citazione a cura di Luca Fumagalli
Termina con questo brano la pubblicazione di una serie di stralci tratti da Il baronetto vagabondo (None other Gods), romanzo di mons. R. H. Benson del 1910, mai tradotto in Italia, che racconta la storia del giovane Frank Guiseley, figlio cadetto del marchese di Talghat, che abbandona agi e ricchezze per vivere come un vagabondo. Frank, da poco convertitosi al cattolicesimo, affronterà un viaggio che lo porterà a conoscere, sempre più a fondo, la propria anima.
Frank trova ospitalità presso un monastero benedettino in cui ristorare il corpo e lo spirito. Su incoraggiamento del monaco Hildebrand Maple, il ragazzo redige un piccolo diario dell’anima con lo scopo di ripercorrere le tappe della sua conversione. L’autore presenta un brano tratto direttamente dagli scritti del ragazzo in cui la fede è presentata come una conquista progressiva, una speranza concreta che prende lentamente possesso del cuore di Frank.
Andai a confessarmi da lui il venerdì mattina in chiesa. Egli allora non disse gran che, ma mi chiese se volessi andar dopo a parlargli. Io dissi di sì, e andai da lui in parlatorio nel pomeriggio. Per prima cosa egli mi chiese di esporgli il più semplicemente possibile quel che m’era avvenuto – nell’anima, voglio dire – fin da quando avevo lasciato Cambridge.
Io dissi che dapprincipio tutto era andato benissimo nella mia anima, e che erano state soltanto le cose materiali a tormentarmi. Come la stanchezza spaventosa, la scomodità, il mangiare, il dormire, e così via. Poi, appena superato questo stadio, avevo incontrato il Maggiore e Gertie. Avevo un po’ paura a dire quello che sentivo al loro riguardo, ma egli mi incoraggiò, ed io gli dissi come qualche volta mi pareva di odiarli oltre misura, come mi sentivo quasi male quando di tanto in tanto il Maggiore mi parlava e mi raccontava le sue storie… […] l’unico sollievo era il sapere che avrei potuto piantarli quando avessi voluto e tornarmene a casa. Ma questo sollievo mi fu tolto non appena compresi che dovevo rimanere con loro e far del mio meglio per separarli, perché è chiaro che io dovevo una volta o l’altra restituire Gertie ai suoi, e finché non l’avessi fatto era inutile pensare ad altro[1].
[…]
Poi cominciai a vedere che non avevo fatto proprio nulla di bene – che nulla mi era realmente costato qualcosa; e che le cose di cui ero orgoglioso erano soltanto egoismo – la mia partenza da Cambridge e tutto il resto. Erano gesti teatrali o romantici; non v’era alcun sacrificio reale. Avrei fatto molto meglio a non compierli. E cominciai ad accorgermi di essere straordinariamente piccino.
[…]
E venne allora la lettera di Jenny (debbo parlarne piuttosto accuratamente)[2].
Ho detto poco sul fatto che mi sentivo sempre più piccino, ma non sarei stato vinto.
Ora v’erano due cose su cui m’ero appoggiato in tutto questo tempo: la mia religione, e Jenny. Davo loro il turno, per così dire, per quanto Jenny non fosse mai assente. Quando le cose della religione mi parevano piatte, dubbie o vuote, io pensavo a Jenny. Quando le cose andavano meglio, […] pensavo ancora a Jenny, e immaginavo che splendida cosa sarebbe stata quando fossimo ambedue cattolici sposati. Ma non sognai mai che Jenny sarebbe stata irata o delusa. Non volevo parlar di lei a nessuno, perché ero assolutamente sicuro di lei. Sapevo, penso, che tutto il mondo avrebbe potuto crollare, ma che Jenny avrebbe sempre capito tutto, fino in fondo, e che io e lei saremmo rimasti.
E allora, giunse la sua lettera.
A dire il vero, non so che cosa sia avvenuto in me per una o due settimane. Solo, ogni cosa era cambiata. Non dubitai neppure un istante che Jenny non pensasse quello che scriveva, e fu come se non vi fosse più né il cielo né il sole né la luna. Fu come se mi fossi ammalato. La vita continuava attorno a me: io mangiavo, bevevo, camminavo, ma l’unica cosa di cui sentissi bisogno era di andarmene, di richiudermi in me, di nascondermi. Non riesco a comprendere quel che la gente intenda per “consolazioni della religione”, non mi pare che la religione possa essere una cosa come l’arte o la musica, in cui ci si possa rifugiare. O essa avvolge tutto, o non è religione. Essa – non so se abbia torto – non mi è mai sembrata una cosa come le altre, che si può cambiare e a cui si può ritornare. O forma lo sfondo e il prospetto di tutta la vita, oppure è una specie di gioco. O è una cosa reale, o è una maschera.
Bene, quel che era avvenuto in certo qual modo mi insegnò che essa era assolutamente vera. Se non lo fosse stata, le cose non avrebbero avuto un legame logico. Ma non era affatto una consolazione.
