di Luca Fumagalli

Quando si pensa ai pochi romanzieri cattolici inglesi che, nell’ultimo secolo e mezzo, mostrarono un particolare interesse per le questioni politiche, vengono in mente due nomi del primo Novecento, quello di Frederick Rolfe (1860-1913), meglio noto con il nom de plume di Baron Corvo, e quello di mons. Robert Hugh Benson (1871-1914). Influenzati dalla cultura reazionaria della vicina Francia e da un ideale aristocratico dal sentore decadente, i due furono tra i più noti avversari della moderna società agnostica. Per quanto, a volte, la critica contenuta nei loro romanzi assuma toni così violenti da risultare al limite del caricaturale, non vi è alcun dubbio sulla serietà delle intenzioni che animarono entrambi gli autori.

In Adriano VII (1904) – la storia, zeppa di rimandi autobiografici, di un oscuro letterato inglese che diventa Papa – uno dei primi proclami che Corvo mette in bocca al protagonista eponimo è una dura reprimenda della dottrina egualitaria: «Proclamò il dogma dell’uguaglianza come un qualcosa di scientificamente, storicamente e ovviamente falso e impraticabile; come un’illusione diabolica escogitata per la rovina delle anime».

Più in generale, il romanzo è uno strano impasto che mischia la cronaca politica dell’epoca con le vicende futuribili vissute da Adriano VII. Ne è un ottimo esempio il brano in cui Rolfe immagina il leader socialista Jean Jaurès – descritto come un pericoloso anarchico – a capo di una nuova Francia rivoluzionaria, organizzata secondo il modello della Comune parigina del 1871. Le critiche, in verità piuttosto superficiali, non risparmiano nemmeno il laburismo britannico: la “Liblab Fellowship” è una brillante invenzione di Rolfe che, in anticipo sui tempi, profetizza l’estendersi a sinistra del virus liberale.

Le medesime questioni vennero affrontate pure da mons. Benson nel celebre Il Padrone del mondo (1907). Con un piglio da consumato apologeta, il sacerdote inglese parte da una critica al socialismo laico – Gustave Harvé è l’obiettivo numero uno – per giungere, infine, a mettere sotto accusa la massoneria, il grande e terribile burattinaio che controlla la modernità.

Nel romanzo utopico L’alba di tutto (1911) si immagina, al contrario, un mondo ideale in cui il socialismo è stato sconfitto; la Chiesa, ora vittoriosa, si basa sui sacrosanti principi della gerarchia, della disciplina e dell’autorità. Ancora una volta la Francia è l’emblema del cambiamento: la monarchia orleanista è stata ristabilita e il paese è diventato «quasi una terra di santi».

Al netto delle molte ingenuità, i libri di Rolfe e Benson esemplificano perfettamente l’atteggiamento conservatore della maggioranza degli intellettuali cattolici britannici agli esordi del XX secolo. Tale posizione si sarebbe mantenuta inalterata, pur con qualche piccolo cedimento, fino al Concilio Vaticano II, quando il progressismo (tanto politico che teologico) iniziò a infettare irrimediabilmente anche la letteratura.