di Luca Fumagalli

Graham Greene (1939)

Graham Greene (1904-1991) è generalmente considerato come uno di più importanti romanzieri inglesi del Novecento. Al pari del suo modello, il francese François Mauriac, Greene, più che “scrittore cattolico”, amava definirsi «un cattolico a cui è capitato di scrivere dei romanzi». In verità, se si dà uno sguardo ai suoi libri pubblicati nel periodo tra il 1938 e il 1951, vi è un ricorrere costante di temi che hanno a che fare con la religione. Anche negli ultimi anni di vita l’autore inglese, pur mettendo in discussione molti aspetti della dottrina tradizionale della Chiesa, continuò a dialogare con la propria Fede, in un confronto serrato ed estenuante.

La visione del mondo espressa dalla letteratura di Greene è cupa, a tratti terribile. La sua penna si muove con irrequietezza tra gli opposti dell’innocenza e della colpa, della lealtà e del tradimento, confusi senza speranza in un mondo di apparenze. Le trame delle sue opere – che hanno il grandissimo pregio di evitare gli stereotipi e la banalità di molta apologetica – si dipanano in una grande varietà di scenari che vanno dall’Inghilterra al Messico, dall’Indocina all’Africa. Il conflitto esistenziale che lacera le coscienze dei protagonisti non conosce requie, non esistono luoghi in cui si è al sicuro: tutti danzano sulle note della futilità, della sofferenza e della disperazione. In rari momenti fa capolino la speranza, ma è solo la folgorazione di un istante, lo spettro di una redenzione che, tuttavia, non è mai sicura. Ciò che alla fine rimane è una domanda inevasa, senza risposta.

François Mauriac e Graham Greene (1948)

Lo stile di Greene, contraddistinto da una prosa vivace e coinvolgente, mutò molto nel corso degli anni. Nei suoi primi libri fece ampio uso di tutte quelle immagini mistiche che caratterizzarono la letteratura di Georges Bernanos, Leon Bloy e Charles Peguy (erano comunque già presenti l’impazienza e il cinismo delle opere mature). Più avanti lo scrittore dimostrò di prediligere un approccio indiretto nei confronti delle tematiche religiose, spesso solo sfiorate, alluse sottopelle. In ultimo, ereditò da Mauriac l’avversione per il romanzo flaubertiano, rivendicando il diritto dell’autore di intromettersi nelle vicende per commentarle e per esprimere il proprio punto di vista.

I primi lavori di Greene, che si era convertito alla Chiesa di Roma nel 1926, erano romanzi polizieschi in cui la Fede non aveva alcuno spazio. Opere come Il treno d’Istanbul (1932), ad esempio, contengono pochissime tracce di cristianesimo. È solo con Una pistola in vendita (1936), la storia di un killer professionista in cerca di vendetta, che Greene iniziò a confrontarsi, seppur ancora in un contesto laico, con il significato del bene e del male, uno dei temi cardine di quello che può essere considerato il suo primo vero romanzo cattolico: Brighton Rock (1938).

“Fine di una storia”, romanzo del 1951 (Edizione Mondadori, 2013)

Il libro, che si presenta come il seguito di Una pistola in vendita, porta lo scontro tra virtù e peccato su un inedito piano teologico. Pinkie, un giovane delinquente di Brighton, per evitare di finire in prigione con l’accusa di omicidio, si trova costretto a sposare Rose, l’unica testimone del delitto. Entrambi sono cattolici e, sebbene moralmente deprecabili e ignoranti – non tanto, però, da non saper formulare frasi in latino –, non smettono mai di interrogarsi sulla redenzione e sulla dannazione, dando particolare rilievo al valore della Grazia divina. In Pinkie, lucido agente del male, con una punta di eterodossia santo e peccatore si avvicinano pericolosamente. La percezione che il ragazzo ha di sé, infatti, è tutta compresa nella consapevolezza, esclusiva e negata agli “altri”, che in serbo per lui – come per Rose – c’è un destino superiore. In ogni caso il finale è all’insegna della tragedia.

