di Francescoandrea Allegretti

Analisi, commento e attualizzazione della questione 2, parte I della Summa Theologiae

Bibliografia. Per i testi riportati si vedano interamente La Somma Teologica, edita dalle Edizioni Studio Domenicano (Bologna 2014) e Introduzione alla filosofia cristiana di E. Gilson, edita dall’Editrice Massimo (Milano 1986).

Introduzione

«[…] Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3, 15). L’invito di Pietro – sempre attuale e necessario – a “dare ragione” della speranza cristiana è divenuto oggi un qualcosa di molto difficile per due ragioni primarie: per la scarsa conoscenza del contenuto di tale speranza e per l’indisponibilità all’ascolto della Verità dell’uomo moderno, nonché per l’indebolimento del senso stesso della Verità in lui. Tra coloro che sono da
considerarsi indiscussi pilastri della dottrina cattolica vi è Tommaso d’Aquino (1225-1274), il Doctor Angelicus: egli fu certamente un ammirabile difensore dalla fede, dedicando interamente la sua vita allo studio
e all’insegnamento di questa speranza.
Ieri come oggi, la prima domanda che viene rivolta ad un credente riguarda la conoscenza dell’esistenza di Dio e la sua dimostrazione: questo è proprio il primo fronte su cui il cristiano è chiamato a “combattere” per difendere la speranza cristiana. San Tommaso dedica proprio la prima parte della Summa Theologiae a quest’argomento, ovvero alla difesa e alla dimostrazione dell’esistenza di Dio, sostenendo che «lo scopo principale della dottrina sacra è quello di far conoscere Dio»: medesimo scopo si prefigge questo articolo che, senza pretese di particolari “illuminazioni”, intende riconsiderare la trattazione di san Tommaso circa l’esistenza di Dio e la sua dimostrazione, attualizzandola grazie anche all’ausilio di alcuni
commenti del notissimo filosofo neotomista francese Etienne Gilson (1884-1978) che spesso sarà citato proprio a tal fine.
Nella seconda questione della prima sezione della Summa dal titolo Trattato su Dio, l’esistenza di Dio (De Deo, an Deus sit), quest’argomentazione viene tripartita; san Tommaso pone infatti tre quesiti: è di per sé evidente che Dio esiste? (art. 1); si può dimostrare che Dio esiste? (art. 2); e infine, esiste Dio? (art. 3).

L’evidenza dell’esistenza di Dio

La prima domanda che san Tommaso si pone è se sia di per sé evidente
l’esistenza di Dio, ovvero se sia possibile affermare che Dio esista al di là del nostro pensiero e dei nostri ragionamenti a riguardo. La risposta di san Tommaso è affermativa.
Innanzitutto egli riprende le parole di san Giovanni Damasceno (676-749), santo e teologo arabo cristiano, il quale afferma che «la conoscenza dell’esistenza di Dio è insita in tutti naturalmente». San Tommaso, mediante le parole del Damasceno, sottolinea come l’uomo abbia in maniera naturale l’idea di Dio in mente, conoscendo la Sua esistenza ed essendo dunque capax Dei, capace dunque non solo di conoscere ma anche di accogliere Dio.
Dopo aver dato la prima prova che l’esistenza di Dio sia di per sé evidente, san Tommaso, riprendendo sant’Anselmo d’Aosta (1033-1109), scrive: «Ora, inteso cosa significhi la parola Dio, all’istante si capisce che Dio esiste. Si indica infatti con questo nome ciò di cui non si può concepire nulla di più grande». Avendo infatti accertato che la nozione di Dio è intrinseca alla mente dell’uomo in maniera naturale e che dunque esso sappia cosa  significhi la parola stessa, si può affermare che non è né pensabile né dicibile nulla di superiore a Dio (qui san Tommaso riprende il concetto di ineffabilità che Plotino (203/205-270) aveva attribuito all’Uno).
Così come l’uomo possiede l’idea di Dio, egli possiede anche l’idea di Verità e, così come nel caso di Dio, anche della Verità l’uomo ne ha la certezza dell’esistenza. Con questa tesi, san Tommaso afferma che, poiché la Verità è Dio stesso (Cfr. Gv 14, 6) ancora una volta è dimostrato che Dio esiste di per sé, anche perché «tutta la teologia dipende da questa Verità prima». Nel primo sed contra (così erano definite le controtesi nella quaestio, tipiche delle disputae medievali), san Tommaso, riprendendo i primi principi della
dimostrazione in Aristotele, afferma che, poiché si è appurato che l’esistenza di Dio è evidente di per sé, «nessuno può pensare l’opposto di ciò che è di per sé evidente».
Tuttavia, riprendendo il Salmo 14 (13), in cui si afferma che «lo stolto pensa: Dio non esiste», san Tommaso ammette che allora l’evidenza di Dio non è evidente, poiché c’è qualche uomo (benché stolto) che può pensare l’inesistenza di Dio.
L’esito di questo primo articolo è dunque il seguente: Dio è evidente di per sé, ma non è evidente per l’uomo. Per cui, a livello di fede Dio esiste, ma a livello umano Egli potrebbe non esistere, poiché l’uomo può anche ignorarLo; infatti scrive san Tommaso: «(Dio) non si può arguire che esista nella realtà se prima non si ammette che nella realtà vi è una cosa di cui non si può concepire nulla di più grande: il che non è concesso da quanti dicono che Dio non esiste».
Partendo proprio da questo “problema”, Tommaso sviluppa il secondo articolo. 

