citazione a cura di Luca Fumagalli
Continua con questo brano la rubrica, intitolata significativamente “Cronache dell’Anticristo”, che raccoglie una serie di stralci tratti da Il Padrone del mondo (1907), il più famoso romanzo di mons. R. H. Benson, ancora drammaticamente attuale.
La trama del libro è piuttosto semplice. Alla fine del XX secolo l’uomo ha raggiunto gli estremi confini del progresso materiale e intellettuale, ma con il trionfo dell’umanitarismo laico il cristianesimo è quasi scomparso e la completa secolarizzazione della società è ormai dietro l’angolo. due protagonisti de “Il Padrone del mondo” sono Julian Felsenburgh – socialista e massone dall’oscuro passato, che governa l’intero Occidente grazie alle brillanti doti di oratore e alla personalità magnetica – e Percy Franklin, uno degli ultimi sacerdoti rimasti fedeli alla Chiesa. Il terzo polo narrativo è costituito dai coniugi Mabel e Oliver Brand, militanti politici e accaniti sostenitori del progresso.
Percy riceve dal cardinale protettore d’Inghilterra, monsignor Martin, l’ordine di recarsi immediatamente a Roma. La città, da cui è bandita ogni tecnologia, è tornata nuovamente nelle mani del Papa. Lontana dalla tentazione del progresso materiale che ammorba il mondo e inganna l’uomo convincendolo di essere come Dio, la Chiesa può condurre con assoluta libertà, priva di ogni vincolo, la sua battaglia spirituale per la conversione dei cuori.
Percy Franklin era particolarmente emozionato quando sedeva solo, qualche ora più tardi, davanti a una tazza di caffè in una sala nascosta del Vaticano; ma sentì ancora la gioia e il conforto, mentre nel suo cervello affaticato andava considerando il luogo in cui si trovava. A dire il vero, gli era parso un po’ strano il passare sopra quei ciottoli risuonanti con una vettura modesta, proprio come vent’anni prima, quando era partito da Roma, dopo essere stato ordinato sacerdote. Mentre il mondo aveva camminato tanto, Roma non si era mossa: aveva ben altro a cui pensare che non ai progressi materiali, ora che il peso spirituale di tutta la cristianità gravava interamente sopra le sue spalle. Sembrava non fosse per niente cambiata o, meglio, sembrava essere tornata indietro di centocinquant’anni. I libri di storia dicono che dei progressi introdotti dal governo italiano si era già incominciato a fare a meno da ottant’anni, non appena la città era stata resa indipendente. I tram non correvano più, agli alivascelli era stato proibito di oltrepassare il recinto e i nuovi edifici erano rimasti in piedi, convertiti però all’uso ecclesiastico. Il Quirinale era divenuto la dimora del papa rosso[1], i palazzi delle ambasciate erano state trasformati in seminari; il Vaticano stesso, fatta eccezione per l’ultimo piano, serviva da residenza al Sacro Collegio, che faceva corona al sommo pontefice come le stelle lo facevano al sole.
Gli antiquari dicevano che era una città singolare, l’unico modello vivente dei vecchi tempi.
C’era la stessa mancanza di comodità di una volta, una noncuranza delle regole dell’igiene che faceva spavento, l’incarnazione di un mondo perduto nel sogno. Riviveva però l’antica pompa ecclesiastica. I cardinali usavano ancora la berlina dorata. Il papa rosso cavalcava la sua mula bianca. Il Santissimo Sacramento incedeva per le strade in festa al suono di campanelli e accompagnato dai lanternoni. Una brillante descrizione di queste cose aveva deliziato per almeno due giorni il mondo civile; quella regressione mostruosa aveva offerto materiale inesauribile per le accuse violente delle persone istruite, con gli intellettuali che erano finalmente concordi nel dire che la superstizione era nemica del progresso.
Pertanto, mentre Percy veniva dall’aerostazione vicino a Porta del Popolo, vide di sfuggita per le strade i paesani vestiti all’antica, le carrette da vino bianche e rosse, i gambi di cavolo disseminati lungo i marciapiedi, i panni bagnati stesi sulle corde alle finestre, i muli e i cavalli: tutto questo gli appariva strano, ma gli diede sollievo, perché gli ricordava che l’uomo è uomo e non Dio, come invece tutti sostenevano; uomo, e perciò un po’ noncurante ed egoista; uomo, e perciò attento ad altri interessi oltre a quelli della velocità, della pulizia e della precisione.
La stanza dove era seduto Percy (vicino alla finestra riparata da persiane, dal momento che il sole era già alto) riportava indietro di un secolo e mezzo. L’antico damasco e le dorature erano spariti rendendola più severa; al centro, era collocata una tavola di abete con delle seggiole di legno intorno; i muri erano di mattonelle rosse e c’erano stuoie per i piedi. I muri bianchi, dipinti ad acquarello, non avevano altri ornamenti al di fuori di due vecchi quadri appesi e un grande crocifisso fiancheggiato da due candele che si alzava da un altare collocato presso la seconda porta. Non c’erano altri mobili, se non un banco tra le due finestre con sopra una macchina da scrivere, per la grande meraviglia Percy, che non si aspettava certo di trovare li un simile oggetto.