Per un po’ mi parve che fosse orribile che fosse vera; che fosse spaventoso pensare che Dio potesse essere così, da permettere che fosse avvenuto quest’affare di Jenny. Ma tutto questo non lo sentivo allora con piena coscienza. Mi pareva di essere ammalato, di potere soltanto giacere immobile e guardare, di essere all’inferno. Una cosa tuttavia che parve a padre Hildebrand assai importante (e me ne chiese in particolare), fu che io non provai alcun risentimento né contro Dio né contro Jenny. Era stata una cosa spaventosa, ma era vera, e io dovevo soltanto restar passivo e meditarla. Padre Hildebrand mi dice che questo dimostra che la prima fase del “processo”, come egli lo chiama, era finita (egli la disse la “via della purgazione”). E io debbo dire che quello che accadde poi ci si inquadrò piuttosto bene.
Il nuovo processo cominciò del tutto improvviso, quando mi svegliai un mattino nella capanna del pastore a Ripon[3]. Lo compresi al momento stesso del risveglio. Era assai di buon’ora – proprio prima che sorgesse il sole, ma v’era un boschetto alle mie spalle, e gli uccelli cominciavano a cinguettare.
È difficilissimo descriverlo in parole, ma la prima cosa da dire è che io, proprio allora, non ero esattamente felice, ma assolutamente contento. Mi pare che potrei dire così: che vidi d’un tratto che quel che non andava in me era l’aver fatto di me stesso il centro di tutte le cose, e di Dio una specie di circonferenza. Quando Egli faceva o permetteva qualcosa, io dicevo: perché Egli fa questo dal mio punto di vista. Vale a dire, io mi formavo le mie idee di giustizia, di amore, e simili, e poi misuravo le Sue alle mie, e non le mie alle Sue. E d’un tratto vidi – o piuttosto lo sapevo già quando mi svegliai – che questo era semplicemente sciocco. Neppur ora riesco a immaginare come non l’abbia visto prima. Avevo sentito, beninteso, gente che lo aveva detto – in prediche o in libri – ma non vi avevo dato un significato. Padre Hildebrand dice che l’avevo visto con l’intelletto, ma che non l’avevo abbracciato con la volontà, perché quando s’è realmente visto una volta, non v’è più perplessità su nulla. Non si può mai più dire “perché?”. La cosa è finita.
Ora questo “processo”, come Padre Hildebrand lo chiama, ha progredito d’allora in poi in modo straordinario. Quella prima intuizione di Ripon fu come l’aprire una porta su un altro paese, e io da allora ho sempre camminato e veduto cose nuove. Tutte quelle cose che avevo creduto come cattolico – le cose, cioè, alle quali consentivo solo perché la Chiesa le affermava – venivano, per così dire, alla superficie, si mostravano nell’intimo. Non ne posso scrivere, perché queste cose non si possono scrivere, e neppure enunciare intelligibilmente a se stessi. Soltanto si vede che sono così. Per esempio, un mattino a messa – a un tratto – io vidi come la sostanza del pane fosse cambiata, e come nostro Signore sia unito all’anima nella Comunione – naturalmente, è un mistero (questo è ciò che intendo quando dico che non si può scrivere). Ma io lo vidi in un lampo, e posso in certo modo vederlo ancora. Poi un altro giorno quando il Maggiore stava chiacchierando (mi pare che parlasse del Club in Piccadilly di cui pretendeva aver fatto parte) io compresi la Madonna, e come Ella sia proprio tutto da ogni punto di vista. E così via. Fatti del genere si ripeterono parecchie volte quando ero dal dottor Whitty, specialmente quando stavo migliorando[4]. Potevo parlare con lui tutto il tempo, magari, o contare le maniglie del guardaroba, o ascoltare il Maggiore e Gertie che lavoravano nel giardino, eppure continuavo tutto il tempo a “vedere”. Sapevo che parlare molto col dottor Whitty non serviva a nulla, quantunque non possa immaginare come un uomo come quello non veda tutto da sé.
Mi sembra ora straordinario che possa mai aver avuto altri pensieri che quelli che ho riferito a Padre H. – voglio dire sul peccato, e sul chiedermi se, in fondo, la Chiesa fosse realmente vera. In certo modo, si capisce, questi pensieri mi tornavano ancora, e io so benissimo che debbo stare in guardia: ma è cosa diversa.
Bene, Padre H. chiama tutto questo la “via dell’illuminazione”, e io credo di capire quello che egli vuol intendere. Giunse quasi a un acme la vigilia dei morti, nel monastero. Allora, per un momento o due, io vidi, “tutto”, e non solo il Purgatorio. Ma ne scriverò più tardi. E Padre Hildebrand mi dice che debba attendermi un nuovo “processo” – quello che egli chiama la “via dell’unione”.
[1] La ragazza, molto più giovane del Maggiore, è sinceramente innamorata di lui, ma è spesso costretta a subire dall’uomo maltrattamenti, violenze e soprusi.
[2] Nella lettera Jenny Launton aveva annunciato ufficialmente la rottura del loro fidanzamento.
[3] Per qualche giorno Frank ha vissuto nella capanna di alcuni pastori.
[4] Alcuni mesi prima, a causa di un’infezione titanica, Frank era stato curato dal dottore. Dopo una settimana il giovane era guarito e tra lui e Whitty, sebbene ateo e antitetico in tutto a Frank, era nata una bella amicizia.
(Brano tratto da R. H. BENSON, Il baronetto vagabondo, Milano, Istituto di Propaganda Libraria, 1950)
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