La dimostrazione dell’esistenza di Dio

Dopo aver appurato che Dio esiste anche se per l’uomo non è evidente, san Tommaso si chiede giustamente se ciò sia dimostrabile. Sorprendentemente la risposta è negativa. Sebbene inizialmente possa sembrare strano il perché di ciò, effettivamente dimostrare l’esistenza di Dio non è cosa semplice, poiché «che Dio esista è un articolo di fede. Ora, le verità di fede non si possono dimostrare, poiché la dimostrazione genera la scienza, mentre la fede è soltanto delle cose non evidenti, come assicura Eb (11, 1 ndr). Quindi non si può dimostrare che Dio esiste».
Se Dio non è dimostrabile lo è sia perché non si può trasformare la fede in scienza, come scrive san Tommaso, ma anche perché se ci venisse posta la domanda Che cos’è Dio? noi né sapremmo né potremmo rispondere, poiché «se ignoriamo il significato di è nella frase Dio è, allora ignoriamo ciò che Dio è», come affermò Gilson.
Sebbene siano innumerevoli le proposizioni attribuite a Dio (anche desunte dalla Sacra Scrittura), e sebbene esse siano tutte vere, tuttavia «non fanno conoscere l’essenza di Dio. Esse fanno conoscere ciò che è vero dire su Dio […]». Tuttavia all’uomo è permesso di dire ciò che Dio non è, come ricorda il Damasceno (citato sempre da san Tommaso): è su ciò che si basa la “teologia negativa”. Questa tesi dell’inconoscibilità divina nella vita terrena dell’uomo viene più volte sostenuta da san Tommaso nei suoi scritti, e il suo punto di arrivo è che «l’essere di Dio è ignoto».
Come ultima tesi contraria alla dimostrabilità dell’esistenza divina, Tommaso scrive: «se si potesse dimostrare che Dio esiste, ciò non sarebbe che mediante i suoi effetti. Ma questi effetti non sono a Lui proporzionati,
essendo Egli infinito ed essi finiti […]».
Nonostante queste obiezioni, nel sed contra san Tommaso chiarisce che anche in questo caso, come per le evidenze, ci sono dimostrazioni rispetto alla cosa in sé e dimostrazioni rispetto all’uomo.
Se la dimostrazione dell’esistenza di Dio è da farsi partendo dalla causa degli esseri (cioè Dio stesso), si tratterà di una dimostrazione propter quid, ovvero con una priorità ontologica; se invece si tratterà di una
dimostrazione partendo dagli effetti di Dio (cioè dagli esseri), si tratterà di una dimostrazione quia, ovvero con una priorità rispetto all’uomo. Non potendo dimostrare l’esistenza di Dio propter quid, partendo da Lui stesso per la Sua ineffabilità, san Tommaso, riprendendo le parole di san Paolo (Rm 1, 19), procede nel fare la dimostrazione quia: «Dio non può essere trovato se non come causa degli esseri dati nell’esperienza sensibile,
e l’idea che la ragione si fa di Lui s’innalza via via che essa conosce più profondamente la natura dei suoi effetti».
Ora, prima di proseguire, è necessario fare delle chiarificazioni sulla concezione di Tommaso circa il rapporto Dio-uomo, poiché sorge spontaneo il domandarsi quale sia il legame che unisce il Creatore e le creature, per cui il primo può essere conosciuto tramite i secondi. Dagli scritti di san Tommaso (primo tra tutti il celebre De ente et essentia) si possono dedurre queste caratteristiche: Dio (o Essere) è atto puro e la Sua essenza coincide con la Sua stessa esistenza. L’uomo invece (chiamato anche ente o sostanza) possiede di per sé l’essenza ma ha l’esistenza per partecipazione divina (actus essendi): per quest’ultima motivazione è possibile parlare di analogia tra Dio e l’uomo. L’essenza (o quiddità, ovvero unione di materia e forma) fa
essere una cosa ciò che è e la differenzia dalle altre cose (è al contempo quid e aliquid): essa è propria dell’uomo poiché è in potenza e non appartiene a Dio che invece, come si è detto poc’anzi, è atto puro. Ciò che dunque lega Dio agli uomini è l’essere in quanto esistenza. Così spiega san Tommaso stesso: «Bisogna porre un essere unico, che sia l’essere assolutamente perfetto e assolutamente vero […]. Bisogna che tramite questo essere unico siano tutte le altre cose che non sono il loro essere, ma hanno l’essere per partecipazione».
Tornando ora all’argomento dimostrativo dell’esistenza di Dio, san Tommaso afferma: «L’esistenza di Dio e altre verità che riguardo a Dio si possono conoscere con la ragione naturale non sono, come è detto in Rm (1,
19 ndr), articoli di fede, ma preliminari agli articoli di fede […]. Quando si vuole dimostrare una causa mediante l’effetto è necessario servirsi dell’effetto in luogo della definizione della causa, per dimostrare che
questa esiste […]. Da effetti non proporzionati alla causa non si può avere di questa una conoscenza perfetta; tuttavia in base a qualsiasi effetto noi possiamo avere la chiara dimostrazione che la causa esiste, come si è detto».