Dopo aver finito di bere il caffè, si abbandonò sulla sedia. Già si sentiva alleggerito di un peso enorme e si stupiva della velocità di un simile cambiamento. Qui la vita era più semplice; il mondo spirituale, ammesso come presupposto, non costituiva più materia di discussione; qui si imponeva nella sua realtà e, agli occhi dell’anima, faceva trasparire gloriose quelle figure venerande, divenute altrimenti invisibili nel corso vertiginoso delle cose umane. Qui rimaneva la stessa ombra di Dio e non era più difficile riconoscere che i santi vigilavano e intercedevano per noi, che Maria sedeva sul suo trono e che nella particola sull’altare era presente Gesù Cristo. Non che Percy fosse perfettamente calmo: dopo tutto, si trovava a Roma da solo un’ora e l’ambiente, sebbene pervaso di grazia, non avrebbe potuto operare in lui più di quanto aveva già operato. Si sentiva però meno a disagio, non più disperatamente angosciato, un po’ più simile a un fanciullo, più disposto ad affidarsi a quell’autorità che reclamava diritti senza dare spiegazioni e asseriva che il mondo rendeva evidente (esternamente e internamente) di essere fatto in un certo modo e non in un altro, e creato per un certo fine e non per un altro. Tuttavia, aveva mantenuto nel suo agire quelle che gli causavano tanto fastidio. Lasciata Londra solo dodici ore prima, si trovava ora in un luogo che poteva essere o il pozzo d’acqua esterno al corso della vita, o altrimenti la vera corrente nel cuore della vita.
Udì un rumore di passi provenire da fuori; la maniglia girò nella porta ed entrò il cardinale protettore.
Percy non lo vedeva da quattro anni e sulle prime fece fatica a riconoscerlo. Era un vecchio venerando, curvo e debole, con il viso ricoperto di rughe e la testa coronata di folti capelli bianchi sotto lo zucchetto rosso; portava l’abito nero dei benedettini e una semplice croce abbaziale sul petto. Camminava con passo malfermo, appoggiandosi a un bastone. L’unico particolare vigoroso della sua persona risiedeva negli occhi piccoli e vivaci, che si muovevano sotto le palpebre cadenti. Porse la mano sorridendo a Percy che, ricordando di essere presentemente in Vaticano, si inginocchiò per baciare l’anello di ametista.
«Benvenuto a Roma… padre!» disse il vegliardo con una freschezza di voce inattesa. «Mi hanno annunciato il suo arrivo mezz’ora fa, ma ho pensato bene di lasciarla libero per rinfrescarsi e bere il caffè».
Percy mormorò alcune parole.
«Sì, è certamente stanco», seguitò il cardinale presentandogli una sedia.
«Non molto, eminenza! Ho dormito magnificamente».
Il cardinale lo invitò a sedersi.
«Devo parlare un po’ con lei, e il Santo Padre desidera vederla alle undici».
Percy restò un po’ sorpreso.
«Siamo solleciti nelle nostre cose, visti i tempi che corrono, caro padre… non c’è un minuto da perdere. Sa di dover restare a Roma per un po’?»
«Ho fatto tutti i miei preparativi in previsione di questo, eminenza».
«Bene! Siamo contenti di lei, qui, padre Franklin. Il Santo Padre è rimasto molto impressionato dai suoi commenti; lei ha previsto tutto in modo ammirevole».
Percy arrossì soddisfatto: era quello il primo cenno di incoraggiamento. Il cardinale Martin proseguì:
«Posso assicurarle che è considerato come il migliore dei nostri corrispondenti inglesi, ed è appunto per questo che l’abbiamo chiamata. È necessario che lei divenga nostro consigliere, perché tutti possono riferire i fatti, ma pochi sono in grado di valutarli… Ma lei, padre, è molto giovane; quanti anni ha?»
«Trentatré, eminenza»[2].
«Ah! Ma… i suoi capelli bianchi sono una buona garanzia… Ora, padre, vuole venire nella mia stanza? La tratterrò fino alle nove, non di più; poi si riposerà un po’ e alle undici la presenterò a Sua Santità».
Percy si alzò con l’anima in subbuglio e corse ad aprire la porta davanti al cardinale.
[1] Soprannome del cardinale prefetto del Sant’Uffizio (ora Congregazione per la dottrina della fede) derivato dalla sua importanza nello scacchiere politico curiale.
[2] La stessa età in cui Cristo morì, un chiaro indizio del doloroso destino che attende padre Franklin.
(Brano tratto da: R. H. BENSON, Il Padrone del mondo, Verona, Fede & Cultura, 2014)