Nota di Radio Spada: tra i nostri scrittori abbiamo certamente degli specialisti.  Se Massimo Micaletti è attento studioso delle questioni bioetiche, se Pietro Ferrari è fine politologo e polemista economico, se Giuliano Zoroddu è un “sacro scrittore” molto erudito, se Alessandro Luciani è un apologeta a tutto campo, se Luca Fumagalli spazia tra letteratura anglosassone antica e moderna e le arti visive, se Simone Gambini è un inesausto cultore delle sub culture pop contemporanee, Mattia Spaggiari apre per Radio Spada gli confinati campi della letteratura tedesca. Anche qui troviamo spunti interessanti per la battaglia culturale e religiosa cattolica integrale che conduce il nostro blog. Questo lungo articolo sarà pubblicato in tre puntate oggi, il 29 agosto ed il 30 agosto 2018. Pur continuando a seguire le polemiche quotidiane di gazzettieri ed ecclesiologici, Radio Spada continua con voi lettori questo dialogo fruttoso e vivificante. Buona lettura! (Piergiorgio Seveso)

 

Il principe di Homburg (1811) è senz’altro il più celebre ed il più rappresentativo tra i drammi composti da Heinrich von Kleist (1777-1811), in quanto in esso non solo possiamo rintracciare in magistrale sintesi tutti i temi che l’autore sviluppa nel corso della sua tragicamente breve carriera letteraria, ma soprattutto possiamo cogliere gli estremi e più maturi frutti del suo tormentato pensiero. Si tratta infatti dell’ultimo lavoro teatrale realizzato dallo scrittore prussiano prima di quel fatale 21 novembre 1811 in cui, di comune accordo con lei, sulle rive del Wannsee, Kleist esplose un colpo di pistola al cuore della sua – platonica – amante Henriette Vogel, per poi puntare la medesima arma alla propria tempia.

La domanda che potrà sorgere spontanea in molti di voi sarà: perché mai dovremmo leggere gli scritti od interessarci alle idee d’uno scrittore nemmeno cristiano e per giunta morto suicida? La risposta è molto semplice: perché egli era un genio; e se il suo genio non bastò a dargli la fede – e solo un pelagiano potrebbe credere che questa venga da quello – fu comunque sufficiente a suggerirgli certe riflessioni che io ritengo essere in perfetta concordanza colla vera religione ed anzi suo fondamentale patrimonio. Si accolga dunque la sua opera al pari di quella d’uno scrittore pagano, nulla più, nulla meno.