Secondo san Tommaso dunque, è possibile dimostrare l’esistenza di Dio, poiché essa non va accettata per fede, ma è consentito tentare di spiegarla razionalmente (ciò costituisce infatti uno dei praeambula fidei); per dimostrare adeguatamente che Dio esiste partendo dagli effetti, bisogna riconoscere veramente che Dio è causa di tutte le cose e di tutte Egli è la causa; infine sarà possibile avere una conoscenza di Dio, seppur minima e imperfetta: Dio infatti è solo conoscibile e non comprensibile.

L’esistenza di Dio

Si apre qui l’argomentazione più interessante di san Tommaso, in risposta alla domanda che ogni uomo di ogni tempo si pone e da cui è partita tutta la presente trattazione: Utrum Deus sit? ovvero Dio esiste?
Ancora una volta la risposta di san Tommaso è negativa. Ciò potrebbe quasi “scandalizzare” il lettore della Summa, ma il ragionamento del Doctor Angelicus è un esempio straordinario di dialettica nonché di altissima
teologia: il metodo utilizzato infatti è quello di far riflettere il lettore sul perché Dio non dovrebbe esistere (facendo esempi attualissimi), per poi condurlo pian piano alla verità della Sua indubbia esistenza, che avrà
come culmine le famose cinque vie.
San Tommaso si pone dunque, come ogni uomo in qualsiasi momento storico egli viva, il quesito tanto cruciale: «Ora, nel nome di Dio si intende affermato un bene infinito. Se dunque Dio esistesse non dovrebbe esserci il male. Viceversa nel mondo c’è il male. Quindi Dio non esiste». Egli stuzzica la mente del lettore a “convincersi” che effettivamente Dio non esista, e la prova di ciò è il male che devasta il mondo e che si contrappone alla Sua infinita bontà e alla sua misericordia (Sl 103 (102), 8).
Poiché si è discusso sulla dimostrazione dell’esistenza di Dio partendo dagli effetti di cui Egli è causa, san Tommaso reputa ragionevole chiedersi se all’origine di tutto non possa esserci la natura o, seppur limitatamente, l’uomo stesso: «Ora, tutti i fenomeni che avvengono nel mondo potrebbero essere prodotti da altre cause […]: quelli naturali infatti si riportano, come a loro principio, alla natura, quelli volontari invece alla ragione umana o alla volontà. Nessuna necessità, quindi, dell’esistenza di Dio».
San Tommaso reputa che questi due quesiti possano ben rappresentare in sintesi le convinzioni che l’uomo ha per reputare che Dio non esista. Enuncia ora i sed contra all’inesistenza di Dio. San Tommaso pone come base solida per dimostrare l’esistenza di Dio la Rivelazione. Come riporta egli stesso nella Summa, Dio ha dato prova della Sua esistenza non solo con le opere, ma anche con la voce: «Io sono colui che sono» (Es 3,14).
Su questo punto, san Tommaso non si dilunga in spiegazioni, poiché la Parola di Dio è sufficiente, ma considera ciò di fondamentale importanza come premessa per le cinque vie che enuncerà subito dopo, infatti san Tommaso «è convinto di trovare nella fede che egli abbraccia un beneficio netto per la sua ragione». E’ interessante soffermarsi a riflettere su questo cardine della dimostrazione dell’esistenza di Dio dalla straordinaria bellezza.
L’analisi che il già citato E. Gilson fa a questo primo sed contra è la seguente: «[…] Il nome che si addice propriamente a Dio è l’Essere […]. Assentire alla Sua parola vuol dire credere che Dio è, poiché Lui stesso lo ha affermato. In tal senso, l’esistenza di Dio è accettata per vera grazie a un atto di fede nella Sua parola […]. Filosofi o non, tutti gli uomini ai quali la Sua parola è trasmessa per mezzo della predicazione della Scrittura […] sanno già solo per questo che Dio esiste […]. Mosè è superiore agli altri profeti (Dt 34, 10 ndr) grazie alla visione intellettuale che ebbe di Dio, poiché, egli, come poi anche san Paolo nella sua conversione, “ha visto l’essenza stessa di Dio” […]. Il teologo alla domanda se Dio esiste risponde con un atto di fede in questa
esistenza di Dio rivelata a Mosè in modo diretto […]. Per lui (san Tommaso) la fede consiste principalmente in due cose: la conoscenza vera di Dio e il mistero dell’Incarnazione […]. Ogni nostra conoscenza teologica di Dio comincia dunque con un atto di fede nella Rivelazione che Dio stesso fa della propria esistenza. L’Ego sum dell’Esodo è proprio al posto giusto, nella Summa Theologiae, prima di tutte le prove razionali e propriamente filosofiche dell’esistenza di Dio».
Dio stesso dunque, ha risposto alla domanda sulla Sua esistenza, con la Sua rivelazione verbale a Mosè e, in seguito, con la venuta di Gesù Cristo tra gli uomini: di ciò bisogna esserne certi, poiché Egli è Verità.
San Tommaso scrive ora quali siano le argomentazioni dell’esistenza di Dio dando uno sguardo razionale al mondo: esse sono le famose cinque vie che è errato definire dimostrazioni poiché egli non ha alcuna pretesa di dimostrare l’esistenza di Dio: esse infatti non sono prove logiche o matematiche, ma vie razionali che gli uomini (prima di tutti i gentili, ovvero i pagani) posso percorrere per affermare l’esistenza di Dio.
Esponendo le cinque vie, san Tommaso riprende le categorie aristoteliche di potenza e atto (vie 1, 2 e 5), le nozioni di essere, necessità e contingenza di Avicenna (via 3), nonché i gradi di perfezione platonici e il concetto di  finalità (via 4), poiché arriverà ad affermare il primato di causalità efficiente nell’ordine dell’essere come vedremo tra breve.

