di Luca Fumagalli
L’inglese Ivan Locke (interpretato da Tom Hardy) è un affermato costruttore di edifici, con una bella moglie e due figli che gli vogliono bene. All’alba dovrebbe presiedere alla più ingente colata di cemento di cui si sia mai dovuto occupare, ma la telefonata di Bethan cambia i suoi piani: la donna, con cui aveva trascorso una notte mesi prima, sta infatti per partorire, e Locke ha deciso di andare da lei in ospedale a Londra. Inutile dire come la scelta di quella notte sia destinata a mutare per sempre il corso della sua vita.
Locke, film del 2013 per la regia di Steven Knight, si dipana nel corso di quasi novanta minuti nei quali il tempo della storia e il tempo del racconto coincidono; non c’è altro luogo al di fuori dell’abitacolo della Bmw in movimento e nessun altro personaggio oltre a quello del titolo, impegnato in un dialogo telefonico pressoché ininterrotto con la moglie, i figli e l’operaio a cui ha affidato la gestione del cantiere.
I temi trattati dalla pellicola variano dall’assunzione di responsabilità – per scomoda e punitiva che sia – all’estrema fragilità degli edifici morali sui quali si costruiscono oggi famiglie e sicurezze. Basta infatti un imprevisto e in poche ore tutto è compromesso. L’ottima interpretazione di Hardy dà corpo ai tormenti di un uomo che, per dirla alla Wilde, ha ucciso tutto ciò che amava. La sua colpa è evidentissima, ma anche in un tale gorgo disastroso la scintilla della redenzione non è mai completamente spenta: la decisione di non fare finta di nulla, di prendere su di sé fino in fondo il fardello di un gravissimo errore, potrebbe infatti segnare per Locke l’inizio di una misteriosa quanto affascinante redenzione personale.