di Luca Fumagalli

Arancia meccanica è il più famoso romanzo di Anthony Burgess, reso celebre grazie all’omonimo adattamento cinematografico del 1971 diretto da Stanley Kubrick. La storia di Alex e della sua banda di scalmanati gangster è entrata a pieno diritto nella cultura pop, costituendo una lucidissima riflessione sulla libertà e sul rapporto tra il singolo e il potere.

Ma Arancia meccanica non è l’unico romanzo distopico – ambientato, cioè, in un ipotetico avvenire terribile, anti-utopico – scritto da Burgess. Ancora più inquietante e oggi di grandissima attualità è un altro libro che l’inglese pubblicò a breve distanza dal suo capolavoro, sempre nel 1962, Il seme inquieto.

In un futuro imprecisato in cui il mondo è percorso da un’ansia malthusiana a causa della sovrappopolazione, l’omosessualità è diventata un valore, così come è incoraggiato l’aborto e ogni pratica che allontani il rapporto sessuale dal suo fine naturale. In tutta l’Inghilterra – nazione fulcro della superpotenza planetaria nota come Unione Anglofona – sgargianti manifesti affissi dal Ministero dell’Infertilità mostrano coppie abbracciate dello stesso sesso e l’Istituto di Omosessuologia tiene dei corsi serali piuttosto frequentati. Qualcuno arriva addirittura a farsi castrare. Alla nuova Polizia Demografica è invece affidato il compito di verificare che ogni famiglia non abbia più di un figlio. Intanto la Grande Londra è in continua espansione e consuma, anno dopo anno, porzioni crescenti di campagna. Grattacieli mastodontici ospitano appartamenti-dormitori ridicolmente minuscoli, dove gli abitanti, stipati come formiche, buoni giusto per produrre e per servire da concime una volta cadaveri, vivono nell’illusione di una pace perpetua, senza più eserciti né guerre. In verità nessuno si rende conto che il fragile equilibrio su cui è costruito il nuovo ordine mondiale non può durare a lungo: le strade della capitale iniziano a essere percorse da folle di scioperanti, mentre dall’America giungono preoccupanti notizie di raccolti interamente persi e di uomini che, per sopravvivere alla fame, si danno al cannibalismo.

L’occhio di Burgess scruta con cinica costernazione l’orrido pasto di migliaia di vermi che banchettano sui lacerti di carne di un popolo violato dall’ideologia, consumato dall’ignoranza e dall’egoismo. Il lettore scopre, pagina dopo pagina, una società in cui tutto è svilito, come se da essa fosse stata spremuta anche l’ultima goccia di dignità. Negata ogni spiritualità – con una Chiesa nuovamente costretta nelle catacombe – la vita è affidata alla statistica, e l’unica idea ammissibile è quella del potere. Gli uomini sono cose, risorse che si possono spostare da una parte all’altra dello scacchiere della storia con la brutalità del ragioniere, solo allo scopo di far quadrare i conti (che, ovviamente, non tornano mai). In questa logica perversa, anche il celebre adagio marinettiano della guerra come sola igiene del mondo acquista nuovi e inquietanti significati.

Rispetto ad Arancia meccanica, ne Il seme inquieto Burgess punta su una speculazione più sottile e si concede diverse digressioni per riannodare i fili della trama in un’unica visione teologica della storia. Quest’ultima, per lui, consiste in un ciclico ripetersi di fasi: quella “pelagiana”, dove domina l’ottimismo riguardo le sorti umane (che ha portato alla nascita del liberalismo e del socialismo) e quella “agostiniana”, contraddistinta dal pessimismo. Tra esse vi è una fase di disordine e lenta stabilizzazione, l’interfase. Ogni accadimento è dunque elemento di una spirale di eterna alternanza, ed è a partire da queste premesse che l’autore si lancia in un’appassionata difesa della vita, delle ragioni della famiglia e del diritto ad avere una mente libera.

Shonny, il contadino cattolico che è fuggito dal caos urbano per crescere i propri figli in campagna, a diretto contatto con la natura e con tutto ciò che il nuovo governo proibisce – allevamento di animali incluso – ricorda, nella sua opposizione ai cibi sintetici, quella del Beato Ambrose Bayley, un ex prete mattoide modellato, al pari del cappellano di Arancia meccanica, sul prototipo del whisky priest di Graham Greene, che predica un ritorno al vero amore, quello per Dio e per l’altro sesso. Nelle sue parole infuocate riecheggia l’ansia genitrice, esplicita nel titolo del romanzo, che è il filo rosso che lega i vari episodi della trama.

A parziale eccezione del romanzo La fine della storia (1982) – commistione di tre percorsi narrativi diversi, il più interessante dei quali è il racconto della costruzione di un’astronave destinata a salvare una parte dell’umanità, alle soglie del 2000, dalla catastrofe finale – Burgess tornò alla distopia solamente nel 1978, con la pubblicazione del volume 1984 & 1985, un’opera a metà tra narrativa e saggistica.

I sindacati dominano un universo completamente allo sfascio, come da titolo zeppo di echi orwelliani. Bev Jones, il protagonista, decide di non sottostare alla disciplina collettiva. Dopo che la moglie viene arsa viva, Bev inizia una lotta solitaria, caparbia, disperata, in nome della libertà. Non un personaggio anarcoide, ma un cittadino costituzionale contro la folla violenta, contro il linguaggio fatto per non dire e una vita scialba e avvilente. Amara parabola sui miti politici e culturali del tempo presente, 1984 & 1985 è un inno al non conformismo, il peggiore reato che sia possibile commettere nei confronti del nuovo Stato sociale.

Per Burgess distopia significa innanzitutto monito, messa in guardia nei confronti di una realtà avversaria dell’uomo. Abbattuta la religione tradizionale, in particolare quel cattolicesimo con cui lo stesso scrittore ebbe un rapporto complesso e travagliato, il nuovo mondo corre il pericolo, con i suoi surrogati spirituali o tecnologici, con le sue ideologie velleitarie e con le sue guerre insensate, di ridurre l’uomo a un ingranaggio. E quando l’ingranaggio si guasta, o lo si ripara o lo si butta via. In un clockwork world la cosa più importante è che la macchina continui a funzionare. Il resto, in fondo, non conta nulla.