di Sergio Flore

Il mondo di Westeros ed Essos è, come anche ammesso dal suo stesso creatore George R. R. Martin, palesemente ispirato all’Inghilterra e all’Europa del XV secolo. I costumi, le armi, le classi sociali e la vita degli abitanti dei Sette Regni di ‘A Song of Ice and Fire’ (Game of Thrones per gli appassionati della serie TV) rievocano l’immaginario che un po’ tutti hanno dei cosiddetti ‘secoli bui’. Per chi è appassionato di storia, però, lungo tutta la serie resta l’impressione che manchi qualcosa, che il quadro non sia completo.

Non si tratta certo della presenza dei draghi, e neppure dei riferimenti alla magia, alla quale peraltro in pochi credono. L’uomo medievale sapeva bene che il mondo era abitato da bestie sconosciute, ed era conscio dell’esistenza di poteri soprannaturali e occulti, al di là della propria comprensione. In questo la realtà medievale era fantasiosa quanto quella dei romanzi di Martin. L’universo creato dallo scrittore statunitense manca invece di un particolare essenziale per dare un senso alla mentalità dei vecchi tempi. Il mondo immaginario di Martin potrebbe infatti rappresentare accuratamente cosa sarebbe stato il Medioevo senza la Fede.

La religione esiste a Westeros, nonostante occupi un posto marginale nella narrazione. A crederci sul serio sono in pochi, il più delle volte descritti come zeloti fanatici o impostori. Per i deboli la fede è una superstizione, per i forti uno dei tanti strumenti per il potere. Martin cade nell’errore più comune per chi scrive romanzi storici o fantasy di questo tipo: trasporta in un universo medievale lo scetticismo e il cinismo tipici dell’uomo moderno. Un dettaglio non indifferente, visto che fa crollare completamente tutto il sistema di valori che ci si aspetterebbe in un mondo che si rifà all’Europa de ‘l’arme e gli amori’.

Fatte le dovute eccezioni, gli abitanti del medioevo fantastico di Martin ignorano l’onore e la cavalleria. I pochi personaggi che provano a incarnare l’ideale che ha guidato i paladini di Carlomagno o i cavalieri della Tavola Rotonda vengono sconfitti, derisi oppure escono di scena alla svelta, spesso brutalmente. Abnegazione e compassione sono valori per gli ingenui o per gli sfortunati che non hanno la possibilità di approfittare del prossimo. Il risultato è l’opposto speculare della letteratura cortese medievale, testimonianza scritta di quanto e di come gli uomini di quel tempo, nonostante le dure avversità materiali, credettero fermamente nel Bene e nel dovere che gli uomini avevano di aspirare a esso.

Il fantasy novecentesco nato principalmente dalla penna di J. R. R. Tolkien doveva essere la prosecuzione di quel filone. Tolkien stesso era un cattolico devoto, e uno studioso esperto degli antichi miti europei e della Materia di Bretagna, il ciclo di Re Artù. Se si guarda alla sostanza delle cose c’è molta meno differenza tra tra il racconto di Erec e Enide e Il Signore degli Anelli, scritti a distanza di otto secoli, che tra quest’ultimo e A Song of Ice and Fire.

Probabilmente è proprio per questo che la serie di Martin viene definita un ‘fantasy per adulti’. Un’opera che, per la critica, riesce a liberarsi dalle affinità con i suoi scomodi predecessori, troppo ancorati alla religiosità e agli antichi valori che il lettore moderno non sente più come suoi. Non è un caso che Game of Thrones abbia affascinato specialmente chi, fino a pochi anni fa, di fantasy non si era mai interessato. La creazione di Martin è presentata come la versione matura e cresciuta del romanzo epico, finalmente scremata da bontà, giustizia, onore, coraggio, amore. Tutte cose che nel XXI secolo, evidentemente, sono considerate sciocchezze per bambini. Forse minano la credibilità della storia. Forse oggi non è possibile immaginare un soldato che combatte per una causa diversa dall’interesse personale, un prete che crede a ciò che dice, un politico che rifiuta di ricorrere all’intrigo e comunque riesce a mantenere il potere, magari persino acclamato dal popolo.

In ogni caso, il lettore e il telespettatore sembrano non desiderare nulla di questo. Molto meglio una saga – avvincente e ben narrata, sia chiaro –  di omicidio, incesto e tradimento. Una lunga fiaba che non fa altro che insegnare nuovamente la legge del più forte e l’egoistico amore per sé stessi, i miti moderni costantemente propagandati nelle loro declinazioni biologiche, economiche e sociali. Il coraggio di raccontarsi fedelmente la cruda realtà? O la paura di misurarsi, fallendo, con quella descritta dai nostri predecessori?