Sebbene io sia convinto – o quantomeno speri, consapevole dell’avito pregiudizio che per molto tempo ha impedito ed in parte ancora impedisce agli italiani se non di tributare il giusto apprezzamento alla cultura tedesca, almeno di conoscerla – che l’autore ed il dramma cui testé ci accostiamo siano già sufficientemente noti ai più, mi pare comunque opportuno rammentare che tutta la speculazione di Kleist nasce da un’estremizzazione del Criticismo kantiano, che in tal guisa viene ricondotto, oserei dire naturalmente, al Primitivismo rousseauiano, pur senza rinnegare la sua origine; laddove Kant, pago del fenomeno, s’era inchinato ai piedi della scienza moderna, laddove Rousseau aveva ammesso che lo stato di natura non doveva essere restaurato se non in versione mitigata, Kleist continua a lottare per conformare la propria vita all’ideale, pur nella consapevolezza dell’inevitabile fallimento. Egli si fa portatore delle tre istanze fondamentali del pensiero tedesco d’ogni tempo: l’irriducibile radicalità – donde i toni violenti, l’orrore di qualsiasi compromesso e la tendenza all’astrazione e alla cerebralità; la necessità, solo apparentemente contraddittoria colla prima istanza, di rispecchiare nella vita il proprio pensiero e viceversa; la forza catartica dell’anelito religioso, spesso distorto e ribelle, ma sempre e comunque traboccante: che cos’è dopotutto il Marxismo stesso se non una religione secolare, fradicio frutto dell’infelice incontro tra la cultura tedesca ed una mente giudea? Kleist stesso ha una venerazione a dir poco religiosa per tutto ciò che è bello, buono e giusto – e per ciò che è tale assolutamente: la sua attitudine al sacro è insomma di stampo decisamente platonico. Scriveva alla sorella Ulrike nel 1799: «Per l’uomo dev’esserci qualcosa di sacro. Per noi, per cui le cerimonie della religione e le prescrizioni del decoro non lo sono, devono essere tanto più sacre le leggi della ragione». Questo in estrema sintesi il suo pensiero: la ragione deve guidare sempre e comunque l’agire umano e determinarne l’esistenza al di là d’ogni sorta di convenzioni; non dobbiamo fermarci alla realtà già data, bensì ordinarla secondo ragione. Esiste infatti un processo di edificazione del nostro spirito, una Bildung, che costituisce l’unico scopo della nostra vita: non viviamo che per essere virtuosi, cioè per essere razionali, e per rendere virtuosi e razionali gli altri uomini. Eppure, secondo Kant, la ragione può attingere soltanto al fenomeno e non mai al noumeno, che però è la sola cosa che ci interessi veramente: che valore può avere ciò che è parziale e soggettivo? posso forse accontentarmi di vedere il mondo sempre e solo da dietro le mie lenti colorate? Il fenomeno si oppone dunque al noumeno, come la cultura allo stato di natura e come lo status quo all’ideale di giustizia, ed essendo inevitabilmente parziale, non può che essere ingannevole. Qual è la soluzione a quest’impasse? La stessa del Kant della terza critica, il sentimento, il quale ci consente d’infrangere la barriera del fenomeno e d’attingere all’universale. Solo il sentimento può restituirci la nostra integrità umana e farci vivere in virtuosa semplicità: in nome di quest’ideale, Kleist volle per qualche tempo abbandonare tutto per diventare contadino in una valle svizzera, salvo poi ritornare alla sua vocazione letteraria. Eppure il sentimento stesso può ingannarsi laddove sia erroneamente indirizzato: esso non è affatto irrazionale, bensì altro non è che la facoltà di amare tutto ciò che è buono – cioè ragionevole – e lo è assolutamente. Il sentimento è insomma la voce della ragione noumenica e dev’essere sempre indirizzato al bene; ciò che è cattivo non deve essere amato. Pertanto il sentimento per essere buono dev’essere guidato dalla legge morale a priori – altro fondamentale kantiano – la quale, non essendo riconducibile alle categorie fenomeniche, ci permette, in coppia col sentimento, di squarciare il velo che cela in noumeno. Ma, ahinoi!, l’innocenza originaria è perduta e noi tutti ci ritroviamo vincolati ad una serie di convenzioni che altro non sono che fraintendimenti della vera ragione, la quale è così impossibilitata a conciliarsi, come invece in origine, col sentimento: donde l’infelicità umana e la perpetua provvisorietà d’ogni conoscenza e azione, per cui l’assoluto può essere solamente vagheggiato e talvolta lambito, giammai raggiunto. Per questo la divinità, cioè la verità assoluta, ha bisogno di mostrarsi in forme umane, precarie e provvisorie, per trovar posto tra di noi, esattamente come nell’Anfitrione (1807) Giove deve presentarsi ad Alcmena sotto mentite spoglie per poter