La prima via è quella del moto (ex motu), inteso in senso ampio, ovvero comprendente qualsiasi forma di mutamento. Scrive san Tommaso: «E’ certo infatti, ed è costatabile sensibilmente, che in questo mondo alcune
cose si muovono. Ora, tutto ciò che si muove è mosso da altro […]. Muovere infatti non significa altro che trarre qualcosa dalla potenza all’atto; e nulla può essere ridotto dalla potenza all’atto se non da parte di un ente che è già in atto». Poiché nessun ente è simultaneamente in atto e in potenza e poiché, procedendo all’infinito, non si troverà mai un ente così (infatti procedere all’infinito è negare la stessa realtà del moto), è necessario
riconoscere un qualcosa che sia sempre in atto, ovvero Dio che, come già si è detto, è atto puro nonché primo motore immobile.
La seconda via è quella della causa efficiente (ex causa) ovvero del ricercare un ente che si sia creato da sé e che sia stato creatore degli uomini: «[…] Non si trova, ed è impossibile, che una cosa sia causa efficiente di sé
medesima […]. Ora, un processo all’infinito nelle cause efficienti è assurdo […]. Se dunque nell’ordine delle cause efficienti non vi fosse una prima causa, non vi sarebbe neppure l’ultima, né l’intermedia […]. Quindi bisogna ammettere una prima causa efficiente, che tutti chiamiamo Dio». Questa seconda via ha dunque origine dall’anteriorità della causa rispetto all’effetto e pone Dio come causa prima e causa incausata.
La terza via è quella della contingenza (ex contingentia mundi), ovvero della possibilità di essere o non essere, e dunque di esistere o non esistere. Chi è dunque a decidere ciò? Da chi o da cosa dipende l’esistenza di tutto ciò che ci circonda?
Scrive san Tommaso: «Tra le cose ne troviamo alcune che possono essere o non essere: infatti certe cose nascono e finiscono […]. Ora, è impossibile che tutto ciò che è di tale natura esista sempre, prima o poi non è […]. Quindi bisogna porre l’esistenza di qualcosa che sia necessario di per sé, e non tragga da altro la propria necessità, ma sia piuttosto la causa della necessità delle altre cose. E questo essere tutti lo chiamiamo Dio».

La quarta via è quella dei gradi di perfezione (ex gradu), ovvero san Tommaso indica Dio in quanto perfezione somma delle cose: «E’ evidente infatti che nelle cose troviamo il bene, il vero, il nobile e altre simili
perfezioni in un grado maggiore o minore, Ma il grado maggiore o minore viene attribuito alle diverse cose secondo che esse si accostano di più o di meno ad alcunché di sommo e di assoluto […]. Vi è dunque un qualcosa che è sommamente vero, e sommamente buono, e sommamente nobile, e di conseguenza sommamente ente […]. Quindi vi è qualcosa che per tutti gli enti è causa dell’essere, della bontà e di qualsiasi perfezione. E questo essere lo chiamiamo Dio».