Dubbio, angoscia e ironia amara caratterizzano invece Il potere e la gloria (1940). In un Messico insanguinato dalla rivoluzione, in un paese che perseguita, fucila o costringe al matrimonio i ministri di Dio, l’ultimo sacerdote è braccato in una spietata caccia all’uomo. Sulle sue tracce vi è un “giustiziere” idealista e implacabile, del tutto simile alla Ida di Brighton Rock. La preda non ha un nome: il «prete spugna» (whisky priest), com’è chiamato dalla gente, è un uomo indegno, debole e impuro. Il peso delle sue colpe lo perseguita e solo l’alcol pare in grado di allontanare, almeno per qualche tempo, i demoni che ne infestano l’anima. Anche se vorrebbe mettersi in salvo, allontanarsi per sempre da quella terra dimenticata da Dio, una forza più grande della sua debolezza lo costringe a ritornare ogni volta sulla via del calvario. La dolorosa, più che umana parabola del prete peccatore dipinta nel testo è una delle espressioni più alte del personalissimo cattolicesimo dell’autore, costantemente illuminata dall’interesse «per il bordo vertiginoso delle cose», crinale esiguo tra il riscatto e il baratro della perdizione.

Graham Greene in posa per un ritratto (1937)

Nell’ultimo grande romanzo cattolico di Greene, Fine di una storia (1951), Sara, la protagonista, promette a Dio che se il suo amante, forse ucciso durante un bombardamento aereo, tornerà in vita, rinuncerà per sempre a lui. La storia è raccontata attraverso lo sguardo di quest’ultimo, Bendrix, che crede di essere stato abbandonato dalla donna per un altro; decide così di ingaggiare un detective privato solo per scoprire, nell’epilogo del libro, che il suo rivale in amore, in realtà, è Cristo stesso. La rivelazione finale lo sconvolge, ma il suo agnosticismo – accompagnato da una buona dose di pregiudizio anti-cattolico – ne esce solo superficialmente scalfito. In una Londra distrutta dalle bombe della Seconda guerra mondiale, vizi, compromessi, bassezze ed egoismi si mescolano all’amore, quello rabbioso degli amanti e quello inatteso di Sara per Dio. In Fine di una storia Greene torna dunque a parlare dell’inafferrabile presenza del divino nel mondo e dell’inquietudine degli esseri umani, eternamente costretti in una condizione di contraddittorietà.

A partire dalla metà degli anni Cinquanta la religione tornò a contare poco nei romanzi di Greene. Come in precedenza, essa non scomparve del tutto, ma passò in secondo piano, insinuandosi nelle intercapedini della trama. Un americano tranquillo (1955), Il nostro agente all’Avana (1958), Un caso bruciato (1960), I commedianti (1966), Il console onorario (1973) e Il fattore umano (1978) sono ottimi esempi delle nuova strada intrapresa dal romanziere inglese (anticipata nel 1948 da Il nocciolo della questione).

Un anziano Graham Greene (1987)

Il suo essere un “cristiano scettico”, tormentato da dubbi e ripensamenti, fa di Graham Greene una figura centrale nella storia della letteratura cattolica inglese, uno spartiacque tra la vecchia generazione d’inizio secolo – il cui ultimo rappresentante di spicco fu il suo amico/nemico Evelyn Waugh – e quella progressista del secondo dopoguerra (non a caso Greene, pur tra i firmatari del famoso “indulto di Agatha Christie”, fu un sostenitore delle riforme promosse dal Concilio Vaticano II).

I suoi libri non sono altro se non lo specchio della Chiesa “liquida” contemporanea, che brancola nel buio, schiacciata dalle circostanze, incapace di offrire una qualche certezza. Rappresentano perfettamente il trionfo della coscienza, dell’individualismo o, in altre parole, del caos postmoderno.


Fonti: R. GRIFFITHS, The Pen and the Cross, Continuum, Londra, 2010; N. SHERRY, The Life of Graham Green, Penguin, Londra, 2004, 3 voll.; J. PEARCE, Catholic Literary Giants, Ignatius Press, San Francisco, 2014; J. PEARCE, Literary Converts, Harper Collins, Londra, 2000.