potersi nascondere dalle guardie. Alla sera giunge Mary Corbet, cattolica dama di compagnia della regina e amica dei Norris, che racconta loro l’uccisione di Maria Stuart, ingiustamente condannata con l’accusa di aver partecipato a un complotto ai danni di Elisabetta. La sua morte è una straordinaria testimonianza di fede.
Passarono allora in salotto, dove Mary fece cenno al signor Buxton di spegnere le candele, in modo che la stanza rimanesse illuminata soltanto dalla vacillante fiamma del caminetto. Allora, nel più profondo silenzio, incominciò il doloroso racconto. Parlò prima degli ultimi mesi dell’infelice regina, intorno alla quale l’astuto Walsingham[1] aveva teso come una rete, sì che alla fine essa non poteva più fare un solo passo senza che si accusasse tanto lei che i suoi amici di trame vere o immaginarie; disse come lei stessa, nel dicembre dell”86, era stata mandata a Fotheringay da Elisabetta nella speranza che, essendo cattolica, Maria Stuart le facesse delle confidenze e finisse anche per confessare d’aver preso parte alla cospirazione di Babington, ciò che invece essa negò sino all’ultimo, e persino nelle sue più intime conversazioni[2].
«Ebbene, vi assicuro che, per quanto fosse già stata condannata a morte, la terribile sentenza non sarebbe mai stata firmata da Elisabetta, se Maria Stuart si fosse dichiarata colpevole del delitto del quale era stata accusata.
L’infelice regina riceveva poi di continuo ogni genere di insulti: un giorno mi condusse nella sala, dove un tempo era stato il suo trono, spogliato adesso del drappo regale, e dove Sir Amyas Paulet[3] osava sedersi in presenza sua col cappello in capo, e mostrandomi un crocifisso, che aveva fatto appendere dove prima erano le sue insegne reali, mi disse: “J’en appelle de la Reine au Roi des rois”[4].
Quella stessa sera, nell’affacciarmi a una finestra, vidi nel cortile il fratello di Walsingham che scendeva in quel momento da cavallo, e dall’espressione del suo viso capii che i nemici di Maria Stuart avevano ottenuto ciò che volevano, e che egli veniva con la sentenza di morte. Il lunedì arrivò Lord Kent e il giorno dopo Lord Shrewsbury, anch’essi assetati di sangue. Entrati nella sala dov’era la regina, che aveva appena finito di pranzare, le dissero che l’esecuzione avrebbe avuto luogo il giorno dopo. Io, che ero ritta dietro la sua sedia, guardai istintivamente la sua mano, che poggiava sul bracciolo, ma non potei notare il minimo tremito. Sua Maestà rispose che ciò non poteva essere vero, e che non credeva sua cugina Elisabetta capace di un tale atto. Ma quando poi dovette convincersi che quella era purtroppo la verità, non pianse né implorò misericordia; ma con dignitosa calma incominciò a prepararsi alla morte, e anzitutto chiese di potersi confessare da don Preau. A ciò Lord Kent rispose con un rifiuto e offrì invece di mandarle il signor Fletcher, assicurandola che era un sant’uomo. “Je n’en doute pas”[5] disse ella sorridendo.
Non potendo dunque avere un prete, ciò che per lei fu molto doloroso, si confessò direttamente a Dio, e pensato così all’anima sua si occupò di sistemare varie altre cose. Quindi, dopo avere cenato con le sue dame, fece chiamare il signor Gorion[6] per consegnargli alcuni oggetti da distribuirsi dopo la sua morte. Sino alle due del mattino stette alzata scrivendo e dando i suoi ultimi ordini. Nella corte intanto era un continuo andare e venire di gente, e, nell’attraversare un andito, vidi le torce di coloro che erano venuti ad assistere alla sua fine, e sentii i colpi di martello nella grande sala. Finalmente la regina andò a letto e credo che in quella notte nessuno nel castello dormisse più tranquillamente di lei. Prima dell’alba tornai in camera sua insieme con le altre dame, e fu uno strazio vedere quel dolce viso riaprire gli occhi alla terribile realtà. L’accompagnammo poi nel suo oratorio, dov’ella prese la pisside d’oro inviatale dal Santo Padre e si comunicò da sé, non essendo stato permesso ad alcun sacerdote di avvicinarla. Dopo pochi minuti si udì picchiare alla porta; erano venuti per condurla al patibolo. Volemmo seguirla, ma ci fu impedito: essa doveva morire sola fra i suoi nemici. Finalmente fu concesso a due delle sue dame di accompagnarla; ma io, decisa a qualsiasi costo a essere presente ai suoi ultimi momenti, mandai un biglietto a Lord Shrewsbury, che avevo conosciuto a corte, pregandolo di concedermi questa grazia. Mentre aspettavo la risposta, mi giunse dal cortile il suono della Canzone funebre delle streghe. Anche i musicisti si facevano scherno dell’infelice regina! Finalmente venne un alabardiere con l’ordine di farmi passare».
Mary Corbet tacque per alcuni istanti. Si era nascosta il viso col ventaglio e la sua persona, di solito così irrequieta, aveva assunto l’immobilità di una statua. I suoi uditori, impressionati dalla dolorosa narrazione e dal tono oltremodo commosso della sua voce, tacevano anch’essi.
