Riflessioni di teodicea ne La Peste di Albert Camus

di Andrea Allegretti

Nella premessa al suo saggio Il male del 1986, Paul Ricoeur scrisse che “la teodicea appare come una lotta in favore della coerenza”. Circa quarant’anni prima, Albert Camus, uno dei maggiori pensatori francesi del XX secolo, vincitore del Nobel per la letteratura nel 1957, nel suo romanzo La peste, pubblicato nel 1947, cercò di rendere ragione del suo pensiero, affrontando magistralmente il tema del male che affligge l’uomo in rapporto all’esistenza di Dio. Camus infatti, mai si definì ateo nel senso pieno del termine, bensì agnostico nei confronti di quel Dio onnipotente e misericordioso prospettato dal cristianesimo: il suo scetticismo verteva principalmente proprio sull’esistenza di quei molteplici mali che sempre ed ovunque affliggono l’uomo nell’animo e nel corpo.

Questa tragica visione dell’esistenza umana votata all’assurdo (come egli la intese ne Il mito di Sisifo del 1942), venne presa in esame da Camus mediante l’immagine della peste che, nel romanzo del 1947, devastò immaginariamente la popolazione della città algerina di Orano. La Peste narra la vicenda sotto forma di cronaca di Bernard Rieux, un medico angosciato dalla tragicità degli eventi che si trova a vivere e dalla caducità dell’esistenza umana. Sull’orribile scenario dipinto da Camus, quasi fosse una sotto trama attraversata dal vero intento letterario dell’autore (quello di proporre una riflessione romanzata sul male), si snodano le considerazioni teodicee di Camus, sotto forma di dialoghi tra Rieux e padre Paneloux, un gesuita.

Un medico ed un prete, due figure per Camus in contrasto tra loro: “se un prete consulta un medico vi è contraddizione”, scrive, entrambi però alla ricerca della verità sulla peste, sulla sua natura, sulla sua origine e sulla sua finalità. Mediante il personaggio di Rieux, Camus esprime il suo pensiero sulla misericordia tanto predicata e diffusa dalla Chiesa in nome di Dio (straordinariamente attuale, considerato il “programma” del papato di oggi):

“I giusti non possono temere, ma i malvagi hanno ragione di tremare […]. Troppo a lungo il mondo è venuto a patti col male, troppo a lungo si è riposato sulla misericordia divina. Bastava il pentimento, tutto era permesso. E per il pentimento, ciascuno si sentiva forte […]. Di qui, la cosa più facile era lasciarsi andare, la misericordia divina avrebbe fatto il resto. Ebbene, questo non poteva durare!”. La verità e l’attualità di queste parole sono esageratamente spiazzanti. Continua Camus: “Voi avete creduto che vi basterebbe visitar Dio la domenica per esser liberi dei vostri giorni; avete pensato che alcune genuflessioni lo ripagassero abbastanza della vostra incuria criminale. Ma Dio non è tiepido, questi rari rapporti non bastavano al suo divorante affetto. Vi voleva vedere più a lungo; è la sua maniera di amarvi e, a dir la verità, è la sola maniera di amare. E per questo, stanco di aspettare la vostra venuta, ha lasciato che il flagello vi visitasse […]. Adesso voi sapete cosa sia il peccato , come lo hanno saputo Caino e si suoi figli, quelli prima del diluvio, quelli di Sodoma e Gomorra. Faraone e Giobbe e anche tutti i maledetti […]. Adesso voi sapete, finalmente, che bisogna giungere all’essenziale […]. Lo stesso flagello che vi tormenta vi eleva e vi mostra la via”.

In queste righe traspare non solo la polemica intentata da Camus contro i cristiani tiepidi “da domenica” ma soprattutto si intravede una venatura teologica: una ripresa del forte senso del peccato come fonte del male e forse, potremmo osare, un accenno di pensiero agostiniano circa l’Amore (“è la sua maniera di amarvi e, a dir la verità, è la sola maniera di amare”). Riguardo quest’ultimo punto, è straordinaria la concezione che Camus ha della misericordia divina: essa è tanto grande e tanto paziente da consentire all’uomo una libertà estrema. Fino a qua, la Chiesa di Bergoglio è stata magistrale (ironicamente!); ma è nel passaggio successivo che Camus ha il coraggio di prendere in considerazione l’altra faccia della medaglia, quella che oggigiorno viene nascosta o addirittura negata: da una parte la misericordia, dall’altra la giustizia. “[…] E per questo, stanco di aspettare la vostra venuta, ha lasciato che il flagello vi visitasse”: non vi può essere perdono senza pentimento; accanto al tanto acclamato Giubileo della Misericordia del 2015 (che ha sancito l’orribile economia del laissez-faire nella Chiesa) sarebbe stato sacrosanto indire un Giubileo del Pentimento. Non si può abusare del perdono per fare ciò che si vuole, il pentimento diviene bugia, la Misericordia diviene nulla perché ingloba in sé anche la peggiore delle colpe, il male è frutto dell’eccessiva libertà che l’uomo ha, e questo Camus lo aveva ben capito, da agnostico, senza prendere voti e studiare teologia!

