A cura di Cajetanus

Del Padre Teodoro Minisci, ieromonaco di Santa Maria in Grottaferrata (Archimandrita dal 1960 al 1972), superiore della missione ad Elbasan, Albania – 30 gennaio 1942. Da: IL BOLLETTINO della badia greca di Grottaferrata, eco delle Chiese di rito bizantino – Anno XIII, n. 1 (117) – Gennaio-Febbraio 1942 – XX

 

Dopo aver prospettato il problema del ritorno di tanti fratelli separati come un bisogno urgente. anzi un imperioso dovere a cui nessun cristiano può sottrarsi, rimane ora a fare l’esame delle difficoltà che vi si frappongono e dei mezzi più efficaci per ovviare alle medesime. In questa delicata materia bisogna evitare i due estremi: Esagerato ottimismo, che chiamerei piuttosto faciloneria, consistente nel non rendersi conto delle reali distanze che ci separano, di qualunque specie esse siano, e lo stringente pessimismo che talmente esagera le difficoltà e le distanze, da relegare tra le utopie il raggiungimento della pur tanto necessaria unione. Nell’uno e nell’altro caso si cade praticamente e logicamente nell’inazione. D’accordo che l’unione dei cristiani è opera della grazia, ma il rimuovere gli ostacoli a quest’opera è tutto nostro compito e dovere.
Ai faciloni additiamo, sulla guida del P. Manna, le difficoltà e le reali distanze, perché le meditino e si persuadano che delle barriere impediscono il flusso e riflusso vitale nelle membra separate dal corpo mistico del Cristo e si risolvano a quei mezzi che la carità saprà suggerire, perché le barriere scompaiano. Agli aridi pessimisti indicheremo i fili dell’apostolica trama, che la carità di Cristo deve farci tessere per arrivare fino alla mente e al cuore dei separati fratelli e affrettare cosi l’ora di Dio. Per gli uni e per gli altri ricordiamo le parole di sano ottimismo, con le quali Leone XIII concludeva la Lettera Apostolica Amantissimae voluntatis del 14 aprile 1895: «Difficoltà, sì, ve ne sono; ma non sono di tale natura da rallentare menomamente la nostra carità apostolica, né da scoraggiare la nostra volontà. Senza dubbio, le rivoluzioni ed una separazione più volte secolare hanno radicato nei cuori le dissenzioni; è questa una ragione per rinunziare ad ogni speranza di riconciliazione e di pace?».