«Il patibolo» riprese Mary «era stato innalzato nella parte più alta della grande hall e ricoperto da un drappo nero; nel camino ardeva un gran fuoco. All’entrare della regina tutti i gentiluomini là riuniti l’accolsero con riverente silenzio, a eccezione di uno che osò ridere. Sua Maestà, che vestiva di nero, avanzò con passo fermo e salì sorridendo i gradini del funereo trono; si sedette e guardò serena in giro. La… la mannaia era proprio di fronte a lei. Beale[7] allora si mise a leggere la sentenza, e vidi i Lords fissare lo sguardo su di lei nell’udir pronunciare le ultime parole; ma il suo viso non manifestò che una lieta speranza. Guardò poi con intenso affetto il crocifisso d’avorio che teneva in mano, e le sue labbra si mossero leggermente; parlava con Colui che era morto per lei».
Mary Corbet tacque di nuovo per alcuni istanti e nel silenzio si udì un suo singhiozzo; dopo un po’ continuò con voce ancora più bassa:
«Il signor Fletcher incominciò a rivolgerle delle esortazioni, ma dovette suo malgrado interrompersi varie volte; alla fine la regina gli disse sorridendo di non disturbarsi maggiormente, poiché essa moriva nella religione cattolica. Fletcher non si volle dare per vinto e continuò a parlare, mentre essa fissava di nuovo lo sguardo sul crocifisso.
“Non è il tenere in mano l’immagine di Cristo che la salverà, se Egli non è impresso nel suo cuore” le disse allora duramente Lord Kent.
Sua Maestà non rispose e, inginocchiatasi, si mise a recitare dei salmi in latino mentre Fletcher, per impedirglielo, incominciò a dire ad alta voce delle preghiere, e a lui si unirono i gentiluomini; ma a poco a poco fecero tutti silenzio fuorché la regina, la quale, baciato il suo crocifisso, con dolce, straziante voce gridò:
“Oh, Gesù, che stendesti in croce le braccia, accoglimi ora in quelle della tua misericordia e perdona i miei peccati!”».
Di nuovo la signorina Corbet fece silenzio. Isabel adesso piangeva, e anche Anthony era profondamente commosso.
«Allorché i carnefici le chiesero se potevano aiutarla» proseguì Mary ancor più sommessamente «la regina sorridendo disse loro di non avere mai avuto simili servi; e allora fu permesso a due sue dame di avvicinarsi a lei per prestarle gli ultimi servigi. Io dalla commozione mi nascosi il volto fra le mani. Il silenzio era profondo. Quando rialzai il capo vidi che era pronta: il suo niveo collo era adesso scoperto; e i suoi occhi splendevano della più pura gioia, rendendo così ancor più bello il suo volto delicato.
“Ne pleurez pas”[8] disse alle sue dame che la guardavano singhiozzando. Poi s’inginocchiò e la signora Mowbray[9] le bendò gli occhi. “Addio, o piuttosto arrivederci” disse Sua Maestà. Recitò un altro salmo in latino, posò il capo sul ceppo e pronunciò le sue ultime parole: “In manus tuas, Domine…”»
Mary si tolse dal seno un cordoncino di seta al quale era legato un anello in rubini.
«Questo era suo» disse; e ciascuno dei cattolici presenti baciò con reverente affetto il prezioso anello. «Quando rialzarono il suo corpo, il piccolo cane prediletto dalla regina, che si era nascosto sotto le vesti della morta, saltò fuori mandando lamentosi guaiti; e a tale vista anche quel gentiluomo che prima aveva riso, si mise a piangere».
Tristi e silenziosi i quattro amici passarono assieme il rimanente della serata.
[1] Francis Walsingham (1532-1590), politico e diplomatico, è stato tra i più stretti collaboratori di Elisabetta e uno dei primi organizzatori, in epoca moderna, una rete di spionaggio statale.
[2] In nome di Maria Stuart furono rivendicati numerosi complotti per assassinare Elisabetta e innalzare la regina di Scozia al trono inglese con l’aiuto della Francia e della Spagna. Il più importante fu il cosiddetto “complotto Babington”, in realtà risultato di diverse congiure: di fatto si rivelò una trappola tesa a Maria da Francis Walsingham e dei nobili inglesi come Kent e Shrewsbury che ritenevano inevitabile l’esecuzione della sovrana scozzese. Dell’affaire Babington si parla diffusamente in Vieni ruota! Vieni forca!
[3] Amyas Paulet (1532-1588) fu per un periodo il carceriere di Maria Stuart.
[4] «Mi appello alla Regina e al Re dei re». L’uso del francese è motivato dal fatto che Maria Stuart, destinata a diventare sposa di Francesco II, visse in Francia per diversi anni.
[5] «Non lo metto in dubbio». L’amara ironia della risposta deriva dal rifiuto di Maria di farsi confessare da un ministro protestante, anziché da un sacerdote cattolico.
[6] Speziale personale della regina.
[7] Robert Deale (1541-1601) fu colui che scrisse il verbale ufficiale dell’esecuzione di Maria.
[8] «Non piangere».
[9] Una delle dame di compagnia di Maria Stuart.
(Brano tratto da: R. H. BENSON, Con quale autorità?, Milano, BUR, 2014)