di Luca Fumagalli

Che molti esponenti di spicco del revival letterario cattolico nell’Inghilterra del Novecento abbiano assunto posizioni scettiche – quando non apertamente critiche – nei confronti delle riforme promosse dal Concilio Vaticano II (1962-1965), è cosa ormai nota. Pochi, come Graham Greene, furono gli entusiasti: la maggior parte degli intellettuali, al contrario, avanzò più di una riserva. Il caporione dei dissidenti fu Evelyn Waugh, che dal giorno della chiusura del Concilio non smise mai di chiedere a Dio di poter morire ancora cattolico (pertanto, nella sua scomparsa, avvenuta improvvisamente durante la Pasqua del 1966, si è tentati di scorgere un qualche segno provvidenziale).

Al pari di Waugh, anche J. R. R. Tolkien visse con sentimenti contrastanti quanto stava avvenendo al Concilio. George Sayer, che con il professore di Oxford discusse lungamente durante gli anni ’60, non mancò di evidenziare la matrice “tradizionale” del cattolicesimo tolkieniano: «Era un cattolico molto rigoroso. Era molto ortodosso e vecchio stile, e si oppose alla maggior parte dei nuovi sviluppi nella Chiesa al tempo del Concilio Vaticano II». Parole analoghe sono impiegate da John Tolkien, il figlio dello scrittore che era diventato sacerdote negli anni ’40: a sua detta il padre era «contro i cambiamenti, […] soprattutto la perdita del latino».

Del resto il 1 settembre 1963 lo stesso Tolkien aveva scritto una lettera in cui, dopo aver espresso tutto il suo amore per il Papato romano e per il Santo Sacramento, elogiava San Pio X, il Pontefice che, secondo lui, fece «la più grande riforma del nostro tempo». In un’altra epistola indirizzata al figlio Michael, manifestò più esplicitamente i suoi dubbi: «So abbastanza bene che, sia per me che per te, la Chiesa che una volta percepivamo come un rifugio, ora sembra spesso una trappola. […] Penso che non ci sia nulla da fare se non pregare, per la Chiesa, per il Vicario di Cristo, e per noi stessi; e allo stesso tempo esercitare la virtù della lealtà, che diventa veramente una virtù solo quando vi è il serio rischio di tradirla».

Le accuse di Tolkien erano dirette soprattutto ai novatori, in particolare a coloro che pretendevano di tornare a una presunta purezza originale: «Cosa fosse la “Chiesa primitiva”, nonostante tutte le ricerche, rimarrà qualcosa di ampiamente sconosciuto; […] ciò che è primitivo non è garanzia di valore». Nel prosieguo della lettera, l’autore del Signore degli anelli spiega poi come sia assurda la pretesa di estirpare un albero per ricercarne il seme: semplicemente quest’ultimo non c’è più; il tronco, le fronde e le foglie sono la sua naturale evoluzione, non certo un tradimento. L’ “archeologismo” e il suo contraltare, lo sbandierato “aggiornamento”, furono le parole d’ordine che, anche a detta di Waugh, caratterizzarono lo spirito eterodosso (o “modernista”) del Concilio.

Altre questioni scottanti, come l’ecumenismo, incontrarono solo in parte il suo favore: se da un lato il professore considerava ovvio che i soldati del cattolicesimo non potessero vincere la guerra rimanendo sempre asserragliati nella propria fortezza, dall’altro ricordava a Michael: «Che cosa sarebbe ora la cristianità se la Chiesa di Roma fosse stata distrutta?».

Tuttavia, a differenza di Waugh, Tolkien non intraprese la strada dell’opposizione militante. Optò – come la maggior parte dei perplessi – per l’ubbidienza, accettando con rassegnazione cambiamenti che non capiva fino in fondo. Davanti a un tale smarrimento scelse l’unica soluzione che gli pareva possibile, quella cioè di affidarsi al giudizio del Papa. D’altronde, lo aveva imparato sin da piccolo, non era pur vero che il Vicario di Cristo non poteva ingannarsi e ingannare in materia di Fede?