In un passo del romanzo, Camus narra dell’omelia di padre Paneloux alla folla di cittadini sconfortati dal massacro della peste: “[…] Disse esservi cose che si potevano spiegare riguardo a Dio e altre che non si potevano. Certamente vi erano il bene e il male e, in generale, ci si spiegava agevolmente quello che li separava; ma nell’ambito del male cominciava la difficoltà. C’erano, a esempio, il male apparentemente necessario e il male apparentemente inutile […]. Se infatti è giusto che il libertino sia fulminato, non si capisce la sofferenza dell’innocente […]. L’amore di Dio è un amore difficile […]: la fede, crudele agli occhi degli uomini, decisiva agli occhi di Dio, a cui bisogna avvicinarsi.

Camus, dopo aver chiarito l’origine del male, mediante la figura del sacerdote gesuita (il quale morirà anch’egli di peste), esprime il suo pensiero circa una delle note dolenti della teodicea: non più il male in generale, ma il male che attanaglia gli innocenti, i bambini. Ne La Peste vengono narrate scene tragiche ed esasperanti circa le sofferenze dei più piccoli: l’inizio della malattia, l’isolamento dalle famiglie, le convulsioni dei corpicini inermi, le cure inefficaci ed infine la morte, che sembra giungere come amica desiderata dai piccoli affetti di peste, come unico rimedio all’insopportabile dolore. La risposta di Camus è semplice, enigmatica, ma allo stesso tempo, forse, conforme al cristianesimo, “il cui Maestro ha conosciuto il dolore nelle membra e nell’anima”: la fede è difficile, e poiché essa è espressione dell’amore di Dio e per Dio, l’amore cristiano stesso è difficile. La fede è “crudele agli occhi degli uomini, decisiva agli occhi di Dio”, un rimando, questo, all’esperienza di Abramo sul monte Moriah quando Dio chiese al suo servo più fedele di sacrificare il figlio Isacco. Già Kierkegaard aveva riflettuto sull’irrazionalità di questo episodio: il filosofo danese aveva perciò definito la fede (e l’esperienza religiosa in generale) come angoscia, paradosso, timore e tremore. Ad Abramo tuttavia, verrà concesso di risparmiare il figlio dalla morte e verrà altamente ricompensato, ai piccoli affetti di peste invece, non verrà risparmiata neanche una minima parte dell’orrenda sofferenza che li porterà, infine, alla morte più atroce. Perciò, con sensibilità umana e razionalità profonda, Camus scrive: “Chi poteva affermare che l’eternità d’una gioia possa compensare un attimo del dolore umano?”.

Dinanzi a tanto orrore, a tanta sofferenza, a tanto male, il cristiano deve addossarsi la responsabilità che la fede comporta e, insieme, ad essa, la sua “difficoltà”: “Quando all’innocenza fanno crepare gli occhi, il cristiano deve perdere la fede o accettare che crepino anche a lui […]. La sua vera colpa è di aver approvato nel suo cuore quello che faceva morire bambini e uomini”.

Le considerazioni di Camus sono giustificate, razionali, e reali, così come lo sono le risposte che egli stesso propone a quei dubbi esistenziali che ancor oggi, a buona ragione, assalgono con kierkegaardiana angoscia l’uomo in cerca di Dio. Camus non riesce a comprendere il perché del male nel mondo e preferisce così rassegnarsi ad essere Spettatore delle crudeltà che ogni giorno ed in ogni tempo devastano tutto ciò che esiste sulla faccia della
Terra. Camus non disprezza chi si “rifugia nella fede”, chi “alza gli occhi al cielo” ma, dal canto suo, preferisce confidare nell’uomo e nella sua lotta nel contrastare la sofferenza ed il dolore. Il male d’altronde, ci mette “ai piedi d’un muro”.

Quando si ha a che fare con il male “bisogna o tutto credere o tutto negare […]. Nella sventura bisogna assumere la più grande virtù, quella del Tutto o del Nulla”.