QUELLO CHE CI DIVIDE

Per quattro differenti vie ci si è allontanati gli uni dagli altri, e quindi a quattro specie si possono ridurre gli ostacoli che si frappongono ad un ritorno sincero, duraturo, veramente fraterno dei dissidenti: difficoltà dommatiche, storico-culturali, psicologiche e spirituali.
Dagli studiosi è ormai provato che il vero pomo di discordia nel momento della separazione non furono le dissenzioni dottrinali; a queste precedettero ambizioni e cupidigie, animosità e gelosie, soprattutto antagonismi di razze ed egoismi nazionali. Per coprire e quasi giustificare questi, si cavillò su concezioni e posizioni dottrinali. Tuttavia oggi non è possibile negare che questioni di dottrina ci dividono e qualche volta profondamente. Ora l’unità della Chiesa è tutta basata sull’unità del suo credo e in ciò non vi è lungo a nessun compromesso. L’enciclica Mortalium Animos è esplicita su questo punto.
Se pure si arriva a dimostrare che la vecchia questione della processione dello Spirito Santo e gli altri capi d’accusa foziani, come allora anche oggi, sono muri di cartone frapposti e incrementati dal livore, scomparso il quale si sgretoleranno le barriere; non è così per ciò che riguarda il Primato del Romano Pontefice, la sua giurisdizione universale e l’infallibilità, nonché la centralizzazione di governo della Chiesa, come oggi è intesa e praticata. E’ in questo principalmente, e altrettanto realmente, che oggi la distanza tra noi e i nostri fratelli separati sembra incolmabile.
Ecco come si esprimeva in proposito l’arcivescovo ortodosso di Atene in una polemica che ebbe nel 1927 col vescovo cattolico di rito greco S.E. Mons. Calavassy: «Non ci facciamo nessuna illusione: l’unione delle Chiese non sarà possibile, se il vescovo di Roma non si consideri lui stesso come uno dei capi di una chiesa autocefala, non consenta ad abbandonare le teorie relative al primato di giurisdizione e al governo monarchico assoluto della Chiesa, contentandosi della sua autorità morale come vescovo di Roma, e non ritorni alla dottrina della invisibile Chiesa, come prima dello scisma.
Per noi la concezione di una Chiesa Cattolica che sia fuori e al di sopra di tutte le Chiese e che abbia come capo il vescovo di Roma, che è al medesimo tempo capo di una Chiesa particolare, è inconcepibile».
Evidentemente, rimanendo in queste affermazioni così categoriche, la divisione è netta. Sarebbe per lo meno falsa quella tattica che, per venire ad un’intesa, trascurasse un punto così essenziale per insistere esclusivamente su altri elementi di riavvicinamento.
Constatiamo la barriera, ma non la giudichiamo insormontabile, qualora ci fosse dato dissipare le rimanenti difficoltà storico-politiche e psicologiche. Soltanto queste possono spiegare tanta ritrosia nei dissidenti ad ammettere nella sua pienezza le prerogative del Romano Pontefice, giacché verità dimostrabili, tanto storicamente quanto teologicamente, un uomo intelligente e sincero non può rigettarle se non in forza di un fanatismo accecante e di pregiudizi secolari.
Lo scisma ha un’origine schiettamente politica, che le vicende storiche approfondirono. Caduta poi in balia del potere laico, la religione per gli ortodossi è divenuto un affare nazionale, talvolta puntello di troni, sempre strumento di governo. Il P. Janin scrive giustamente: «Nazionalità e religione si sono identificate da secoli presso la maggior parte dei popoli orientali e sarà difficile separarle. Per molti dissidenti non si può essere veramente greci, serbi, bulgari, romeni o russi, che appartenere alla Chiesa ortodossa».
Questa difficoltà possiamo e dobbiamo superarla mettendo in evidenza la reale cattolicità e supernazionalità della Chiesa di Roma, così come lo aveva ben compreso e magnificamente espresso il grande convertito russo Soloviev: «Nessun ragionamento può sopprimere l’evidenza di questo fatto: che, fuori di Roma, non vi sono che chiese nazionali, come la chiesa armena e greca; chiese di Stato come la russa e l’anglicana, o sette fondate da particolari, come i luterani, calvinisti ecc. Solo la Chiesa Cattolica non è né una chiesa nazionale, né una chiesa di Stato, né una setta fondata da un uomo».
Nuove barriere di ordine psicologico vengono ad aggiungersi con la innegabile diversità di cultura e mentalità, che si riscontra negli orientali e negli occidentali, diversità che ha generato prima e alimentato poi la mutua incomprensione con i conseguenti pregiudizi, peggiori della stessa ignoranza. Di modo che ciò che l’una parte conosce ed avversa è per lo più la deformazione dell’altra. Di qui la necessità assoluta di conoscerci: di liberare il vero volto della Chiesa Cattolica dai molteplici veli di cui i secoli, i livori, gli antagonismi, i peccati degli uomini l’hanno avvolto agli occhi dei dissidenti; così come l’intelligente nostra carità deve sapere penetrare nell’anima orientale attraverso gl’involucri di tante umane miserie accumulate dal tempo e dall’errore. Meglio ci conosciamo, più ci amiamo. Il riavvicinamento dei cuori porterà all’unione.
A Lione nel 1274, a Firenze nel 1439 si firmò l’unione a Roma delle Chiese dissidenti dell’Oriente; ma perché, come osserva il Giordani, i cuori rimanevano divisi, divise rimasero e rimangono tutt’ora le Chiese. Quante dispute profonde, interminabili, accese in quei Concili per venire all’accordo! Ma a che approdarono? Dobbiamo convenire che le difficoltà dottrinali, con la dottrina solamente, non si risolvono in tale questione.
Un quarto ostacolo all’unione è l’ordine spirituale. Fin dai primi tempi Origene osservava: «Là ov’è il peccato sorgono le dispute e gli scismi: al contrario dove regna la virtù v’è l’unità. Perciò, secondo gli Atti, i primi credenti (che erano santi), erano d’un sol cuore e d’un’anima sola».
Sorgenti di ogni errore e di ogni divisione sono i peccati. Dobbiamo riconoscerlo da ambo le parti con spirito di umiltà: vengano sinceramente espiati ed eliminati i peccati, quelli dei nostri fratelli separati ed anche quelli di noi cattolici, e allora all’unione sarà aperta la via, alla grazia sarà dato di fruttificare i cuori.