La quinta via è quella del finalismo (ex fine), desunta dal governo di tutte le cose che sfocia nell’ammissione di un’intelligenza ordinatrice. Scrive san Tommaso: «Vediamo infatti che alcune cose prive di conoscenza, come
i corpi naturali, agiscono per un fine, come appare dal fatto che agiscono sempre o quasi sempre allo stesso modo per conseguire la perfezione: per cui è evidente che raggiungono il loro fine non a caso, ma a seguito di una predisposizione. Ora, ciò che è privo di intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere conoscitivo e intelligente […]. Vi è dunque un qualche essere intelligente dal quale tutte le realtà naturali sono ordinate al fine: e questo essere lo chiamiamo Dio».
Come si è potuto notare, le cinque vie sono puramente razionali, e dunque autonome dalla fede, sebbene per san Tommaso «la sola certezza infallibile e assolutamente vera resta quella dell’atto di fede».
Molti pensatori hanno raggruppato le cinque vie in una sola secondo cui la contingenza di tutte le cose del mondo rimanda a Dio, senza il quale nulla sarebbe creato.
Nonostante ciò, E. Gilson afferma che è necessario che vi siano molteplici vie poiché «Dio non può apparire come la conclusione inevitabile di una sola linea di pensiero sul mondo, bensì come la conclusione di tutte quelle linee lungo le quali la conoscenza umana del mondo può raggiungere profondità». Pur essendo molteplici e singolari, le vie hanno in comune il passaggio dall’esperienza ad un principio che trascende l’esperienza. Dopo l’esposizione delle cinque vie, restano però in sospeso le due domande che san Tommaso si era posto all’inizio dell’articolo 3, facendosi portavoce della ragione umana: se Dio è buono com’è possibile che ci sia il male? E perché proprio Dio è casa di tutte le cose? San Tommaso risponde in maniera limpida e chiara e senza troppe argomentazioni a questi due quesiti, poiché ogni altra parola risulterebbe eccessiva. Così egli scrive nella soluzione alla prima domanda: «Come dice Agostino: “Dio, essendo sommamente buono,
non permetterebbe in alcun modo che nelle sue opere ci fosse del male se non fosse così potente e buono da trarre il bene anche dal male”. Appartiene dunque all’infinita bontà di Dio il permettere che vi siano dei mali, e da essi trarre dei beni».
Al problema della seconda domanda invece, san Tommaso risponde specificando come «la natura ha certamente le sue attività, ma dato che le compie per un fine determinato sotto la direzione di un agente superiore, è necessario che esse vengano attribuite anche a Dio, come alla loro prima causa. E similmente gli atti del libero arbitrio devono essere ricondotti a una causa più alta della ragione e della volontà umana, poiché queste sono mutevoli e defettibili, e tutto ciò che è mutevole […] deve essere ricondotto a un qualche principio immutabile e di per sé necessario, come si è detto».