giacere col lei, e quando l’amplesso tra il cuore umano e la verità è avvenuto, si delinea tra il cuore stesso e la mente una frattura che non è più possibile sanare, verità adombrata dal conflitto tra i due coniugi e la disperazione di Alcmena; e quando si cerca di superare questo limite, s’approda alla tragedia, come nel caso della Pentesilea dell’omonimo dramma (1807), che quando rinuncia al suo travestimento non può trattenersi dal fare a pezzi l’amato Achille, o in quello di Michael Kohlhaas (1808), che in nome della giustizia kantiana, per esser rimasto vittima d’una sentenza iniqua mette a ferro e fuoco la Sassonia. Ogni volta che la ragione si applica al reale, da noumenica si fa fenomenica e tradisce il sentimento, il quale non può che essere dell’assoluto, e così, shakespearianamente, paralizza l’azione e le toglie ogni grandezza. L’unico modo per avere la possibilità di agire bene è seguire l’istinto e poi giudicare la nostra azione a posteriori; così si può agire bene come si può agir male, mentre se si fa conseguire l’azione al pensiero, questa sarà sempre cattiva. È proprio l’ideale di conciliazione tra legge della ragione e sentimento a permeare tutta la produzione di Kleist; ma tale ideale non viene declinato affatto, come ci si sarebbe potuti legittimamente attendere, in maniera apertamente anarchica: Kleist infatti appoggia certamente gli ideali della Rivoluzione francese, ma vi antepone sempre e comunque un pugnace patriottismo (tra i motivi del suo suicidio c’è anche il tentativo da parte della Prussia di cercare un accordo con Napoleone), che non si spinse mai oltre l’intento di correggere dal basso l’Ancien Régime in senso libertario più che liberale. Per lui infatti – anche se la questione è tuttora sub judice – la proprietà, la gerarchia sociale, la patria, ecc. sono valori perfettamente razionali e naturali, o quantomeno non costituiscono un problema; la vera natura dell’uomo non è infatti soddisfare in “libertà” ogni nostro desiderio, ma sì la libertà intrinseca al sentimento, la spontaneità con cui il cuore ricerca ed afferra il bene: ciò che è veramente contro natura è dunque che il cuore venga messo a tacere dalla legge, non la legge in sé, per la quale anzi il Nostro ha una vera e propria venerazione. Se Rousseau è convinto dell’intrinseca bontà dell’essere umano e della possibilità della sua correzione, Kleist postula tuttavia una sorta di peccato originale che gli impedisce di essere felice: non si tratta certamente del peccato originale cristiano (anche se da esso certamente prende le mosse, il che è comprensibile se si pensa che il piccolo Heinrich ricevette l’educazione primaria da un pastore luterano), bensì d’una fallacia della ragione da cui non ci si può sottrarre, la quale consiste appunto nel suo distacco dal sentimento: la mente invanisce quando s’allontana dal cuore esattamente come il cuore è cieco senza la guida della mente; la conciliazione tra i due sarebbe il Paradiso. Figura emblematica di tale colpa originaria è il giudice Adam, protagonista dell’unica commedia di Kleist, La brocca rotta (1806), in cui questi, sotto il vigile e minaccioso sguardo dell’ispettore di giustizia Licht (“Luce”, antonomasia della ragione noumenica) si ritrova a dover scoprire chi abbia rotta la brocca (allusione alla verginità perduta) della giovane Eve, conscio di essere egli stesso colpevole e di dover faticare per nascondere la sua colpa, la quale si rende visibile a tutti a causa della sua improvvisa zoppia, rimediata in seguito alla precipitosa fuga dalla finestra della ragazza, ma attribuita ad un’accidentale “caduta”; per non farsi scoprire, egli ricatta la giovane, facendole falsamente credere di poter evitare la chiamata alle armi del suo fidanzato Ruprecht nelle Indie Orientali – quando in verità era stato destinato al servizio interno – ma, anche grazie alla fiducia che il giovane impara a riporre nell’amata al di là di ogni evidenza, viene comunque scoperto e costretto alla fuga, anche se ciò non può restituire ad Eve la sua brocca, ma solo la speranza che un tribunale superiore potrà far giustizia. Fuor di metafora, la fallace ragione fenomenica, e con essa la cultura e tutte le convenzioni sociali, ha corrotto gli uomini e vorrebbe legarli a sé facendosi credere indispensabile; ma il sentimento congiunto alla vera ragione noumenica la smaschera, anche se così facendo non ottiene altro che disvelare il peccato originale dell’uomo, senza però poterlo curare, almeno fino a quando ad istituire il kantiano tribunale in cui la ragione giudica se stessa non sarà la ragion pura, ma quella pratica, non il relativo, ma l’assoluto.

Continua…