QUELLO CHE PUO’ UNIRE

L’unione di cristiani è opera di santi: non si poteva dir meglio. Il primo mezzo per un più proficuo apostolato è una vita più cristiana. Cristiani lo siamo tutti di nome, ma pochi lo siamo di spirito e verità.
«Parrà questo un luogo comune, osserva il P. Manna, eppure se si va a fondo delle cose, il rimedio dei rimedi alle nostre disunioni è proprio un più grande spirito cristiano…Non siamo abbastanza cristiani, e per ciò non siamo impressionati dalla bruttezza della separazione, e vi ci siamo abituati tanto da non sentirne più ribrezzo e rimorso. Non siamo abbastanza cristiani e perciò non sappiamo vedere quale grande cosa sarebbe per Dio, per la Chiesa, per il mondo tutto il ritorno dei dissidenti all’unico Ovile. Non siamo abbastanza cristiani e perciò Dio non ci dà i potenti aiuti che sono necessari e che solo lui può darci, perché possiamo tutti riabbracciarci nella sua carità ed unità».
Essendo stato domandato ad un ortodosso quale era, secondo lui, l’ostacolo principale alla unione della sua Chiesa con Roma, rispose candidamente così: «L’ostacolo principale all’unione è che essa non interessa materialmente a nessuno!».
C’è in questa risposta una grande verità: la funesta insensibilità per ciò che riguarda i grandi problemi dello spirito, indice indubbio di languente vitalità spirituale.
Ad una vita più cristiana deve accompagnarsi il sentimento teorico pratico della reale cattolicità della Chiesa, che abbraccia tutti i popoli e tutte le civiltà. Bisogna persuadere i nostri fratelli separati e anche noi stessi che il cattolicismo non si identifica né col rito o la disciplina latina, né con la cultura occidentale. E il P. Manna si fa eco di coloro che pensano che l’apostolato cattolico tanto più sarà fruttuoso quanto più si disassocierà dalla latinità in quei paesi che non sono latini, o di provenienza romana, ma di altra origine o civiltà.
Vi sono infatti nel mondo razze e popoli di altre mentalità, altre culture e civiltà, rispettabili quanto le nostre: ci sono popoli in condizioni storiche indistruttibili, che possono ben ricevere il Vangelo ed entrare nella Chiesa Cattolica senza punto perdere della loro fisonomia civile. Come la Chiesa è latina in Occidente, cosi deve rimanere greca nel vicino Oriente: potrà essere domani indiana in India, cinese in Cina, giapponese in Giappone.
Queste verità sono il riverbero della luce che s’irradia dalla chiara parola del regnante Pontefice Pio XII, nella Sua prima Enciclica Summi Pontificatus: «La Chiesa di Cristo, fedelissima depositaria della divina educatrice saggezza, non può pensare né pensa d’intaccare o disistimare le caratteristiche particolari, che ciascun popolo con gelosa pietà e comprensibile fierezza custodisce e considera quasi prezioso patrimonio. Il suo scopo è l’unità soprannaturale nell’amore universale, sentito e praticato, non l’uniformità, esclusivamente esterna, superficiale e perciò stesso debilitante».
Cadrà così l’accusa che gli ortodossi fanno alla Chiesa Cattolica di volerli latinizzare, accusa che disgraziatamente ebbe nel passato un certo fondamento nella condotta di alcuni che, spinti da falso zelo, sacrificarono i veri interessi della Chiesa alle vedute di un gretto particolarismo o nazionalismo. Finirà pure quella persuasione, autorevolmente sconfessata, ma insensibilmente penetrata nella mente di molti cattolici, d’una presunta superiorità di quanto sa di latino e di occidentale. Soltanto così il dogma del Primato apparisce nella sua vera luce e il Papato si dimostra com’è il vincolo di unità per tutti i cristiani, il seno materno della Chiesa. dove tutti i figli, ugualmente cari e amati, attingono il nutrimento spirituale.
Altro coefficiente molto principale per la riunione è la mutua conoscenza. Sappiamo quanto male e quanto poco i fratelli separati ci conoscono: ne facciamo direttamente l’esperienza ogni qual volta veniamo a contatto col clero ortodosso e col laicato di una certa cultura. Persuadiamoci però che anche noi cattolici non conosciamo meglio i fratelli separati e quel che è peggio, non sempre abbiamo quella comprensione che apre la via del cuore. Nell’accostarli bisogna tener conto del tempo trascorso e non trattarli come si tratterebbero dei cattolici apostati e fuorviati che si vuol convertire. Lo scisma non l’han fatto gli ortodossi di oggi: questi sono le vittime, non la causa delle divisioni. La maggior parte di essi vive in buona fede, ed è comprensibile, qualche volta anche rispettabile, la loro tenace aderenza alla confessione in cui sono nati e cresciuti. Non potei dissimulare la commozione quando seppi che alcune giovanette albanesi, dopo aver ascoltato attentamente dal labro delle nostre Suore il racconto del martirio delle prime vergini cristiane, scattarono decisamente, dichiarandosi pronte anch’esse a versare il proprio sangue se qualcuno tentasse di rapire la loro fede. Popoli che hanno saputo conservare il cristianesimo attraverso inenarrabili sacrifici di una plurisecolare dominazione infedele, s’impongono all’ammirazione ed esigono che si eviti a loro riguardo anche il minimo atteggiamento di poca stima.
La necessaria unione nella verità dobbiamo ottenerla mediante l’unione nella carità, aprendo fra Oriente e Occidente i sentieri luminosi della confidenza e dell’amore.

Tanto tocca a noi fare, unendo ad ogni attività la fervente preghiera, che arriva al Cuore di Dio, dal Quale dobbiamo attendere fiduciosi l’avverarsi della consolante promessa divina: καὶ γενήσονται μία Ποίμνη, εἷς Ποιμήν — E vi sarà un sol gregge ed un sol Pastore!