Conclusione

«L’uomo non si deve spingere verso ciò che supera la sua ragione» scrive san Tommaso riguardo alle discipline scientifiche riprendendo la Scrittura (Sir 3, 22), infatti «è certo che l’esistenza di Dio si può dimostrare razionalmente, ma le dimostrazioni che vengono proposte non sono tutte probanti», altrimenti si oserebbe troppo, cercando di comprendere Dio, il quale, come si è già affermato in precedenza, è solo conoscibile e per di più lo è solo in maniera imperfetta.
Non può però essere negato tuttavia che san Tommaso introduce l’uomo in maniera straordinaria alla conoscenza (per quanto possibile) di Dio mediante l’uso complementare della ragione e della fede. Scriverà Gilson a tal proposito: «Il filosofo cristiano è un pensatore che, lungi dal credere per esimersi dal comprendere, è convinto di trovare nella fede che egli abbraccia un beneficio netto per la sua ragione»; e ancora: «La genuina nozione cattolica di fede […] non implica affatto la svalutazione della ragione; è vero che per il credente ciò che egli crede è più certo di ciò che vede, ma questo non significa affatto che egli debba escludere le certezze naturali per lasciare spazio alle sole certezze di fede».
Ma qual è, infine, il senso di questa ricerca che compie san Tommaso nella Summa e in tutte le sue opere, e che in maniera più generica e più semplice compie l’uomo? Per quale motivazione la nostra ragione tenta in maniera naturale di oltrepassare il campo dell’immanenza per conoscere l’Assoluto? Ogni essere umano, come abbiamo visto, ha idea di ciò che sia Dio, e in maniera naturale cerca di dare risposta a quell’attrazione che sente verso l’infinito, verso ciò che lo completa. L’uomo dunque, anelando alla perfezione di Dio, è spinto alla conoscenza divina e all’amore per il prossimo. Spiega infatti Gilson: «(l’uomo) dapprima ama il suo essere, sforzandosi di preservarlo, di farlo durare e di difenderlo contro i pericoli di morte che lo minacciano. Poi ogni essere finito, oltre all’essere che è, ama anche ciò che, negli altri esseri, è complementare del suo essere e a lui assimilabile».
Ciò che Dio domanda all’uomo, Sua creatura, in ogni tempo, è di poter vivere in maniera onesta e limpida, di condurre un’esistenza che tenda alla perfezione divina, ricercando sé stesso in Lui, e divenendo Suo testimone
nella vita terrena, dando ragione di quella speranza che, come ha insegnato san Tommaso, lo muove, che è sua causa, che è fulcro della sua stessa vita, che è sua aspirazione, e che è il suo fine. Lottando contro la deriva antropologica, sarà l’uomo di oggi e di domani in grado di fare questo?